Istanbul è una città incredibile. Chi c'è stato vuole tornarci, ancora e ancora. Si estende su due continenti, con i suoi tramonti rossi e blu, che si moltiplicano grazie al Bosforo che fa da specchio, mentre i pescatori sospesi sui ponti lanciano le esce evitando quasi magicamente i turisti di passaggio e quelli con i gomiti poggiati sui parapetti con lo sguardo fisso sul sole che cala, i gatti randagi miagolano, i müezzin richiamano dai minareti i fedeli alla preghiera tante volte al giorno quante sono le dita della mano.

I pescatori al tramonto sul Ponte di Atatürk
È chiaramente il lato europeo dello stretto che unisce il Mar Nero al Mare di Marmara ad attrarre la maggior parte del turismo della città, in quanto ospita le attrazioni più importanti, come la Basilica di Santa Sofia e la Moschea Blu, o le lunghe passeggiate attraverso İstiklal Caddesi. Ma il lato asiatico, spesso trascurato dai visitatori, merita di essere esplorato più di quanto si pensi. I motivi per andare sono diversi, ovviamente, ma ce n'è uno in particolare anche per chi vuole conoscere la Turchia attraverso il suo cibo: Çiya Sofrası.

A colpi di vento
Per raggiungere l'altro continente, si attende il proprio turno al Kabataş Ferry Station, in mano la carta rossa dei mezzi pubblici, sul tabellone delle partenze c'è scritto "K-a-d-i-k-o-y". È la destinazione giusta. I traghetti non si risparmiano, seguono tragitti ben consolidati, capita, raramente ma capita, che alcuni siano costretti a rallentare all'improvviso per evitare spiacevoli collisioni. Circondati dall'acqua clemente, il vento, che è una caratteristica del crocevia del Bosforo, spettina tutto, fa volare giacche e scialli, ma nessuno se ne lamenta perché Istanbul ti accarezza di continuo.

Una volta arrivati si viene catapultati in un altra città. Anche qui i pescatori, senza ponti a disposizione, affollano le rive. Kadiköy, l'area residenziale ma informale, ospita un famoso mercato di pesce e ortofrutta dove si può mangiare la pizza turca (lahmacun), comprare cozze ripiene (midye dolma) e le olive condite in mille modi differenti. Lontani dal turismo di massa, i quartieri sulla sponda asiatica mostrano un lato più autentico e meno frenetico della metropoli. Lì, con lo sguardo che parte da est, la vita è più lenta, i panorami più cupi, le case più semplici, ma l'atmosfera che si respira è qualcosa che è ancora più lontano da quello che conosciamo. Gli artigiani e i venditori popolano le lunghe strade, alcune delle quali più silenziose, altre con le vecchie auto di importazione europea che borbottano in attesa ai semafori. Anche la luce qui è diversa.

L'altra Istanbul: Kadikoy
Si possono passare settimane a esplorare Kadikoy, essendo un quartiere costiero da oltre mezzo milione di persone con ottimi negozi, cibo turco incredibile, street art e una sensibilità energica e progressista. Nelle piccole piazze si incontrano spesso assembramenti politici, piccole manifestazioni di protesta, carretti con pani bucati e focacce rigonfie, girato l'angolo ci si può imbattere nel quartiere bohémien e rilassato di Yeldegirmeni, dove i turisti che si incontrano giornalmente non arrivano a dieci, eppure ha innumerevoli e graziosi caffè per la colazione. A Kadikoy, elemento non secondario, si può ottenere il massimo divertimento con una quantità minima di lire. In generale, infatti, questa sponda della megalopoli turca è molto più economica dell'altra più blasonata.

Perdersi tra le sue vie è una specie di rito, oltre al mercato, infatti, non lontano dalle stazioni della metropolitana di Ayrilik Çesmesi o Kadiköyo, si può apprezzare il lavoro di decine di artisti che hanno lasciato alla città enormi murales. Dal 2012, il Mural Istanbul Festival invita artisti di strada internazionali a dipingere le facciate degli edifici, sono passati nomi importanti come Aryz, Fintan Magee, Herakut, Inti e Pixel Panch. Ce ne sono davvero tantissimi, al civico 5 di Talimhane Sk si trova un murale monocromatico di M-City che raffigura un UFO che solleva da terra delle auto della polizia utilizzando un raggio traente. Il pittore spagnolo di muri Aryz ha dipinto un murale gigante, che ricopre la parete laterale di un vecchio edificio grigio, raffigurante un labirinto di tubi e condutture.

