"Non posso andare a letto senza cena: se mi fanno mangiare vomito tutto". La scrittrice Beatrice Sciarillo racconta la sua anoressia

3 Dic 2024, 09:35 | a cura di
"In trasparenza l'anima" è l'esordio letterario di Beatrice Sciarillo pubblicato da 66thand2nd. Racconta la storia straziante del disturbo alimentare di una bambina, poi diventata ragazza. In questo estratto del libro, il racconto di una cena in ospedale

Il sedere appoggiato sull’estremità della sedia, fisso l’orologio sulla parete di fronte. Il tempo della cena è cominciato da dieci minuti, il cronometro è partito e suonerà alle 19.50. Io non ho ancora toccato nulla, neanche la verdura. C’è una nuova operatrice di turno, Angela. È giovanissima e dimostra fin da subito una grande pazienza, quando si accorge che i miei contenitori sono ancora sigillati e che le mie mani sono nascoste sotto il tavolo mi viene vicino e mi esorta ad aprire le vaschette. Mi chiede persino se voglia trasferirmi in stanza per cenare da sola con un’infermiera, ma io la guardo e scuoto la testa. Non ho fame e nessuno può obbligarmi a mangiare. Angela non si arrende e mi dice che, se preferisco, può cambiarmi il nasello con la fettina di pollo. «È un’eccezione, ma si può fare». Io apro la bocca e le dico che non ho fame e che se mi fanno mangiare vomito tutto. Angela mi guarda, corruga la fronte e torna a sedersi a capotavola. Le ragazze hanno il capo chino sul vassoio e non fiatano.

Al mio fianco è seduta Sofia, la schiena curva in avanti e il sedere sul bordo della sedia. È come me, penso, Sofia è come me. Ha il terrore che, facendo aderire sedere e cosce alla sedia, il suo corpo possa deformarsi, diventare gigantesco. A metà del pasto, la vedo sollevare la mano sinistra da sotto il tavolo, agguantare un pezzo di nasello e infilarselo dritto nella tasca del pantalone. Ogni cosa avviene con la rapidità di un furto, con la scaltrezza di una rapina a lungo pianificata da chi conosce bene il mestiere. Angela non si è accorta di niente, è occupata ad annotare qualche appunto su un foglietto giallo; Giada e Federica neppure, la prima è impegnata a ispezionare la sua coscia di pollo, la seconda a sminuzzare la fettina di pesce e ad asciugare gli spinaci sul tovagliolo di carta.

Allo scadere dei cinquanta minuti previsti dalla legge dell’ospedale per la consumazione della cena, mentre il nasello di Sofia si sarà sbriciolato sul fondo della tasca, il mio è rimasto inviolato dentro la confezione di plastica. La forchetta non si è immersa nella sua consistenza gommosa, la mia bocca non l’ha assaggiato e le mie narici non ne hanno respirato l’odore. Solo i miei occhi sono rimasti, per cinquanta minuti, fissi su di lui. Prendo la confezione e la sposto il più distante possibile da me.

Il tempo è scaduto

Angela si alza in piedi. «Va bene ragazze» dice, togliendosi gli occhiali da vista e infilando i foglietti gialli in una cartellina crystal. «Il tempo è scaduto». Guardando prima una, poi l’altra, dà a Sofia e a Giada il permesso di tornare nelle rispettive camere. Sofia sorride soddisfatta, porterà il nasello in stanza, lo nasconderà nell’armadio o sotto il letto e poi, quando le infermiere riapriranno i bagni, lo getterà nel water e tirerà lo sciacquone. Giada invece aprirà l’ultimo cassetto dell’armadio e proverà a vomitare la coscia di pollo.

«Tu Federica, e anche tu Anita, venite con me» dice e si avvia verso l’uscita. Toglie il freno al carrello e lo trascina fuori dal salone. Sofia e Giada escono dalla stanza, io mi avvicino a Federica e sottovoce le chiedo che cosa vuole Angela da noi due.

