Qualcuno salvi via Paolo Sarpi a Milano. Ascesa e declino della Chinatown milanese (e qualche perla da scoprire)

30 Ott 2024, 14:31 | a cura di
La Chinatown meneghina vive una nuova normalità, l'overtourism, con tutte le sue contraddizioni. Ma il quartiere ha vissuto molte vite e, nonostante i cambiamenti, mantiene ancora alcuni tesori da scoprire

Nella Chinatown milanese negli anni molte cose sono cambiate. Se in passato la sua crescita era legata all’attività frenetica della pelletteria e del commercio all'ingrosso della comunità cinese, oggi i residenti hanno iniziato a protestare a seguito dell'aumento (incontrollato) dei visitatori, dovuto ai sempre più numerosi locali di street food, ormai quasi una monocultura con i problemi che comporta, tra gli altri, di rifiuti prodotti dalle confezioni monoporzione. La notorietà di via Paolo Sarpi come food district di cucina, innanzitutto cinese, di qualità molto variabile, è cresciuta negli anni, ma come spesso accade l'aumento dei visitatori può degenerare nell'overtourism. Non è stato sempre così, nella vita avventurosa del primo quartiere internazionale, che ha cambiato molte vocazioni. Anche di fronte all'impatto dei turisti, la zona mantiene alcune perle, cinesi e italiane, che vale la pensa provare.

Un quartiere internazionale dagli inizi del Novecento

Per i milanesi nati nel secolo scorso, via Paolo Sarpi a Milano è sempre stato un luogo misterioso, la prima porta fisica alla presenza in città di altre culture quando ancora l’immigrazione era ben al di là dell’essere un tema. La via, così come il resto del quartiere incastonato tra il parco Sempione e il cimitero monumentale, erano un luogo grigio di una città grigia, brulicante di umanità con gli occhi a mandorla costantemente intenta a lavorare. Ci sono arrivati negli anni Venti i cinesi a Milano, spiega Francesco Wu, imprenditore della nuova ristorazione cinese, presidente onorario dell’associazione Italia-Cina e consigliere di Confcommercio Milano per l’imprenditoria straniera. Venivano dalla regione di Zhejiang e avevano costruito le ferrovie francesi durate la Prima Guerra Mondiale, per poi spostarsi in questa zona.

L’immigrazione di massa è invece successiva e bisogna aspettare gli anni Ottanta perché la comunità cinese cresca, dedicandosi principalmente alla pelletteria, ben prima che alla ristorazione. Significativamente, i primi ristoranti cinesi a Milano nati negli anni Settanta, come la Pagoda, il bellissimo La Muraglia e il Giardino di Giada, sono tutti in altre zone. Il quartiere Sarpi era sede di un tranquillo artigianato, che si trasforma nel 2000: la Cina entra nel WTO ed esplodono i commerci, con la Chinatown meneghina come piattaforma naturale. L’attività è frenetica e senza sosta, come il passaggio dei furgoni, e iniziano le prime tensioni tra le attività e gli abitanti storici, risolte dalla pedonalizzazione del 2007, pensata invero più per scoraggiare i commercianti cinesi che per ragioni ecologiche. Ma i cinesi sono straordinariamente tenaci e resilienti e il quartiere si reinventa, anche come distretto del food.

La nuova vita di Chinatown come distretto del food

Negli anni successivi aprono dunque nella via insegne cinesi tradizionali, come Jubin, e innovative nella proposta gastronomica e nella cura dei locali, come Ramen a mano, il locale di Francesco Wu, Chateau Dufan e la Ravioleria Sarpi di Agie Zu, che ha acquisito la vicina e storica Macelleria Sirtori. Il post pandemia è anche per Chinatown all’insegna di street food e overtourism, che ridisegnano l’offerta del quartiere in qualche modo normalizzandolo come via (l’ennesima) dedicata quasi interamente alla monocultura del mangiare. Spuntano come funghi locali di street food di varia qualità, dedicati ai prodotti di maggior successo, come i ravioli, i ramen e il bubble tea, mentre la speculazione edilizia imperante a Milano porta alla chiusura di insegne storiche come il Bar Torrefazione Coraçao do Brasil. Un’offerta caotica, che da un lato riempie la via, ormai stabilmente parte della movida milanese, ma dall’altro le toglie identità e svilisce l’offerta, oltre a presentare crescenti problemi di sostenibilità, come quello dei rifiuti prodotti dallo street food, denunciato di recente sulla stampa.

Alcune perle da scoprire

Fendendo la folla e i locali cheap, resta comunque molto da vedere. Oltre ai locali citati sopra, che rappresentano le punte di diamante dell’offerta cinese (aggiungo una passione personale, la minuscola trattoria Xiao Hutong di Paolo Hu) resistono insegne di gusto italiano che rappresentano la storia più antica del quartiere. Imperdibile è un calice da Cantine Isola, frequentatissima enoteca con mescita e carta dei vini chilometrica (anche i cinesi stanno aprendo più di un’enoteca nella zona). Altra istituzione è la pizzeria Da Giuliano, fra i migliori interpreti della pizza al trancio in teglia che ha segnato l’educazione alimentare dei bimbi di Milano, mentre devo ringraziare un amico romano per avermi fatto conoscere la giardiniera di Morgan alla Re della Baita, gastronomia di delizie impareggiabili. Fra le nuove proposte, nella vicina via Morazzone, spiccano i panini gourmet de La Cristalleria.

Quando, milanesi e no, andrete nel quartiere un invito: guardate i luoghi, le vecchie officine artigiane, i negozi multietnici, lo splendido museo del design da poco aperto in via Bramante, cercando di sottrarvi dalla confusione. Scoprirete un pezzo di storia di Milano che pulsa ancora.

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