Bocuse d’Or. Nord Europa protagonista
Decisamente non è una sorpresa quella che arriva nel tardo pomeriggio del 30 gennaio dall’arena del Sirha di Lione, dove il podio è stato allestito poco prima di proclamare i vincitori dell’atto finale del Bocuse d’Or, edizione 2019. Perché ancora una volta, su quel podio, le bandiere parlano chiaro, disegnando il trionfo dei Paesi Scandinavi, e di quella Nordic Cuisine da anni più che giustificata a rivendicare un posto di spicco nell’Olimpo della gastronomia internazionale.
Ma soprattutto - e qui la considerazione riguarda chi amministra la promozione e il finanziamento delle cucine nazionali, ancor prima che la forza innovativa di un movimento gastronomico - meritevole di aver investito tempo, fatica e risorse economiche nel ritagliarsi un peso crescente sullo scacchiere della diplomazia gastronomica europea. Tanto da sopravanzare la Francia, che pure continua a marciare unita al motto de “l’unione fa la forza”, e a promuovere la sua tradizione gastronomica è sempre stata bravissima, come dimostra in modo lampante la profusione di sforzi (e sfarzi) della due giorni lionese, e il compatto schieramento di chef in arrivo da tutto il Paese per sostenere la propria squadra e omaggiare la memoria di Monsieur Paul.
I precedenti nella storia della competizione
Dunque non inganni il risultato del 2017, che la medaglia d’oro l’ha fatta volare oltreoceano, verso gli Stati Uniti (quest’anno ben incoraggiati da un gruppo di calorosi supporter). Perché in quella occasione, secondo e terzo piazzamento se l’erano aggiudicati rispettivamente Norvegia – che nella sua storia al Bocuse ora conta ben 11 piazzamenti utili, di cui 5 vittorie - e Islanda. E anche nel 2015 la Scandinavia ricorda con orgoglio un’altra doppietta: prima la Norvegia, terza la Svezia.
Il podio 2019
Non arretriamo ancora nel tempo (anche se troveremmo ulteriori conferme), per concentrarci sul trio che è fresco di traguardo raggiunto: dunque oro per la Danimarca, argento per la Svezia, bronzo per la Norvegia. Cui si aggiungono il premio per il miglior commis, sempre per la squadra danese, e il premio al miglior vassoio, che tira in ballo anche la Finlandia. Premio di consolazione (?) per la Francia è il trofeo per la migliore esecuzione del piatto tematico, la Chartreuse di verdure con salsa ai frutti di mare, omaggio a Robuchon, che ha visto giocare la squadra francese in casa. Dunque i riflettori e i coriandoli dorati che piovono in sala al culmine della festa sono tutti per Kenneth Toft-Hansen, per il suo commis Christian Wellendorf (doppiamente premiato per il suo impegno), per il coach Rasmus Kofoed, oltre che per l’orgoglioso giurato danese Francis Cardenau.
Il primo, classe 1982 e chef patron di un ristorante nello Jutland da circa tre anni, non è nuovo alla competizione: già nel 2015 rappresentò la Danimarca alla finale del Bocuse d’Or, ma stavolta ha potuto contare sui consigli di un coach che è vittorioso veterano della gara (la Danimarca conta 17 partecipazioni, e 6 podi; l’oro arriva per la seconda volta dopo quello conquistato proprio da Kofoed nel 2011). Ad avere la meglio sugli altri 23 contendenti, la Chartreuse di verdure e molluschi ispirata a Madre Natura e un plateau di grande eleganza, presentati dalla Danimarca nella prima giornata di gara, che ha visto competere anche Martino Ruggieri per l’Italia.
Un rituale perfetto
Anche la giornata che ha portato alla proclamazione dei vincitori, seconda e ultima della finalissima, si era svolta secondo liturgia consolidata: 12 squadre in cucina dalle prime ore del mattino, 5 ore e 35 minuti a disposizione per completare entrambi i piatti, tifo da stadio sugli spalti, più animato del giorno precedente soprattutto per merito di Francia, Svizzera (con campanacci al seguito), Svezia e Tunisia, quest’ultima alla prima partecipazione.
