“Beh, io quel pollo l’ho assaggiato, a Singapore, e devo dire che aveva il sapore proprio di… pollo. Strano da vedersi, nella vaschetta sembra quasi pongo! Ma quando è panato e fritto è esattamente pollo”. Massimo Cerofolini è appena rientrato da Singapore dove è stato per un servizio su carne e pesci coltivati (coltivati, non sintetici: di sintetico non hanno nulla essendo cellule staminali animali prelevate con biopsia e fatte crescere in bioreattori nutrendole – in proporzione – come si nutrirebbe un animale) che metterà in onda insieme a Monica Gambino per Codice, condotto da Barbara Carfagna, su Rai1 a fine giugno. E il pesce? Che sapore ha? “No, quello non ho potuto assaggiarlo: qui sono ancora indietro rispetto alla carne”. Anche se ormai – come scrive lo stesso giornalista in un suo post dalla città-stato asiatica riportando il commento dei ricercatori della start-up UmamiMeats – “in due settimane possiamo riprodurre tonni, anguille, dentici esattamente con lo stesso sapore e gli stessi valori nutrizionali di quelli presenti in natura”.
Il cibo coltivato. Carne o pesce? Oppure insetti?
Ecco, parliamo tanto di carne ma di pesce no. Molti si scandalizzano per le farine di insetti, ma in pochi si pongono il problema di fondo: quello della qualità. E di cosa si intenda per qualità. Se è vero che le lobby della carne sono più forti di quelle del pesce e quindi è comprensibile una maggiore preoccupazione rispetto al futuro degli allevamenti, questa motivazione sembra scomparire rispetto agli insetti: il mercato del novel food si stima infatti che possa triplicare nel quinquennio 2018-2023, passando da 82 milioni di dollari ai 261 milioni previsti per quest’anno aprendo opportunità per le aziende molto interessanti. E tra le aziende, va da sé, ci sono anche quelle della filiera del made in Italy, che – assicurano gli esperti di settore – già dispone di competenze adeguate. Dunque, se da consumatori storciamo un po’ la bocca soprattutto per gap culturali, a livello di business l’appetito sembra essere già stimolato. “Circa il 36% delle imprese europee che si occupano di novel food è coinvolta nella lavorazione finale degli insetti" spiega Steven Barbosa, public affair manager di IPIFF (International Platform of Insects for Food and Feed) "mentre il 28% segue tutte le fasi della produzione, dall’allevamento alla commercializzazione. E si prevede che questo mercato possa crescere in fretta arrivando a produrre circa 260.000 tonnellate entro il 2030”.
Sicurezza e business
Alla fine, anche se è vero che per quanto riguarda la carne coltivata le aziende che se ne occupano sono molto poche e di certo molte meno rispetto a quelle che lavorano con gli insetti, resta comunque che se si vuole affrontare il futuro con realismo e pragmatismo forse bisognerebbe attrezzarsi a fare i conti in maniera positiva con i risultati della ricerca scientifica e della tecnologia piuttosto che arroccarsi in difesa ostinata e contraria.
Certo, il primo aspetto riguarda la sicurezza e la salute. In questo senso, da quello che sembra, le attenzioni sono le stesse che si pongono nella produzione e trasformazione degli ingredienti e degli alimenti tradizionali, ovvero le norme che regolano l’HACCP. Attenzione dunque alle contaminazioni, alla pulizia, alle proliferazioni batteriche… Del resto, questa carne si chiama “coltivata” e non “sintetica” perché non c’è nessun processo di sintesi nella sua produzione: si parte da cellule staminali che si nutrono in contenitori controllati (bioreattori, come quelli che si usano per fare la birra o altre fermentazioni) con alimenti del tutto simili a quelli di cui si cibano gli animali allevati.
“Io” sorride Massimo Cerofolini “li ho visti quei contenitori e gli ambienti dove si producono questi cibi: devo dire che non sono solo puliti, ma di più! Se ci sono luoghi sicuri credo siano proprio quei laboratori dove sono stato per realizzare il servizio che andrà in onda a fine giugno su Rai1. Certo, l’analisi sulle conseguenze che potranno esserci sulla salute le lascio agli esperti”.
Ma alla fine, non ci sono polemiche e opinioni differenti – anche nel mondo scientifico – su molti dei cibi che mangiamo, a partire da carne sì o carne no?
Dove assaggiare la carne coltivata
Al momento, in ogni caso, l’asse ricerca-produzione di questi novel food è quello Singapore-Israele che poi sono gli unici due posti dove questa carne si può assaggiare. Parliamo della carne-carne, quella coltivata e basata su processi di crescita di cellule animali e non di quella plant-based di origine vegetale che invece da anni già si trova in commercio e che sembra aver raggiunto comunque ormai livelli di sapore e consistenza abbastanza soddisfacenti.
Nella città-stato asiatica c’è una macelleria a conduzione familiare, la Huber’s Butchery, nel cui bistrot si possono assaggiare un paio di piatti realizzati dalla start up statunitense Eat Just, finora l’unico prodotto di questo tipo ad aver ottenuto l’autorizzazione per la vendita e solo a Singapore. In Israele, invece, il pollo coltivato si può assaggiare nel ristorante dello chef Shachar Yogev che – come denuncia il medico Giorgio Calabrese – lo propone a Tel Aviv ma solo dietro la sottoscrizione di una liberatoria di responsabilità. Una prassi tutto sommato abbastanza logica, se si pensa che appunto siamo ancora in una fase di ricerca e sperimentazione.
