Cena della vigilia e pranzo di Natale: le tradizioni delle feste nascono dai banchetti del Solstizio

24 Dic 2024, 15:03 | a cura di
I riti del “risveglio” del Sole somigliano in tutto il mondo alle tradizioni natalizie cristiane… Ecco come e perché

Le culture alimentari delle epoche preindustriali erano profondamente vincolate ai cicli naturali di luce e oscurità, di caldo e freddo; dovevano insomma adattarsi al ritmo scandito da solstizi ed equinozi. Proprio in un momento cruciale di tali cicli, il solstizio d’inverno, secondo la tradizione cristiana sarebbe nato a Betlemme Gesù di Nazareth. I credenti – e molti scettici – cresciuti nella cultura cristiana celebrano la sua venuta al mondo con generosi banchetti, che si consumano preferibilmente in famiglia e comportano un ritualizzato scambio di doni. Quando Gesù fece la propria apparizione terrena, era il tempo della pax romana e del regno di Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto (27 a.C.– 14 d.C.).

I Saturnalia romani di fine dicembre

Nella Roma dell’epoca, proprio verso la fine di dicembre si celebrava una festa molto sentita, quella dei Saturnalia, dedicata – lo rivela il nome – al dio Saturno, associato all’agricoltura e alla prosperità, simbolo di un tempo mitico caratterizzato da abbondanza, uguaglianza e pace. A quel che ne sappiamo, in origine la celebrazione durava un giorno appena (17 o 26 dicembre, le fonti non sono unanimi); fu proprio Augusto a stabilire che si dovesse estendere a tre giorni, per essere poi portata a un’intera settimana nei decenni successivi (17-23 dicembre). Cosa c’era da festeggiare? Il sole, che dopo un lungo calare si riprende; invincibile e invitto (sol invictus) risorge al momento del solstizio. La nuova religione cristiana avrebbe reinterpretato il momento nel Natale di Cristo, nuovo sole di salvezza, invincibile e risorto come l’astro del cielo.

La festa dopo il raccolto

Quando il sole iniziava a calare, nella Roma precristiana come in tanti altri luoghi e tempi di un mondo antico, il raccolto era compiuto, bene o male che fosse andata. Per affrontare l’inverno bisognava fare conto sulle riserve, compresi gli animali, non tutti destinati a sopravvivere alla stagione fredda. Ve ne erano di sacrificabili: le galline che già avevano dato molte uova (saggezza popolare insegna che quelle più vecchie “fanno buon brodo”), i galletti castrati trasformati in capponi, le mucche e i buoi che avevano fatto il proprio tempo, i maiali ben ingrassati.

La festa andava preparata, attesa anche con qualche sacrificio alimentare che consentisse poi di godere a pieno dell’abbondanza. Lo testimoniano i complicati calendari di digiuno e astinenza del Medioevo cristiano, i quali avrebbero sempre preteso che il 25 dicembre non si dovesse rinunciare a nulla. Il giorno di letizia andava salutato rendendo omaggio persino a un sobrio e moderato appetito, a patto di non eccedere nel peccato di gola. Torniamo dunque all’avvento, prima e dopo l’anno zero, per dare spazio a verdure e pesci, va bene anche se prelibati come l’anguilla cotta e conservata con l’aceto, specie la femmina di grande taglia: il capitone. Quanto al maiale, la sua uccisione era e tuttora è seguita dal competente lavoro dei norcini, che del sacrificato non buttano via nulla, trasformandolo in una abbondante quantità di cibarie, alcune delle quali vanno consumate nel volgere di pochi giorni, mentre altre si possono conservare a lungo. Tra quanto si deve mangiare subito o quasi ci sono alcuni impasti di carne e grasso, insaporiti da sale e spezie, avvolti in suini involucri fatti della pelle (cotechino) o della zampa (zampone). Tutto torna. La frutta in pieno inverno non si raccoglieva, era il periodo in cui andava lasciata maturare. Certo, nei tempi remoti i ricchi potevano stupire i commensali presentando sulla tavola del banchetto qualche raro pezzo d’importazione (agrumi provenienti dal Meridione, per esempio), ma la soluzione più frequente era pur sempre quella di consumarne e offrirne di secca.

Presepe artistico napoletano

Il rinnovamento gastronomico cristiano

Nel rinnovamento gastronomico cristiano, molti alimenti sarebbero rimasti al proprio posto, pur nella modifica delle preparazioni culinarie, trasformate attraverso l’utilizzo di nuove spezie o la sempre più frequente comparsa di paste e pastine per i brodi. Del resto, bisognava pure adattarsi a nuovi palati, nuovi gusti. Ma non c’era solo il banchetto a caratterizzare il trionfo dell’età dell’oro augustea, che richiedeva anche particolari rituali: la sospensione di determinate regole sociali, se non addirittura la loro inversione, tanto che per un tempo limitato i padroni erano chiamati a servire i propri schiavi. Non mancavano poi i giochi e gli scambi di doni (spesso piccoli oggetti simbolici come candele o statuette). Le case e le strade venivano decorate con rami verdi, ghirlande e luci, in un’atmosfera di grande allegria e tolleranza.

Feste e banchetti in tutta la storia umana

Non erano però solo i Romani, non sarebbero stati però solo i cristiani a celebrare il giorno più corto dell’anno, l’inizio dell’allungamento delle giornate, la fertilità e l’abbondanza. Di queste feste la storia è piena, seguire le tracce anche di alcune soltanto ci consente un avventuroso viaggio, nel tempo e nello spazio.