Ognuno impegnato per stupire la giuria con effetti speciali, chi scegliendo di personalizzare il più possibile il tema dato – è il caso della Chartreuse origami del Giappone – chi intrecciando geometrie e decorazioni perfette, come il Belgio, con presentazioni di grande impatto. Così il taglio delle chartreuse diventa un rito meticoloso da seguire sul maxischermo col fiato sospeso, mentre vassoi degni del banchetto di Trimalcione sfilano avanti e indietro davanti ai tavoli della giuria. Al di là dell’agonismo, lo sforzo organizzativo è l’aspetto che più resta impresso una volta scemato l’entusiasmo della proclamazione. La macchina gira alla perfezione (e da quest’anno anche in diretta streaming online), ognuno sa esattamente qual è il proprio ruolo. E tutto contribuisce a trasformare l’arena del Bocuse in una sorta di dimensione parallela fuori dal tempo e dallo spazio, dove persino certi anacronismi estetici e concettuali sono funzionali a esaltare l’impegno, il talento e la bellezza profusi nella cucina. Questa è probabilmente l’eredità più potente che lascia in dote Paul Bocuse, ampiamente celebrato nella prima finale organizzata dopo la sua scomparsa. Lo ricorda commosso suo figlio Jerome, poco prima della proclamazione: “Vedere tutti qui riuniti, tanti chef che ci mettono dedizione e fatica, il pubblico che li incoraggia, la platea gremita di tante personalità del mondo della gastronomia mi emoziona. È il più grande omaggio che si possa desiderare per mio padre”.
Martino Ruggieri e il ruolo dell’Italia
E all’Italia, giunta quindicesima, cosa resta di questa esperienza? È un Martino Ruggieri soddisfatto quello che riflette sulla faticosa parentesi appena conclusa: “Dopo due anni finisce il mio Bocuse d’Or e si conclude un percorso umano fortissimo. Non avrei mai scelto autonomamente di candidarmi. Prima di arrivare in Francia ne sapevo poco di questo campionato mondiale, che invece per i francesi è spesso ragione di vita. Ho scelto di accettare la sfida perché me lo ha chiesto il mio chef, Yannick Allèno, e ora, guardando il percorso fatto, capisco che è stata una scelta giusta”. Una lezione di vita, ribadisce convinto, “che ti dà la possibilità di crescere nel confronto con gli altri”. Ma anche uno sforzo non comune: “Prepararsi per il Bocuse vuol dire mettere da parte la propria vita, personale e professionale, per due anni. Si lavora per rendere meccanici dei movimenti che devono tendere alla perfezione e a minimizzare gli errori; si impara a lavorare in team perché ogni gesto, ogni movimento deve essere calibrato in un equilibrio perfetto”. Poi, però, anche Martino non può far a meno di constatare quanto conti il sostegno nazionale per sperare in futuro di poter competere per il podio: “È importante capire che il Bocuse d’Or non è il concorso del candidato, ma di un Paese intero. Sarebbe bello che il prossimo candidato potesse contare sul supporto dei grandi cuochi italiani come avviene nei paesi nord europei e in Francia". Perché di cuochi italiani, in effetti, a Lione se ne sono visti pochi, e nel suo percorso di preparazione Martino si è confrontato più spesso con “i vecchi saggi della cucina francese” – come li chiama lui – che con i grandi che rappresentano l’eccellenza della cucina italiana. Perché? “L’Italia a volte sembra distratta”, chiosa lui. Che comunque ringrazia “tutte le istituzioni e gli sponsor che hanno creduto in noi e che ci hanno sostenuto, e tutte le persone che mi sono state accanto in questi due anni”. Ora Martino torna a fare quello che più gli piace: lavorare in una cucina reale. Yannick Allenò lo aspetta a Parigi.
a cura di Livia Montagnoli