Ebbene si, è arrivato il momento di dirlo. In un mondo in cui la cultura di prodotto è diventata parte essenziale del racconto e dell’esperienza di degustazione, crediamo sia il momento di fare chiarezza sul significato della parola Specialty e di contingentare il suo significato, sistemandolo nel suo ambito di riferimento.

Cosa vuol dire e come nasce la parola Specialty
Il termine Specialty Coffee è stato utilizzato per la prima volta nel 1974 da Ema Knutsenl, un’esperta del settore del caffè, in un articolo pubblicato sulla rivista Tea & Coffee Trade Journal, per descrivere i caffè con profili di flavour distintivi, coltivati in microclimi particolari e caratterizzati da una qualità superiore rispetto ai caffè commerciali. Da allora, la definizione di Specialty si è evoluta grazie anche a un protocollo di classificazione degli Specialty messo a punto dalla Specialty Coffee Association. Un caffè verde, cioè crudo prima della tostatura, deve ottenere un punteggio di almeno 80 punti su 100 in assaggio con il metodo di preparazione detto “cupping” oltre ad avere zero chicchi con difetti primari e massimo 5 difetti secondari, in base a una precisa tabella. Oggi, Specialty vuol dire anche pratiche di coltivazione, lavorazione e preparazione, che garantiscono la massima qualità e tracciabilità lungo tutta la filiera nelle zone di produzione.

La classificazione Specialty
La classificazione Specialty è assegnata a caffè venduti in totale assenza di ulteriori step di valutazione a valle dal chicco verde, ovverosia nella tostatura e nell’erogazione della bevanda. Queste lacune hanno creato una grande confusione nel consumatore e, a volte, anche negli addetti al settore.
Vediamo, dunque, quali sono le criticità del caffè tostato venduto e preparato come Specialty.
1. Specialty: solo Arabica
Il termine prende in considerazione solo l'Arabica: tale carenza è estremamente grave, poiché il consumo di caffè a livello globale si suddivide tra il 60% di Arabica e il 40% di Canephora varietà Robusta. Non aver classificato la Robusta come “Specialty” significa ignorare 4 chicchi di caffè su 10 coltivati nel mondo. Ignorare la Robusta significa trascurare i caffè che sono frutto di miscele tra Arabica e Robusta, lasciando senza una classificazione premium una parte importante delle tazze consumate nel mondo. Solamente qualche anno fa il Coffee Quality Institute, per fortuna, ha redatto un nuovo protocollo di valutazione per la Canephora definendo la “Fine Robusta”, dedicata alle migliori qualità di questa specie botanica.
2. Classificazioni solo su piccoli lotti
Il meccanismo di classificazione del caffè avviene mediante l’analisi qualitativa di un preciso e piccolo lotto che il coltivatore ha prodotto in una precisa e piccola parcella di terra in cui determinare condizioni pedoclimatiche hanno favorito lo sviluppo di un determinato profilo di flavour. Una volta venduto ai torrefattori, però, un caffè classificato Specialty o Fine non viene sottoposto ad alcun successivo controllo: secondo voi esiste una normativa che impone ai torrefattori di indicare il lotto di caffè in etichetta? No. E in assenza di una normativa precisa, chi ci dice che il lotto usato non sia ormai divenuto vecchio o che abbia subìto avaria durante lo stoccaggio?

