«Io sono il trattino tra Emilia e Romagna. Sono nato a Parma, quindi sono nato emiliano, ho vissuto lì fino ai dieci anni, poi sono andato a Faenza che invece è in Romagna, dove sono rimasto dal 1970 all’83, poi sono venuto ad abitare a Mordano che è praticamente il “trattino” tra l’Emilia e la Romagna. Se me lo chiedi, sono orgogliosamente emiliano, però sono romagnolo». Comincia così la chiacchierata intorno al cibo e alla tavola con Carlo Lucarelli, giallista e conduttore televisivo, appassionato di cibo e del buon mangiare…
Gastronomicamente parlando si sente più romagnolo?
In effetti sì. Se ci penso è così, ma senza entrare nelle diatribe tra tortellino e cappelletto o cose del genere. Poi tutta la mia famiglia era toscana: mia nonna faceva da mangiare alla Toscana, mia madre era di Marradi, quindi sarei più spostato sul versante tosco-romagnolo.
Però nella sua famiglia c’è anche una componente che viene da molto più lontano.
Mia moglie Jodith è eritrea ed effettivamente ha introdotto una certa novità nella nostra cucina, in particolare per quanto riguarda l’uso delle spezie e altre cose che nella cucina di mia madre non ci sarebbero state. Devo dire però che Jodith ha imparato subito la cucina emilia-romagnola: tira la sfoglia, cucina i piatti della tradizione, si è appassionata ed è anche piuttosto brava. Peccato che non abbia mai conosciuto mia madre, sarebbe stato un bello scambio, sicuramente avrebbe infilato il berberè nella sua cucina.
In famiglia sono nati dei piatti ibridi italo-eritrei?
In realtà no. Mi spiego meglio, di solito non vengono contaminate le singole ricette, facendo, che so, le tagliatelle al berberè, però per esempio, oggi a pranzo abbiamo mangiato spaghetti al pomodoro e zighinì (uno spezzatino di carne speziato con verdure e legumi), quindi l’incrocio c’è all’interno dello stesso pasto, ma non nei singoli piatti. Ci sono anche punti che non si incrociano: ad esempio in Eritrea non si mangia il maiale – non per motivi religiosi, ma per tradizione gastronomica – e qui da noi invece il maiale abbonda, quindi non è che facciamo una grigliata con il berberè: sono due cose che rimangono separate.
Lei si occupa di misteri, ma esistono misteri gastronomici che andrebbero indagati?
Diciamo che tra la mia area di “studio” che tratta di misteri e omicidi (il “giallo” in una parola sola) e dall’altra parte gastronomia e cucina c’è un’intersezione enorme da sempre. Ci sono, per esempio, un sacco di libri di ricette tratti da romanzi gialli, a partire da Montalbano, ma ancora prima fin dai tempi di Maigret c’è una forte connessione. Di solito gli investigatori dei romanzi mangiano o non mangiano, ma hanno sempre un rapporto preciso con il cibo.
Se allarghi il tiro, beh allora, si possono trovare cose ancora più interessanti: una volta avevo cercato di indagare sull’importanza del caffè nei misteri italiani. La nostra storia è piena di persone che dicono al magistrato «Adesso parlo io e metto tutti nei guai», poi bevono un caffè e ci restano secchi. Michele Sindona è forse il più famoso, ma si va da Gaspare Pisciotta al bandito Giuliano, oltre a tre o quattro generali dei carabinieri che si trovavano nell’anticamera dei magistrati e molti altri.
Come mai è stato usato proprio il caffè per commettere questi omicidi?
Innanzitutto il sapore amaro del caffè nasconde bene eventuali sostanze velenose, poi siamo italiani: un caffè non lo rifiuta mai nessuno. Non è come chiedere a qualcuno se vuole un piatto di tortellini: un caffè è la cosa più semplice da fare bere a chiunque. In generale, al di là del caffè, c’è tanta gente che è andata a tavola e non si è più alzata. Dal Rinascimento in avanti moltissimi sono stati uccisi attraverso il cibo o mentre mangiavano. È la cosa più semplice di tutte perché a tavola sei tranquillo, anzi spesso nel Rinascimento si trattava di cene di riconciliazione, poi all’improvviso si sbarravano le porte, entrava altra gente e il gioco era fatto.
Esistono altri misteri legati al mondo della tavola?
Il cibo è stato usato per risolvere alcuni casi, ad esempio. Molte volte si riescono a catturare i latitanti perché qualcuno deve portargli da mangiare, per cui basta individuare il vivandiere e seguirlo. Diventa più facile se conosci i gusti del latitante, a quel punto tieni d’occhio le persone che vanno avanti e indietro con quella determinata specialità e prima o poi lo trovi.
Ci sono poi famosi personaggi legati a doppio filo con il cibo: uno dei più grandi della stagione dei cosiddetti “misteri italiani” è Federico Umberto D’Amato, capo dei servizi segreti civili ai tempi della strategia della tensione, nonché cuoco raffinatissimo. Era un grande appassionato, soprattutto di primi piatti e quando faceva le riunioni con altri funzionari o politici stranieri, cucinava la pasta in vari modi.
