Chi è Christian F. Puglisi
L’annuncio è arrivato lo scorso 10 settembre, a poco più di dieci anni dall’inizio del progetto Relæ, primo ristorante aperto a Copenhagen (oggi vanta una stella Michelin, un posto nella World’s 50 Best Restaurants e numerosi epigoni) da Christian F. Puglisi, che negli anni ha saputo costruire un articolato sistema di ristorazione nella capitale danese. Classe 1982, natali siciliani, Puglisi è cresciuto a Copenhagen ed è talentuoso “alunno” della scuola Redzepi, ma non rinnega le sue radici. E anzi è il connubio tra le sue origini italiane e la cultura danese a tessere la rete di suggestioni e spunti che il cuoco ha saputo trasformare in un successo imprenditoriale che spazia dal fine dining alla cucina tradizionale, passando per la pizza e il pane, la miscelazione e persino l’attività agricola, cui dà sfogo nella sua fattoria a 45 minuti dalla città. Alla metà di dicembre, però, Relæ e Manfreds (il primo pura insegna di alta cucina con forte attenzione alla sostenibilità, il secondo spazio più informale, dedito alla cucina a preponderanza vegetale calata all’interno di un moderno wine bar; insieme a Baest, Mirabelle e Rudo costituiscono il “sistema” Puglisi) chiuderanno per sempre: “We came, we saw, we conquered”, sintetizza lui facendo il verso a Giulio Cesare. “Ma ora è il momento, e sono orgoglioso di scrivere il capitolo finale e l’epilogo di Relæ e Manfreds con la stessa libertà che ho avuto dall’inizio. Non stiamo abbandonando la gara, abbiamo tagliato un traguardo”. Ne abbiamo parlato con lui, riflettendo sul futuro della ristorazione e della cucina, in un momento quanto mai incerto.
Relæ e Manfreds chiuderanno a dicembre. Quanto ha influito questo 2020?
Pensare che una decisione presa nel 2020 non sia influenzata dalla pandemia e dalle settimane di lockdown sarebbe ingenuo: significherebbe non avere nessuna sensibilità rispetto a quello che ci accade intorno, al mondo in cui viviamo.
Periodo duro…
Sì, lo è stato per tutti, in Danimarca tutto sommato siamo stati privilegiati, finora il virus non ha colpito duro come altrove, ma il lockdown l’abbiamo vissuto. Ed è stata un’esperienza scioccante: di colpo ha tirato via tutto, l’11 di marzo di colpo il ristorante non c’era più.
Che settimane sono state?
Sono state settimane di grande incertezza, gli aiuti poi sono arrivati, ma io allora non mi aspettavo nulla. Però è stata anche un’esperienza chiave: abbiamo perso tutto, ma in un certo senso è stato liberatorio.
Liberatorio, addirittura?
In una situazione del genere vedi sconvolto il tuo mondo, ma se hai forza e carattere puoi scegliere come iniziare a ricostruirlo. Ricostruire qualcosa che sia espressione della tua volontà è fondamentale: mi sono sentito in potere e capace di fare scelte per il futuro che maturavo da tempo, anche per motivi personali. Sarebbe stato più difficile farlo nel momento del successo: quando sei all’apice non vuoi mai sganciare la presa, c’è sempre qualcuno che ti ricorda quanto sei bravo. L’importante è mantenere il controllo, altrimenti c’è il rischio che il successo inizi a controllare te.
Hai detto che i ristoranti hanno un tempo per nascere, crescere, fino a smettere di evolvere ed esaurire le proprie risorse. Quando dieci anni fa hai avviato l’esperienza Relæ la immaginavi già con una scadenza?
Pochi giorni fa, parlando col mio socio, mi ha ricordato un episodio che avevo dimenticato, quando prima dell’apertura del Relæ l’ingegnere che venne per l’ispezione mi chiese se avevo idea di quanto tempo potesse durare un ristorante come questo. “Una decina d’anni”, risposi. Ecco, l’avevo rimosso, ma forse l’avevo già pensata così. Per me esiste una ristorazione “tradizionale”, che è una questione di famiglia, quando nasci dentro a un ristorante, fai di tutto per portare avanti il tuo nome o un brand, e vivi l’attività come un percorso che ti accompagnerà per tutta la vita. È una dimensione che dell’Italia è abbastanza peculiare, più che in Danimarca. Ma la ristorazione oggi può avere anche molti altri modi di fare, dinamiche diverse per svilupparsi. Il lavoro che abbiamo fatto al Relæ, incentrato su una ricerca continua, secondo me a un certo punto arriva al capolinea.