3. Certificazioni solo su caffè verde
Si, avete capito bene. Stiamo parlando della criticità di tutte le criticità. Il castello sta per cadere. Per esempio, un lotto di caffè potrebbe venire tostato male, con un profilo di tostatura troppo chiaro, sottosviluppato oppure al contrario bruciato. Un caffè verde potrebbe essere conservato in un magazzino umido e prendere così un aroma difettato di muffa. Dopo la tostatura, quel caffè potrebbe essere lasciato a degassarsi all’aria e quindi prendere aromi sgradevoli di rancido. Un caffè può venire estratto con un sistema inadatto al suo profilo di tostatura oppure con una ricetta di estrazione che ne determina una sovra estrazione. Ebbene, in tutti questi casi, i caffè e le bevande preparate rimangono Specialty o Fine! Questo accade perché la classificazione, come già detto, non riguarda il caffè tostato ma la materia prima. Sorprendente, no?
4. Non esiste normativa di etichetta
Cosa accade se un torrefattore scrive in etichetta che un caffè è Specialty o Fine? Esiste un organismo di controllo della qualità di quel caffè che può dare al consumatore una garanzia di alta qualità? La risposta è no. Così, negli anni si sono viste tantissime etichette in cui assaggiatori “fai da te” si sono presi la briga di assaggiare caffè verdi e dare il loro personale punteggio. Sono così comparsi in etichetta veri e propri voti autoassegnati del tipo: “cupping score 87,5 punti”. Valutazione frutto di una degustazione non certificata e, molto spesso, soggettiva. Tale carenza di controlli sul prodotto finito nel mondo dello Specialty e dei Fine è paragonabile a una condizione in cui un produttore di vino potesse assegnare al suo vino un punteggio che lui ritiene adeguato. Non vi stupisce?
5. Chi controlla i giudici?
Sebbene, come spiegato, la certificazione di Specialty e Fine non riguarda il prodotto caffè torrefatto, e tantomeno il caffè preparato in bevanda, rimane un’etichetta che afferisce alla qualità del caffè verde. Bisogna menzionare che il Coffee Quality Institute è l’unico ente ufficiale che può rilasciare un certificato di classificazione del caffè Specialty e Fine con indicazione del voto in centesimi. In Europa non ci è ancora mai successo di vedere questi bollini di certificazione apposti sui pacchetti di caffè che abbiamo assaggiato. Pensate che le aziende cooperative o esportatrici nei paesi di produzione del caffè – le prime che classificano i lotti di Specialty e Fine – non effettuano alcuna certificazione ufficiale del punteggio e non esiste alcuna forma di controllo sul loro buon operato. Senza nulla togliere alla professionalità degli assaggiatori, corre però l’obbligo di segnalare l’assenza (anche a livello nazionale) di qualsiasi forma di filtro e di un organo di sorveglianza terzo che garantisca l’affidabilità dei voti. Allo stato, si corre consapevolmente il rischio di rimettere il giudizio sulla qualità della materia prima al solo insindacabile voto di un organo autarchico.
6. Il caffè torrefatto è un semilavorato
Altra criticità assoluta di questa filiera è l’estrazione, parte integrante della sua produzione. La bevanda caffè, infatti, passa attraverso il lavoro del barista in caffetteria e la competenza del consumatore a casa. Ma due baristi che hanno esperienze e attrezzature diverse e che utilizzano ricette di estrazione differenti, non saranno mai in grado di raggiungere lo stesso flavour in tazza. Allo stesso modo a casa, se compro un caffè Specialty come faccio a essere sicuro che la mia estrazione esalterà o manterrà il flavour positivo della bevanda e che quel caffè sarà davvero Specialty? Perché, se sto usando una ricetta sbagliata, potrei ottenere un flavour difettato. E allora, volendo essere sicuri di “bere” un caffè di qualità superiore, quale soluzione esiste? Nessuna (o quasi). Esistono solamente delle indicazioni di estrazione dell’espresso e del filtro, ad esempio l’uso del rifrattometro: ma è come se si volesse ridurre tutta la produzione di vino nel mondo a una sola e precisa tecnica di vinificazione in cantina. Un po’ riduttivo, no? Sarebbe già una buona idea indicare in etichetta la qualità dell’acqua e la ricetta di estrazione suggerita dal torrefattore in termini di: temperatura dell’acqua, pressione in macchina, grammi della dose, grado di macinatura, tempo di estrazione e peso della bevanda estratta. Ma questo a oggi non lo fa praticamente nessuno.
7. Specialty e Fine: mondo poco strutturato
In Italia, il caffè Specialty e il Fine vale al momento una percentuale quasi insignificante: rapportando il numero delle caffetterie Specialty sul totale dei bar, parliamo di un valore minore dello 0,2%. Sono pochissime le grandi torrefazioni che si sono organizzate per la produzione in serie di caffè Specialty. Questa realtà pone dinanzi a un’altra criticità. Buona parte dei micro-torrefattori non dispone di strumentazioni idonee per il controllo di qualità; inoltre, a volte c’è un’insufficiente formazione sulla tostatura e sulla valutazione sensoriale del prodotto finito. Il risultato di tali carenze è un’altissima variabilità della qualità del caffè tostato, da lotto a lotto. Insomma, pur mantenendo il fascino dell’artigianalità, c’è la necessità di ripensare al concetto di qualità.
Esiste o no la definizione Specialty o Fine?
Giunti al termine di questa riflessione, è doveroso domandarsi: “Ma allora, il caffè di alta qualità classificato Specialty o Fine non esiste?”. Assolutamente no: esistono tantissimi esempi di qualità. Il problema riguarda il meccanismo di classificazione e il riconoscimento di questa qualità. Allo stato dei fatti, la carenza di un sistema strutturato di riconoscimento e garanzia della qualità del caffè tostato e della qualità della bevanda estratta, pone tutti i torrefattori nella stessa condizione, ovvero quella di poter far sembrare Specialty o Fine ciò che speciale non è. Nell’impossibilità, vista l’assenza di alcuna certificazione sul caffè tostato, di far capire quanto il proprio caffè sia veramente buono rispetto ad altri.