Cari critici gastronomici, è ora di smetterla di vivere nella vostra bolla

2 Ago 2024, 09:45 | a cura di
Lo scollamento tra la critica è la realtà non è mai stato così profondo. Si scrive per darsi un tono perdendo spesso di vista il riferimento ultimo: l'interesse del lettore (anche generalista)

Un sito di informazione generalista, Il Post, scrive un articolo sulla frollatura del pesce. Non sempre il pesce migliore è quello fresco, il titolo. Un articolo di qualche giorno fa, rilanciato sui canali social con una presentazione piuttosto goffa: «Non si fa frollare più solo la carne: ora nella grande ristorazione la frollatura è anche per il pesce». Non una grande scoperta, va detto. Ma insomma, si sa che il giornalismo è l’arte della rivelazione dell’acqua calda. Ma la community dei gourmet ci va giù pesante. «Ma non mi dire, uno scoop impressionante», riposta un critico gastronomico. «Non me lo sarei mai immaginato», commenta un giornalista gastrico piuttosto importante. «Adesso posso dormire sereno», ironizza un altro. “Avanguardiaaaa!”, sbraita un altro ancora. «Il primo dei tanti libri di Niland è stato tradotto nel 2020 ed è stato un grande successo. Se cerchi in Google “pesce frollato” trovi un mare di link. Se qualcuno è appena appena interessato alla cucina e curioso di suo, conosceva il concetto. Approcciarlo come se fosse una sconosciuta novità è cheap», argomenta un altro stimato gastronomo autore di molti libri sulla materia. Io, confesso, non sapevo chi fosse Niland, che scopro chiamarsi Josh ed essere un’autorità in campo ittico-gastronomico. Mea culpa, mea maxima culpa. E pensare che sono nato sotto il segno dei pesci.

L'articolo del Post che ha scatenato la critica

Scollamento

Ma quando è esattamente che siamo diventati così? Quando è che si è creato questo scollamento tra chi si occupa di cibo per professione e passione e tutti gli altri? Quelli, per intenderci, che al ristorante non vanno tutti i giorni e per la gran parte delle volte si tratta di pizzerie e cinesi. Quelli che del fine dining hanno un po’ di timore perché si sentono inadeguati e giudicati (e fanno bene, direi). Quelli che non fanno la spesa nel mercato contadino perché lo trovano caro e vanno alla Lidl. Costoro, insomma, hanno tutto il diritto di non sapere che il pesce si fa frollare e magari possono venirne informati dall’articolo di un sito (peraltro piuttosto autorevole) tra un pezzo su Hezbollah e un altro sui Giochi Olimpici. Notizie per gente normale, non per gastrofighetti.

I gastro-snob

Ghetto dorato

Ma il mondo della gastronomia va così, si è auto rinchiuso in un ghetto dorato da cui sbircia fuori solo per sentirsi superiore a chi non vi ha accesso. Qualche mese fa tutti a parlare di chef Ruffi, «il peggiore cuoco italiano del mondo». Un personaggio bizzarro, che si nasconde dietro una maschera e gira video di ricette pasticciate, piene di panna e di glutammato, «perché così fan tutti». Ok, magari non tutti ma certamente molti. Uno che non si sa davvero se ci faccia o ci sia e soprattutto chi sia: un comico? Un vero chef che vuole profanare i rituali dell’alta cucina? Un mestierante che svela cosa succede davvero nelle cucine? Un gastrofighetto talmente raffinato da prendersi gioco dei suoi simili? In fondo non importa saperlo, basterebbe prendere ciò che di buono questo tipo dal pesante accento campano potrebbe offrirci: una critica rozza e beffarda sulle cerimonie stellate, un vaccino contro la malattia del prendersi-troppo-sul-serio.

Un critico gastronomico

E invece no

E invece come sempre la combriccola dei gourmettari reagisce come una casta: non potendo criticare uno chef burlone sui social si scatena come un solo corpo contro il Corriere della Sera che pubblica l’intervista e contro la stimata collega che ha parlato con chef Ruffi. «Non hanno più contenuti seri da pubblicare», attacca uno. «Forse non li sanno nemmeno adocchiare i contenuti validi», aggiunge un altro. «Il Corsera non è più il quotidiano dei nostri tempi, ma quello dei click attuali», si lagna un terzo. Nessuno è sfiorato dal dubbio che alla gente la storia di un cuoco da strapazzo che è riuscito a conquistare centinaia di migliaia di follower sbeffeggiando i masterchef possa interessare. Per loro, per tutti i comunicatori della cucina che mangiano solo loro, i “contenuti validi” sono solo quelli relativi allo chef islandese che fa foraging estremo ai piedi dei ghiacciai. Una cheffe senegalese che nessuno potrà mai provare per pure ragioni logistiche dovrebbe interessarci più di un cuoco italiano che ci svela dei truccacci per fare dei piatti medi in tempi accettabili e che, in fondo parla e straparla di noi. E sentite il commento di un altro “esperto di ristoranti”: «Io comunque sono a un pranzo con Ducasse e Passard, facciamo la zuppa alla frantoiana e le rovelline». Perché io so’ io e il resto lo sapete benissimo.

La gastronomia è per tutti. O no?

Occasione sprecata

Ha senso una comunicazione gastronomica siffatta? La competenza è sempre da apprezzare, non lo discuto, ma non deve mai diventare un’arma impropria. Girare per ristoranti è spesso un premio a una sensibilità particolare e a una profonda cultura gastronomica, ma resta anche una fortuna che pochi possono vantare anche perché se non si è invitati è riservata a portafogli adeguatamente gonfi. E dobbiamo guadagnarcela raccontando il circo della gastronomia con umiltà ed empatia, soprattutto quando non scriviamo per una rivista specializzata ma su una testata per tutti. Magari in pochi ci leggeranno, ma tra quelli che avranno il buon cuore di farlo potrebbe esserci un curioso a cui il racconto apre qualche porta verso il paradiso. Invece no, preferiamo chiuderci nel nostro mondo annoiato in cui tutto è stato già raccontato, in cui “quella cosa si faceva già vent’anni fa”, “quello chef ha copiato”, “io lo sapevo già”, “io l’avevo mangiato già”. Da Massimo, da Niko, da René, da Ferran, da Bittor, da Virgilio. Sempre per nome di battesimo, non sia mai.

Viviamo in conventicole, gli impallinati del latte crudo, i profeti della birra sempre più artigianale, i soloni dell’affumicatura, gli apostoli della maturazione, i vati dello special coffee, i veggenti del vino rifermentato. Secondo alcuni di noi, il popolo disprezzato e con il colesterolo anabolizzato dal fast food dovrebbe tenere i volumi di Niland come livre de chevet. Ma in fondo alla fine siamo contenti che questo non avvenga, perché non potremmo più sentirci migliori. Anche basta, grazie.

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