Ci stai dicendo che la creatività non si può replicare per più di un tot…
Eh sì, è come quando un musicista cambia ritmo: non smette di suonare, ma esplora altre strade. Non rinnego quello che ho fatto: da agosto 2010 ad agosto 2020, il Relæ ha dato forma a tante espressioni diverse, anche se sempre guidate da un’idea comune. Ma ora perché devo continuare? Per alimentare il mio ego? Avevo anche pensato di aprire un nuovo capitolo Relæ nel 2021, ma non sono ispirato. Io voglio prendere un’altra direzione.
Qualche anno fa avevi già lasciato la guida della cucina alla tua spalla Jon Tam. Questa svolta ti porterà ad allontanarti ancora o a riavvicinarti alla cucina?
Io ho tante idee, tanti progetti da realizzare. Ma paradossalmente questa sarà un’opportunità per rientrare in cucina, però in un contesto in cui mi sento più ispirato, con Baest e Mirabelle. L’approccio troppo spinto sulla creatività non lo sento più mio.
E quindi in pizzeria (Baest) o nel panificio\bistrot (Mirabelle) alla fine ti senti più a tuo agio?
Da Baest posso mettere le mie idee, ma la gente non pretende che inventiamo sempre qualcosa di nuovo: non voglio essere quello che tira fuori l’unica fermentazione possibile, non ho più voglia di stare in quella corsa a chi stupisce di più. Lo sono stato, userò le mie esperienze. Ma la cucina che mi interessa ora è più sostanziosa, semplice nell’approccio: è un processo che in realtà va avanti da anni. Finora il talento e la voglia di fare hanno giustificato l’esistenza del Relæ.
Dunque come definiresti oggi il tuo approccio alla cucina?
Io penso che oggi la semplicità sia una qualità assoluta, a partire dalla materia prima; e probabilmente è il mio lato italiano a farmi pensare così. Ma questo nell’alta gastronomia ha dato adito a una distorsione: fai finta di fare il semplice, ma complichi ogni cosa, e su un piatto finiscono per metterci le mani 20-30 persone. Questa non è una qualità. La mia riflessione è questa: che differenza corre tra processare una materia prima dentro a una fabbrica o portarla dentro a una fabbrica di persone, basata su idee narcisistiche, che vogliono trasformarla a tutti i costi? Eppure più sono complicate le cose, più arrivano riconoscimenti.
Stai mettendo sullo stesso piano l’alta cucina e l’industria alimentare, chef?
Ripeto quello che dicevo prima: siamo dentro a una distorsione che rischia di mettere da parte la semplicità, che deve invece stare al centro.
Ma il Relæ non è stato anche questo? E non si è imposto come punto di riferimento all’interno di questo filone?
L’approccio del Relæ è stato sempre molto semplice. Quando abbiamo aperto Manfreds, lì ho concentrato il lato più “rustico” del mio pensiero. Ma non mi piace l’idea di dovermi dimostrare semplice a tutti i costi: in un mondo che vive molto in superficie, fatto di social media e belle impressioni per gli occhi, si finisce per manipolare moltissimo le cose. E invece conta solo l’assaggio. È vero, il Relæ è diventato un punto di riferimento, per i clienti e per i ragazzi che volevano entrare in squadra. E abbiamo avuto riconoscimenti importanti, ma è importante non lavorare con lo scopo di procacciarseli: l’evoluzione dev’essere nostra, e se piace meglio così. In dieci anni ci sono stati tanti successi, ma anche momenti molto duri, non è mai stato un lavoro semplice. Ma sono fiero di aver mantenuto sempre l’indipendenza: ce l’abbiamo fatta fino alla fine.
Il tuo annuncio però ha colto di sorpresa tutti. Ora che ne sarà del progetto Relæ?
Ho dato la notizia in contemporanea pubblicamente e al mio staff. Solo Jon (Tam, ndr) e pochi altri lo sapevano, ne abbiamo discusso per settimane. Con lo staff ho fatto una riunione di confronto subito prima dell’annuncio, ci saranno tre mesi e mezzo di tempo per ognuno, per capire come riorganizzarsi.
E di quei locali che hanno segnato tutti gli Anni Dieci della gastronomia mondiale cosa farete?