«Come, non lo sai?» mi interroga lei, sgranando gli occhi.

«Chi non mangia, o non finisce il proprio pasto, deve assumere l’integratore». Mi guarda e ride. «Pensavi mica ci facessero stare a digiuno qui dentro?».

Lo spazzolino come cracker

Io mi blocco. Che stupida sono stata a pensare che mi avrebbero fatto andare a letto digiuna. Il digiuno non me l’hanno mai concesso neanche i miei genitori. Le uniche volte che riuscivo ad addormentarmi senza toccare cibo era quando loro e mia sorella uscivano a cena fuori con amici e io rimanevo sola a casa. Alle mie compagne di classe che mi chiedevano di uscire insieme rispondevo che quella sera proprio non potevo, avevo altri impegni: c’erano amici dei miei a cena e ci tenevano che io stessi con loro. Chiusa dentro la mia stanza, aspettavo che tutta la famiglia uscisse, mi rintanavo in bagno e buttavo il riso bianco che mia madre aveva cotto prima di uscire. Poi lasciavo il piatto sporco nel lavello e bevevo una tazza di tè caldo, perché la mia testa aveva bisogno di rimanere sveglia per studiare.

Quelle sere, sebbene non masticassi nulla, trascorrevo più di mezz’ora di fronte al lavandino a strofinarmi i denti. Mi guardavo allo specchio e ripetevo sui denti lo stesso movimento, avanti e indietro, che facevo quando camminavo. Masticare lo spazzolino era come rosicchiare un cracker, addentare una mela, tagliare un pezzo di torta, in quel modo cercavo di tenere a bada la fame che mi divorava da dentro. In meno di tre giorni arrivavo a consumare un intero tubetto di dentifricio menta e liquirizia.

Cena con integratore

Angela ci accompagna davanti all’infermeria. Da dietro la finestrella, Marco, l’infermiere, mi fa segno di entrare, mentre a Federica dice di aspettare davanti alla porta. Lei prende a camminare avanti e indietro.

Marco si avvicina alla luce della finestra e versa in un bicchierino di vetro una miscela rosa e collosa che sembra gelato.

Stringo gli occhi e gli chiedo cosa sia. Senza distrarsi dall’operazione, lui mi spiega che quel liquido si chiama «integratore energetico» e serve, per l’appunto, a integrare i nutrienti non assunti durante i pasti. Getta il flacone del prodotto in un bidone, poi mi mette il bicchierino tra le mani. È freddo, e spaventata gli chiedo se non sia per caso gelato alla fragola. Lui mi guarda e, pensando forse che la mia sia una battuta, scoppia a ridere.

«Sì, e che siamo, al bar?». Poi trascina uno sgabello vicino a me.

«Non mi siedo». Tra le mani, stringo il bicchiere ma non lo porto alla bocca.

«Va bene, però devi bere l’integratore».

Io scuoto il capo. Non sono scema, so che non è una semplice medicina, che conterrà più di duecento calorie. Sbircio nella pattumiera per leggere il nome del prodotto, più tardi lo cercherò su internet. Federica ci sta guardando da fuori, Marco si avvicina alla porta e la chiude.

«Se non vuoi l’integratore, devo farti una flebo» dice. «Non posso lasciarti andare a letto digiuna».

Io piego il collo, chiudo gli occhi, respiro. Sono in trappola. Allontano il bicchierino, lo fisso, saranno più o meno cento millilitri, non di più, meno di un vasetto di yogurt. Lo porto alla bocca e comincio a ingoiarne un po’. La sostanza è vischiosa e fatica a scendermi in gola. A ogni sorso che butto giù, divento sempre più pallida. Non posso non sapere quante calorie sto assumendo. Quando finisco di bere, sono passati più di cinque minuti. Marco mi sfila il bicchierino dalle mani, poi mi sorride e mi chiede di far entrare la prossima. Mentre esco lo sento dire: «È per il tuo bene, Anita».

