Ma i cibi superprocessati sono davvero il nemico pubblico numero uno della nostra salute? Oppure demonizzarli può creare più danni che farne un uso moderato e consapevole? Il dilemma si sta facendo largo nei Paesi anglosassoni, dove si chiamano UPF (Ultra Processed Food) e dove nell’anno appena trascorso articoli e ricerche sono andati in una sola direzione: bannarli dalla dieta di chiunque. Ma ora qualche voce si sta facendo strada per contestare una visione così manichea.
Il cibo ultraprocessato, di cosa parliamo
Un articolo del Guardian a firma Amelia Tait ha posto la questione, ponendo molti dubbi su come il tema si stato trattato recentemente dagli organi di stampa. In realtà il primo problema si ha proprio con la definizione di cibi ultraprocessati. Che cosa vuol dire esattamente? Secondo l’autrice perfino l’infettivologo Chris van Tulleken, che ha dedicato al tema un libro di un certo successo (dal titolo piuttosto chiaro, che in italiano suona così: “Perché noi mangiamo roba che non è cibo e perché non possiamo fare a meno di farlo”) rinuncia dall’inizio a una definizione rigorosamente scientifica rifugiandosi in una spiegazione quasi aneddotica: “Se è avvolto nella plastica e contiene almeno un ingrediente che di solito non si trova in un cucina domestica standard, è UPF”.
Secondo Van Tulleken poi anche qualsiasi cibo commercializzato con strategie aggressive è di fatto un UPF. Né gli altri scienziati e le altre istituzioni che si sono presi in carico l’idea di una definizione rigorosa degli UPF abbiano fatto molto meglio. Anche se tutti sono d’accordo che chi mangia cibi UPF assuma fondamentalmente un maggior quantitativo di calorie e di grassi, in base ai criteri del confezionamento, del marketing e degli ingredienti non comuni uno yogurt ai lamponi sarebbe dannoso quanto un pacchetto di patatine.
Insomma, bisognerebbe quanto meno graduare il rischio e creare delle sottocategorie in base al fattore di rischio, senza fare di ogni cibo processato un junk food. Anche perché se un consumatore esclude dalla sua dieta quello yogurt demonizzato dalla scienza non è detto che al suo posto mangi qualcosa di più sano.
Esiti avversi sulla salute
Il prossimo passo è cercare maggiori prove del collegamento tra consumo di UPF ed esiti avversi sulla salute come malattie cardiache, cancro e depressione. Molti studi sugli UPF non tengono conto di variabili che interferiscono con i risultati, come la storia clinica di una persona, il fatto che fumi o meno e quante calorie assuma complessivamente.
“Le prove fino ad oggi devono essere trattate con cautela”, afferma un comitato scientifico che lavora per il ministero della Salute britannico. Anche perché un recente studio sostenuto dall’OMS ha scoperto che un po’ di UPF è effettivamente benefico per la nostra salute, poiché le fibre contenute nel pane e nei cereali sono associate a un rischio ridotto di sviluppare cancro, malattie cardiache e diabete.
Possibili disturbi alimentari
Il rischio maggiore, in realtà, è che continuare a spaventare i consumatori possa favorire alla lunga i disturbi alimentare, che nascono quando il cibo è condito da una buona dose di paura. La Tait cita Duane Mellor, dietista e ricercatore nutrizionale presso la Aston Medical School, secondo cui alcuni individui “stanno iniziando a evitare gli UPF e non riescono a soddisfare i loro bisogni nutrizionali, mettendo ulteriormente a rischio la loro salute”. Mellor pensa che sarebbe il caso di ribaltare il punto di vista, promuovendo i cibi sani (verdura, frutta, frutta secca, semi e legumi) piuttosto che demonizzando quelli su cui molti basano anche per ragioni economiche il loro regime alimentare.
La conclusione dell’autrice del Guardian è che di informazioni nutrizionali e dettami di medici e nutrizionisti siamo già pieni, e che spesso molte affermazioni scientifiche divulgate come vangelo si sono poi rivelate false o quanto meno parziali. Per questo è inutile terrorizzare le persone sulla base di informazioni su cui nemmeno la scienza è finora concorde. Anche perché un consumatore non può essere colpevolizzato per avere acquistato un cibo che forse un supermercato semplicemente non dovrebbe vendere.