Tra i vari piatti della cucina di Carlo c’è un piatto tradizionale romagnolo oggi quasi completamente scomparso: i “bassotti”.
Ah sì certo. Oddio io ci provo, Jodith invece li fa bene. Si tratta di una ricetta a base di tagliatelline fresche all’uovo che si dispongono ancora crude all’interno di una pirofila, a strati inframmezzati da burro, parmigiano grattugiato e noce moscata, poi vengono coperte di brodo e messe in forno fino a che il liquido non è completamente assorbito e la pasta cotta.
Dalla parte della famiglia di mia madre, che discende dai conti Morosini e Torriani, si racconta che i bassotti furono un’invenzione del cuoco del conte Torriani. Io li ho sempre trovati preparati solo dai parenti di mia mamma e una volta in un ristorante chiamati “basotti”, con una “s” sola, ma erano diversi, quasi in brodo e la pasta era più grossa. Forse un tempo erano più diffusi, oggi penso non li faccia quasi più nessuno, ma rimangono un piatto favoloso.
Domanda banale: qual è il suo comfort food?
Da romagnolo ti dico la grigliata. Se mi inviti a mangiare la carne alla griglia ti dico di sì di sicuro. Poi io ho la teoria della grigliata fino alla “grigliata avanzata”: quando mi capita di andare al ristorante in compagnia e prendiamo una grigliata a testa, immancabilmente il cameriere replica che è troppa e rischiamo di lasciarla. Siamo in tre e lui ci propone due grigliate, ma poi ci sono due pezzi di salsiccia… La teoria della grigliata vuole che se ne prenda una testa, mentre la teoria della “grigliata avanzata” pretende una grigliata in più da dividere tra tutti, nel caso qualcuno volesse ancora una braciola o una costolina. Tanto poi non si butta via niente perché quello che rimane lo si porta a casa.
L’agnello è un’altra di quelle cose a cui non so dire di no, poi ci sono alcuni primi che mi piacciono moltissimo come la gramigna alla salsiccia, oppure i tortellini in brodo, ma direi che questi mettano d’accordo un po’ tutti. Ma anche il pesce, basta che non siano granchi, soprattutto gli spaghetti alle vongole. Da bravo romagnolo non riesco a rinunciare alla zuppa inglese. Quando il cameriere sfodera una lista di venti dolci raffinatissimi, tutti fatti in casa, se c’è anche la zuppa inglese sono fregato perché prenderò quella di sicuro.
Magari dovrei essere un po’ più originale, ma alla fine sono le cose che prendo quando vado alla Sterlina, la trattoria qui vicino a Mordano: tagliolini al ragù di prosciutto (bianche, alla romagnola) o gramigna alla salsiccia, grigliata mista, fritto misto all’italiana con la crema fritta e zuppa inglese per finire.
Che rapporto ha con il fine dining? Le piace?
Sì mi piace, il fatto è che alla fine con Jodith e le bambine non riusciamo mai a organizzarci. È più facile che ci capiti se mi invitano, ad esempio al termine di una presentazione, quando scelgono un ristorante più raffinato rispetto alla classica trattoria.
E invece le cucine straniere?
Vado molto spesso in Francia e in Germania perché i miei libri sono tradotti lì e mi invitano ai numerosi festival che vengono organizzati, ma devo confessare che non ho mai avuto delle epifanie sul cibo. Insomma se devo dire scappo e vado a vivere in Francia, poi se posso scegliere torno in Italia a mangiare. Diverso invece se parlo della cucina cinese e giapponese: pur non avendo un palato particolarmente esotico, ho il massimo rispetto per quel tipo di cucina.
Mi è capitato di andare per due settimane in Cina con l’Istituto italiano di cultura che aveva portato diversi scrittori di romanzi polizieschi e devo dire che non ho mai mangiato due volte lo stesso piatto, con una varietà di cibi che sono poco o per nulla presenti nei ristoranti italiani. Altre volte, invece, trovo che all’estero la cucina sia generalmente più monotona rispetto alla nostra. La cucina tedesca, ad esempio, oppure quella marocchina le ho trovate un po’ ripetitive: posti bellissimi, ma diciamo che non ci andrei per un tour gastronomico.
Che progetti a livello professionale?
In questo momento sto realizzando un po’ di podcast, che ora momento sono un format molto richiesto, poi sto finendo “Dee Giallo” per Radio Deejay. Io e Giampiero Rigosi (scrittore e sceneggiatore bolognese) abbiamo ricevuto qualche proposta per fiction televisive, oltre ad aspettare il via libera per l’ispettore Coliandro e altre vecchie cose. Il mio prossimo impegno è però iniziare un nuovo romanzo su cui non ho ancora le idee troppo precise. Non sarà un romanzo di investigazione, non un classico giallo con un commissario di polizia e nemmeno uno dei miei vecchi personaggi: vorrei scrivere una cosa completamente nuova. L’idea è di raccontare una storia molto feroce e cattiva di una persona a cui succede una cosa e cerca di vendicarsi di quello che gli è successo. Mi piacerebbe prendere una persona come me, una persona normale, e metterla dentro una situazione e vedere fino a che punto può arrivare.