Non appena sono fuori, Federica interrompe la corsa e mi guarda. «Bevuto tutto?» mi domanda, fissandomi negli occhi. Io non le rispondo, distolgo lo sguardo e la lascio entrare in infermeria. Poi, sbirciando attraverso il vetro che si affaccia sul corridoio, vedo Marco compiere con Federica gli stessi gesti di prima.

Lei, però, beve il liquido rosa tutto d’un sorso, come se volesse farlo sparire il prima possibile, come se fosse uno sciroppo per la tosse. La guardo da dietro. Sembra che si sia messa addosso gli abiti del padre, la felpa e il pantalone della tuta le stanno larghissimi e ci balla dentro. Porta i capelli castani raccolti in uno chignon; il viso scavato e lentigginoso pare quello di una bambina rimasta allettata per la febbre alta. Dev’essere più piccola di me, quando esce dall’infermeria le chiedo quanti anni ha.

Il "fascino" della malattia

«Diciannove» risponde lei, e mi racconta di aver da poco compiuto gli anni. È nata il 29 dicembre e ha festeggiato in reparto Natale, compleanno e Capodanno. Le domando da quanto tempo è ricoverata e lei mi dice che non esce di qui da più di tre mesi.

«Più di tre mesi?» chiedo stupita.

Lei non risponde, si limita ad annuire.

«E ti manca la tua famiglia?».

«Mia madre». Ripete più volte che la madre le manca molto, mentre con il padre non ha più rapporti. I suoi genitori sono divorziati e da quando ha cinque anni vive sola con la mamma.

A settembre ha iniziato l’Istituto di Design, ma ha dovuto lasciare al primo semestre perché non ce la faceva più. «Ero troppo stanca» afferma con una voce da bambina. Poi sospira e cambia discorso. «Hai capito dove puoi camminare?» mi chiede. Annuisco e indico in fondo al corridoio.

«Sì, il posto che era di Teresa» dice, come se non ricordasse di avermelo già detto stamattina. Mi domando se, oltre che bugiarde, le ragazze del reparto siano anche senza memoria.

Spaventata dall’ipotesi, mi giro per andarmene, ma lei mi afferra per il braccio destro. Le sue mani sono asciutte e rapide a muoversi, le dita affilate e le unghie appuntite. Mi stringe con prepotenza, mi tira a sé, si accosta al mio orecchio. «Non voglio più vederti con Flavia, non devi stare mai con lei» sussurra.

«Perché?» le domando, svincolandomi dalla presa delle sue mani. Il suo odore ravvicinato di malata mi spaventa, mi ricorda il mio.

«Ho visto che prima parlavate». Indica con il capo verso il termosifone.

«È lei che mi ha rivolto la parola».

«Non importa» dice decisa. «Flavia non ci aiuta a stare meglio».

Io la fisso ma non dico niente. Una parte di me spera che Federica mi riferisca tutto quello che sa sulla vita di Flavia.

Quanti anni ha, cosa fa, quando si è ammalata, perché sta così male. Vorrei che mi dicesse perché quella donna mi affascina e insieme mi terrorizza.

«Lei non vuole guarire» insiste Federica. «Non la vedi? Cammina tutto il giorno davanti al termosifone».

«Anche noi camminiamo tutto il giorno».

Federica mi guarda male: in reparto sono tutte schierate contro Flavia e io, inconsciamente, sto già prendendo le sue parti. «Fai come vuoi,» dice «io ti ho avvisato». Mi rivolge un ultimo sguardo, poi si gira e s’incammina verso la sua stanza, mentre io torno verso la mia.