Spostiamoci nel sudovest degli Stati Uniti, sugli altipiani dell’odierna Arizona settentrionale, dove prima dell’arrivo dei colonizzatori europei vivevano e ancora oggi vivono, ridotti nel numero, gli Hopi. Sono i membri di una nazione nativa americana appartenente alle genti pueblo, agricoltori che per il proprio sostentamento contavano principalmente su mais, fagioli, zucca e melone. Avevano dunque bisogno del sole, e le loro cerimonie ne tenevano conto; quella di Soyal, per esempio, che durava ben sedici giorni, quasi quanto le vacanze natalizie nelle nostre scuole. Soyal segnava proprio il momento in cui il sole ricomincia a salire nel cielo (un risveglio più che una resurrezione), portando con sé l’auspicio di una nuova stagione di crescita e di fecondità.

La festa prevedeva rituali di purificazione perché il popolo dei fedeli, così come il sole, si rinnovava; per farlo doveva liberarsi delle influenze negative dell’anno trascorso e preparare lo spirito al cammino indicato da quello in arrivo. Danze, canti e oggetti sacri servivano a invocare le forze spirituali della natura a protezione della comunità e a garanzia del ritorno del ciclo vitale delle stagioni e, di conseguenza, dei raccolti. Queste forze spirituali, i kachina, ricevevano in dono spighe di mais, scendevano dal loro regno sulla Terra e visitavano il popolo eletto proprio nel periodo di Soyal.

Assumevano forma umana, maschile o femminile, ed erano considerate benevole, in quanto associate a fenomeni naturali come la guarigione dei malati, la pioggia e la crescita delle piante. Per di più, quando apparivano, lasciavano dietro di sé cibo e doni per i bambini. Luogo predisposto alla celebrazione dei rituali erano delle camere speciali (kiva), di norma quadrate e sotterranee, nelle quali non tutti erano ammessi e dove si trovavano bastoni di preghiera (pahos) costruiti con piume legate e aghi del pino pinyon. Ma non bastavano i gesti e le cose, per completare il cerimoniale non poteva mancare il cibo, oltre a quello regalato ai e dai kachina: il piki, per esempio, un tipo di pane sottile fatto di farina di mais blu (conosciuto anche come mais Hopi, testata d’angolo di quella cultura alimentare), mischiato con le ceneri delle bacche di ginepro e cotto su pietre calde.

La rappresentazione del tradizionale Inti-Raymi degli antichi Inca, a Cuzco in Perù

Sotto l'Equatore, dove il Solstizio è a fine giugno

Non per tutti, però, il solstizio d’inverno cade in dicembre: c’è tutto un mondo sotto l’equatore, un mondo del quale fanno parte, per esempio, gli Inca, popolo delle Ande. Per loro il cammino del sole riprende a fine giugno, quando in calendario ancora è segnata l’antichissima festa dell’Inti Raymi, momento fondamentale della preparazione dei campi per la nuova semina. Inti è la parola quechua per indicare il sole, un dio che richiedeva e meritava le sacrosante invocazioni perché garantisse buoni raccolti e benedizioni per quanti lo imploravano, ma allo stesso tempo andava ringraziato per quanto aveva concesso nell’anno appena trascorso. Come per gli Hopi, il riallungarsi delle giornate rappresentava un risveglio più che una resurrezione, da salutare con il sacrificio di un lama bianco, simbolo di purezza e fertilità; con danze rituali ballate indossando abiti speciali; con una processione che attraversava la capitale dell’impero, Cusco, alla quale partecipava il sovrano (Inca).

Mais e chicha, gallina e cuy

Protagonista principale nei piatti del banchetto era il mais, dono di Inti al popolo; lo era anche nei bicchieri, riempiti di chicha, prodotto della fermentazione proprio del mais. Ci sono altri piatti, però, ad allietare una festa che ancora oggi si celebra (passiamo per questo dall’imperfetto al tempo presente), in un misto di omaggio ad antiche memorie e presentazione di attrattive per turisti. Pensiamo al chiriuchu, preparazione emblematica della regione di Cusco, il cui nome già dice tanto, composto com’è da due parole quechua, chir (freddo) e uchu (peperoncino). Gli ingredienti sono una combinazione delle tre regioni del paese: costa, sierra (montagna) e selva (foresta), cosa che ne fa un piatto dove c’è di tutto un po’. La tradizione racconta che al tempo dell’impero inca (Tahuantinsuyo) gli alimenti necessari alla preparazione del chiriuchu fossero portati dalle quattro parti dell’impero (Suyos) proprio per essere offerti al dio Inti al momento del solstizio. La loro lista è lunga: gallina bollita, porcellino d’India (cuy) al forno, charqui (carne essiccata di varia provenienza), tortillas o frittelle di farina, mais tostato, patate, formaggio, sanguinaccio, alghe marine, insaccati suini, uova di pesce e peperoncino rocoto.

La dipendenza della vita dal cibo

La storia non deve procedere forzando similitudini, ma neppure lo può fare ignorandole. Banchetti, danze, doni, rinascite, astri… sono tutti segnavia del cammino di uomini e donne, che al momento del solstizio d’inverno si riscoprono uniti nel comune destino della dipendenza dal raccolto e, in ultima analisi, dal cibo che li tiene in vita.

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