Mi piacerebbe creare uno spazio per un giovane talento che abbia voglia di lanciarsi, per seguirlo a distanza, con meno coinvolgimento. Al momento ci sono due o tre persone interessate, ma si vedrà. Intanto le prenotazioni per gli ultimi mesi si sono intensificate, ma anche questa sarà un’incognita…
Certo, a Copenhagen, come dovunque, la situazione non è di certo stabile…
A luglio e agosto abbiamo lavorato benino, c’era più fiducia, ma nelle ultime tre settimane le cose sono di nuovo peggiorate, e si è deciso di limitare l’orario di apertura alle 22. Lo hanno fatto per limitare la movida, ma non hanno mica capito quanto questa misura penalizzi i ristoranti. Con il Relæ lavoriamo quattro giorni a settimana, avevamo ripreso con due turni discretamente pieni, ora riusciamo a farne solo uno.
È sostenibile questo a livello economico?
Non è sostenibile! Il provvedimento si esaurisce il 4 ottobre, sono convinto che torneranno su posizioni più miti: qui si discute molto sul lustro portato alla città dai ristoranti e il governo deve tenerne conto.
Ma la ristorazione uscirà cambiata da questo periodo? O magari è cambiata già?
Credo che all’inizio della primavera fossimo troppo convinti che si trattasse di una pausa prima di tornare alla normalità. Ora si respira di nuovo un forte nervosismo, cercare di adattarsi a una situazione che è in cambiamento costante diventa difficile, la cosa più sensata da fare è difendersi bene, limitare i costi e i rischi, cercare di stare ben solidi su due gambe. Questa idea di fare più pizza e meno gastronomia non mi convince. Piuttosto c’è da capire come si potrà vivere l’ospitalità: siamo condannati a stare distanti? Mi fa paura. Mio figlio di 8 anni, per tornare a scuola, ha dovuto capire come convivere con gli altri restando a distanza. Per un bambino è spaventoso, e a pensarci bene anche per noi. La convivialità è un valore importante, la ristorazione vive di convivialità, ed è un bel ruolo. Ma come possiamo svolgerlo?
Baest, Mirabelle e Rudo continueranno a lavorare. Le cose cambieranno?
Tutto parte da come cambierà il mio approccio alla giornata lavorativa: prima avevo mille cose per la testa, la sera pianificavo tutto, meeting, riunioni, assaggi, muovendomi da una parte all’altra. Ora spero di avere una vita più normale: vado al lavoro, sto fermo in un posto, faccio quello che amo fare, perché la vita del ristoratore mi piace, ma con 5 locali non puoi permettertelo. E questa nuova tranquillità mi darà più ispirazione, più energia per portare avanti Baest e Mirabelle, a livello gastronomico e di organizzazione. Baest, per esempio, non è una pizzeria, ma un ristorante che fa anche le pizze. Un posto semplice, dentro al quale mi divertirò ad applicare nuove idee.
Questa cosa che tu sarai personalmente in cucina al Baest sarà motivo di pellegrinaggi…
Beh credo che con me direttamente in azione si vedrà uno sviluppo più divertente, che deriva dall’idea di sintetizzare il mio lato italiano con l’appartenenza locale. Sarebbe bello se il 2020 ci portasse a capire che ridurre un po’ gli impegni ti può regalare di più. Se vuoi essere soddisfatto, devi prenderti del tempo per fare bene le cose. Fare cinquantamila cose mi è piaciuto, ma c’era dietro un discorso di ego. Domani potresti non avere niente, e allora oggi impiega il tempo per fare cose intelligenti, invece che correre dietro a mille cose. Ora sento di non dover dimostrare niente a nessuno, non perché mi consideri arrivato, ma perché sono consapevole di quello che voglio. Ho il controllo sulla mia vita.
L’orizzonte sarà sempre la Danimarca o pensi di esplorare altre destinazioni?
Ho pensato di fare cose in Germania, ho avuto offerte da Londra e New York, l’idea è bella. Ma la mia strada non è quella della ristorazione replicabile, anche se non contesto chi lo fa. Io vedo i ristoranti come figli, gli trasmetto la filosofia di vita, i miei valori, loro si sviluppano con personalità diverse, ma c’è bisogno di essere presente in certi periodi più significativi di altri: nei primi anni di un neonato devi esserci sempre, idem nella fase di sviluppo. Io devo stare dove sono i miei ristoranti.
a cura di Livia Montagnoli
Foto di apertura di P.A Jörgensen