Di fronte al termosifone Flavia non c’è, e sopra non c’è traccia dei suoi bicchierini di carta. Mi sporgo sull’uscio della camera numero otto e sbircio dentro. Non trovo nessuno. Le tapparelle della finestra sono abbassate ed è tutto buio tranne una piccola lucina a led posta sopra il comodino tra i due letti. Sul tavolino vicino all’entrata vedo ammucchiate riviste di moda e di scienza. Accanto, una torre di bicchierini di carta infilati uno dentro l’altro. Sul letto di destra ci saranno più di quattro coperte e sul cuscino, esattamente al centro, un pupazzo di stoffa. Mi sembra un cane, ma non ne sono sicura. Mi guardo alle spalle, in corridoio non c’è anima viva e dal bagno non sento nessun rumore. Faccio qualche passo in avanti e mi avvicino il più possibile alla cornice argentata appesa un po’ storta sulla parete dietro il letto. Nella fotografia, che appare sgualcita sui margini, si vedono due ragazze. Avranno poco più di diciott’anni e sor-ridono. Quella a sinistra ha i capelli biondi, indossa un vestito verde, lungo fino alle ginocchia, e porta una bandana gialla in testa; l’altra è più piccola, ha una chioma rossa e una giacchetta di pelle nera. Sullo sfondo la Torre di Pisa, piazza dei Miracoli e una folla di turisti.

«Chi ti ha detto di entrare?». Dietro di me sento la voce di Flavia; dev’essere vicinissima perché nelle narici mi è entrato il suo odore. Mi giro e mi trovo davanti la sua faccia. «Scusami» balbetto, esito come per dire qualcos’altro, ma ho paura a parlare. Mi sposto di lato e la lascio passare. Lei mi dà le spalle e si avvicina al suo letto. Io indietreggio fino all’uscio e, quando mi sento più al sicuro, riapro bocca. «E tu dove mangi? Perché non ti siedi a tavola con noi?».

«Sono fatti miei» risponde Flavia. Poi, mentre tenta di raddrizzare la cornice, dice di aver saputo che a cena non ho toccato nulla e che Marco ha dovuto somministrarmi l’integratore. «Non va bene. Sarà meglio che cominci a mangiare qualcosa, no?».

«Come fai a saperlo?» chiedo. Si gira verso di me e mi guarda con malizia. Dice che non c’è niente che avvenga tra queste mura di cui lei non sia informata. «E ora dico che è tempo di togliersi da qui». Mi ordina di andarmene e di non entrare mai più senza il suo permesso. Annuisco ed esco nel corridoio, poi però ritorno dentro e le vado incontro per un’ultima domanda: «Sei tu la ragazza con la giacca di pelle?». Accenno alla cornice argentata. Flavia fissa le due ragazze nella fotografia, poi si gira verso la finestra. La sirena di un’ambulanza rimbomba dentro la camera; quando torna il silenzio, Flavia riporta gli occhi sulla parete. «Pensavi mica fossi stata sempre così?» mi domanda indicandosi.

«Eri bella» dico per poi scappare fuori e ritornare in camera mia.

All’orario di visita, i genitori entrano in reparto. Portano regali per le loro figlie, finti sorrisi e rassicurazioni. Alcuni vengono perché sono preoccupati, altri si sentono in colpa. La madre di Federica è la prima ad arrivare. È una donna alta e magra, la vedo entrare nella stanza della figlia, da cui risuonano urla di festa. Giovanna non riceve nessuna visita, io invece i miei genitori non voglio vederli. Marta non è potuta venire, ha la febbre, le è venuta non appena sono uscita di casa. Mia madre e mio padre sono fuori dal portone, seduti sulle panchine dell’ambulatorio, ma io dico ad Angela di non farli entrare.

Sono loro ad avermi portato in questa prigione, sono loro che mi hanno rinchiuso in questo posto. Mi sento una carcerata a cui la famiglia fa visita una volta a settimana con una borsa di vestiti puliti per poi ritornarsene felice a casa. Sono una figlia reietta, una figlia sbagliata. Preferisco stare da sola, a tu per tu con la mia forza, piuttosto che trascorrere anche solo un’ora in compagnia dei miei carcerieri.

La notte, sotto le coperte, resto immobile con gli occhi aperti e fissi al soffitto, mentre la flebo di Giovanna continua a gocciolare e la mia mano preme sullo stomaco quasi a sfondarlo.

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