C'è anche la Istanbul di una volta, operaia, semplice, donne che vendono pane nelle botteghe invecchiate a colpi di decadi, gli uomini che giocano a carte dei bar scarrupati mentre bevono tè nei bicchierini di vetro adagiati su piatti bianchi e rossi, diffusissimi in tutta la capitale. Le brezze salmastre che arrivano dallo stretto stuzzicano l'appetito, in particolare in una città dove i residenti amano chiaramente mangiare, e mangiare bene. Durante il Ramadan, i ristoranti si riempiono dopo il tramonto, negli altri periodi la vivacità aumenta.

Il bancone di Çiya
La piccola tavola calda dal lato opposto
Tra questi c'è anche Çiya Sofrası. Pavimento di piastrelle grigie, tavoli di legno, menu stampati. Entri e vedi subito un grande banco self-service con meze venduti a peso. Il cuore si gonfia. I piatti caldi vengono serviti da un uomo dal volto spigoloso con un cappello bianco, camicia ancora senza macchine, grembiule porpora. L'idea è quella della mensa, i vassoi marroni invecchiati, il banco dove prendere le posate, ma la proposta non ha il sapore della mediocrità. Tutt'altro. Da Çiya si incontra quello che non si conosce e si impara subito ad amare.
Lo ha aperto Musa Dağdeviren, chef originario del sud della Turchia, che ha dedicato la sua vita a documentare, restaurare e reinventare la cultura gastronomica del paese. Un lavoro sconvolgente, da studioso e gastronomo, da cuoco ed esploratore, da uomo curioso. Da questo lavoro incredibile, dopo aver girato per mesi da cima a fondo la Turchia, parlando con persone di ogni tipo, anziani soprattutto, trascrivendo ricette che ormai neppure i local conoscono, ne è nato The Turkish cookbook: The Culinary Traditions & Recipes from Turkey. La Bibbia della cucina turca, un recupero archeologico di quello che stava per essere dimenticato, un manifesto della cucina di un paese che non ha davvero consapevolezza del suo potenziale culinario.

Çiya è un laboratorio di cucina anatolica. Di più: è una delle poche vie d'accesso alla cucina turca tradizionale nella sua interezza. E un primo segnale che fa capire che c'è qualcosa di insolito in questa piccola tavola calda è il kisir, una versione turca del tabbouleh (un'insalata di origine araba), dalla freschezza indescrivibile. Il gusto amarognolo del sommacco e della melassa di melograno, l’acidità del concentrato di pomodoro e il calore del cumino. I dolma di melanzane stufate - sono involtini di vite ripieni di carne macinata e riso che si trovano un po' da per tutto - richiamano quelli che i turchi preparano a casa, un piatto davvero autentico nella sua sobrietà. La zuppa di ortica così come le frittelle mücver con zucchine, patate, aneto e molto altro ben di Dio sono un pasto caldo e confortevole. Piatto dopo piatto, bicchiere di tè verde dopo bicchiere di tè verde fatto con le foglie di timo, sorso di sciroppo di tamarindo dopo sorso di sciroppo di tamarindo, si diventa visceralmente consapevoli che quella che si sta mangiando non è una cucina come tutte le altre.

Torneremmo subito da Çiya per rimangiare il bozbaş di agnello, curcuma, cipolla, albicocca, mele cotogne, castagne, patate o la casseruola di melanzane, aglio, tanto aglio, agnello, pomodoro e pasta di peperoni. E sì pure il mumbar, il budello ripieno di riso e carne. Un’insalata indecifrabile piena di chicchi di melograno, alghe e rametti misteriosi ha fatto il resto. A fine pasto si può infilare il naso nella vetrina dei dolci, meravigliosi, i pomodori canditi, lucidi come talismani, le melanzane candite in miniatura, torte ripiene di pistacchio. L'apoteosi della dolcezza. Una volta finito di mangiare, si comprende finalmente perché Çiya ha un effetto travolgente su molte persone, non solo sui nipoti dei turchi nostalgici della cucina casalinga. Musa ha creato un rifugio dove la cucina popolare viene salvata dall’oblio.
Foto di Sonia Ricci