L'attesa del pasto nelle carceri avviene generalmente in un silenzio interrotto solo dal rumore dei passi dei “portavitto” che si avvicinano, dal clangore metallico delle chiavi e dall'apertura delle porte di metallo; l'attesa diventa palpabile, quasi un'entità a sé stante che occupa la cella. Quando finalmente il carrello del cibo arriva, si crea una sorta di rituale meccanico. Il cibo è spesso insapore, la consistenza monotona, e raramente offre una vera soddisfazione, c’è quello che offre “la casanza” (nel gergo carcerario è il carcere stesso). E in Italia, anche causa del sovraffollamento delle carceri, gli oltre 67mila ristretti mangiano chiusi in cella. «Al 31 marzo 2024 erano 61.049 le persone detenute, a fronte di una capienza ufficiale di 51.178 posti. In 56 istituti penitenziari, oltre un quarto di quelli presenti in Italia, il tasso di affollamento è superiore al 150% con punte di oltre il 200% negli istituti di Milano San Vittore maschile e Brescia "Canton Mombello"»: a comunicarlo è Antigone, associazione che dal 1991 si occupa del sistema penitenziario e penale italiano.
Il bagno, un locale multifunzionale
Sebbene sulla carta le cucine carcerarie abbiano dei menu settimanali che passano al vaglio di un medico, la realtà, salvo poche eccezioni, è che danno quello che possono, cucinato come possono. La monotonia accomuna la "casanza" di tutte le galere. «La cucina non c’è all’interno delle celle», spiega la giornalista Isabella De Silvestro in un articolo pubblicato nel 2022 su Cibo, l'inserto del quotidiano Domani, «eppure la grande maggioranza dei detenuti italiani cucina e mangia in cella - colazione, pranzo e cena - per anni, decenni e talvolta per tutta la vita». Anche il bagno in cella diventa un luogo multifunzionale, viene usato per necessità corporali, per lavarsi e anche per cucinare. In queste condizioni, i detenuti sviluppano una sorprendente capacità di adattamento e creatività. Un fornello da campeggio diventa il fulcro delle attività culinarie e la finestra con le sbarre spesso funge da frigorifero. Di coltelli, forchette, cucchiai e piatti non se ne parla, è tutto fatto in plastica, per sostituire i normali attrezzi da cucina: «Un manico di scopa diventa il mattarello per stirare la pasta, la grattugia si ricava da una scatoletta di tonno», racconta un ex detenuto alla giornalista.
Codici di sopravvivenza
La dieta dei detenuti è spesso integrata dai pacchi inviati dalle famiglie, seppur con severe restrizioni: «Formaggio solo tagliato a fettine sottilissime, carne solo senza ossa», nota De Silvestro. Nel microcosmo delle celle, nascono codici di convivenza e abitudini: ognuno contribuisce come può, e il momento del pasto diventa un raro momento di normalità e calore. Anche lo status sociale delle persone ristrette, passa attraverso la cucina e il cibo, prosegue la giornalista: «alcuni ricevono grandi pacchi dalla famiglia, mentre per chi è meno abbiente o non ha una rete familiare, la situazione è molto più difficile». Questa realtà, anche se lontana dal comfort della vita esterna, riesce comunque a mantenere una certa dignità: «Mangiare per vivere e non per sopravvivere continua a essere una manifestazione rilevante di dignità», osserva la giornalista.
Il sopravvitto
Il cibo fornito dall'amministrazione penitenziaria è spesso descritto come insufficiente e di pessima qualità. «Il vitto che passa il carcere è una forma di tortura», afferma un detenuto secondo quanto riportato da Cibo. Minestrine annacquate, wurstel, uova, carne maleodorante e pane vecchio sono la norma. Tuttavia, solo chi può permettersi di acquistare cibo attraverso il sopravvitto può migliorare la propria dieta. «La cifra che le carceri italiane hanno a disposizione per l'alimentazione giornaliera di un detenuto non supera i 3 euro e 90, nei quali deve rientrare il costo di colazione, pranzo e cena, che, occorre ricordare, viene pagato in gran parte dai detenuti stessi, ai quali è chiesta una quota di mantenimento che ammonta a circa 85 euro al mese, detratti dallo stipendio per chi lavora, o da pagare a fine pena per chi invece non ha un impiego durante il periodo di detenzione».
Quello che non funziona, è la selezione degli appalti, spiega meglio Isabella De Silvestro: «Gli appalti sono assegnati a ribasso e il problema è che vince l'azienda che riesce a offrire il pasto al prezzo più basso. Con tre euro, anche con le migliori intenzioni, come puoi fornire un pasto decente?». Questo sistema crea un circolo vizioso: le aziende che vincono l'appalto per il vitto gestiscono anche il sopravvitto, incentivandole a offrire pasti scadenti per spingere i detenuti ad acquistare prodotti dal sopravvitto a prezzi maggiorati. «Il carrello passa tre volte al giorno, tranne la domenica che passa solo due volte. La mattina offre caffè bollito in pentola e pane, a pranzo pasta incollata e scotta, e a cena carne di ultima scelta. Non sorprende che molti detenuti, non appena riescono a guadagnare qualcosa tramite lavoretti interni, come quello di "scopino" (l'addetto alle pulizie all'interno del carcere), spendano subito i soldi per un fornello da campeggio (essenziale per loro) e per il sopravvitto».
Lo spesino e il sovraprezzo
La vendita di cibo e beni di prima necessità all'interno delle carceri è complicata e spesso a prezzi gonfiati. «Compravo il bagnoschiuma a quasi tre euro, quando sono uscito l’ho trovato a novanta centesimi», è la voce di un ex detenuto, presa da un articolo del 2021 di Domani. La differenza tra i prezzi all'esterno e quelli del carcere varia tra il 25% e il 100%, come ha rilevato in un'inchiesta sul carcere di Rebibbia. Negli ultimi anni, la giustizia amministrativa e contabile ha cercato di porre rimedio a queste storture e il Consiglio di Stato ha censurato la base d’asta di 3,19 euro per il vitto, giudicandola insufficiente per garantire una qualità minima dei pasti. La Corte dei Conti ha poi annullato diverse gare d'appalto, tra cui quella del Lazio, evidenziando il conflitto di interessi tra la gestione del vitto e del sopravvitto. Gabriella Stramaccioni, garante dei detenuti di Roma, ha poi presentato un esposto descrivendo il disastro gestionale del sistema: «Il primo di scarsa qualità, il secondo dal costo esagerato».
«La cucina in carcere raggiunge picchi di creatività interessanti», osserva De Silvestro. Questo ingegno è spesso accompagnato da un forte valore simbolico, come quello del rituale del caffè. «Le carceri sono popolate da persone provenienti dal sud del mondo e dal sud dell'Italia, per cui il caffè assume una dimensione simbolica importante». Offrire qualcosa da mangiare, magari preso dallo spesino, è uno dei pochi gesti di ospitalità che possono ancora fare. Ma spesso, la frustrazione di non poter essere padroni nemmeno del proprio cibo è palpabile.