Certo, poi rispetto a rischi e contaminazioni – dicevamo – vale quanto prescritto e studiato per tutti gli altri cibi: per esempio, probabilmente sarà difficile trovare microplastica o mercurio nel pesce coltivato e probabilmente non si troveranno in questi prodotti gli antibiotici che vengono utilizzati negli allevamenti intensivi di pesci, di polli o di altri animali, a meno che gli “allevatori” o “coltivatori” come si voglia chiamarli non ce li mettano: ma questo vale per tutto, sia per la carne coltivata che per quella allevata. E qui valgono, come per i cibi “tradizionali”, le norme stabilite dalle autorità sanitarie. Ecco, forse più che vietare sarebbe opportuno conoscere e approfondire per normare nella tutela del bene pubblico.
Agricoltura in ginocchio?
Questa è una domanda che possiamo fare per qualsiasi attività umana e di ricerca. Il progresso uccide il lavoro? Ci saranno più poveri a causa della Intelligenza Artificiale? La carne in provetta ucciderà la nostra agricoltura? Coldiretti è schierata contro e sostiene l’azione del Governo che punta a vietare questi cibi in Italia. Il portavoce della Commissione Europea è più cauto: «I principi che sottostanno alle regole europee per la sicurezza dei novel food – afferma Stefan De Keersmaecker – ci dicono che tali cibi devono essere sicuri per i consumatori e devono essere etichettati correttamente in modo da non trarre in inganno chi li acquista». Mentre fa muro il presidente nazionale di Cia: «La carne sintetica – sostiene Cristiano Fini – va nella direzione opposta a quella che è la nostra idea di cibo, basata sulla valorizzazione delle nostre produzioni agricole e zootecniche, simbolo di alta qualità e identificative dei territori e delle tradizioni nazionali».
Intanto, come hanno spiegato a Start Magazine due studiosi di Biologia Applicata dell’Università di Trento, Stefano Biressi e Luciano Conti, a oggi il processo di produzione di carne realizzata in laboratorio “può funzionare in laboratorio, ma di certo non è proponibile per una produzione su scala industriale” sia per i tempi che per i costi ancora molto elevati. I due studiosi si stanno proprio occupando di risolvere queste problematiche con il sostegno della prima e attualmente unica start-up in Italia che si occupa di carne colturale, il cui nome Bruno Cell è un omaggio a Giordano Bruno proprio per l’eresia associata a questo settore innovativo che, secondo Biressi e Conti, offre, tra l’altro, anche spunti sulla medicina rigenerativa. E se da una parte sembra comunque impensabile che 8 miliardi di abitanti della Terra (e i loro pet domestici) possano nutrirsi di proteine da carne allevata, dall’altra c’è anche da rilevare che se nel 2013 il primo hamburger da carne coltivata era costato circa 300mila dollari, nel 2021 la Future Meat Technologies ha annunciato di essere riuscita a realizzare un petto di pollo da 160 grammi a soli quattro dollari. Obiettivo: 5 dollari per un chilo.
E se cambiassimo modelli agricoli?
Ecco, qui entriamo in una vera e propria battaglia tra lobby di vario genere che non sempre si occupano del bene delle categorie che rappresentano. Se infatti il presidente di Cia afferma che la carne coltivata è lontana dalla nostra idea di gastronomia e dai valori del made in Italy e del legame con il territorio delle produzioni agroalimentari, potremmo ben dire che la carne coltivata ci toglie l’affanno di dover produrre proteine animali in maniera tradizionale per tutto il mondo e che avremmo la fortuna di concentrarci davvero su modelli di allevamento di maggior valore e qualità. Intendendo per qualità in primis gli elementi organolettici e nutrizionali del cibo “vero” che nel caso della carne (e del pesce, ma anche del grano, del latte e dei formaggi) sono legati a modalità di produzione e di allevamento non intensive. Su questo fronte ci sono alcuni esempi positivi, come quelli del Latte Nobile da vacche allevate a pascolo e comunque a erba da colture polifite o anche del latte-fieno.
Se gli agricoltori riuscissero a capire queste potenzialità e a puntare ad affrancarsi dalla schiavitù delle produzioni di quantità (realtà in cui l’Italia non può certo pensare di competere a livello mondiale, qual è oggi la dimensione dell’economia globale) la nostra agricoltura potrebbe fare un grande salto in avanti. Eppure, come denuncia un altro dirigente della Cia – Sergio Del Gelsomino, presidente territoriale Lazio Nord – «mente sulla carne coltivata il Governo alza i muri be sapendo che prima che diventi una realtà rilevante passeranno almeno una quindicina di anni, invece su una misura immediata come la realizzazione di un registro del Grano Duro proposta da Cia per tracciare il grano duro prodotto in Italia e quello importato e che in Italia transita e avere così un quadro preciso di quella che è la filiera del grano duro, lo stesso governo non vuole andare avanti».
Perché? Forse – si domandano gli agricoltori – perché le lobby dell’industria non hanno nessun interesse a far chiarezza sulle provenienze reali del grano duro? Ecco, magari si potrebbe partire proprio da qui per rimettere mano a un nuovo modello di agricoltura. Un modello in cui la carne italiana venga da allevamenti non intensivi e che possa essere per questo apprezzata nel mondo, oltre che nel nostro Paese: a prezzi ben più alti degli attuali, perché a quel punto – avendo anche l’alternativa della ciccia coltivata o di quella importata da altri luoghi- sceglierla potrà essere davvero una scelta.
a cura di Stefano Polacchi