Se c'è una cosa che fa sorridere è la distanza linguistica che opponiamo tra i nostri bar e le caffetterie straniere, per le quali riserviamo questo nome "speciale". Ma quei posti che profumano di cinnamon roll appena sfornati e chicchi di caffè buoni macinati al momento, non sono altro che bar. Più completi, spesso più belli, con personale mediamente più preparato, ma comunque bar. Eppure, sentiamo il bisogno di distinguerli, di contrapporre uno spazio tra il bar all’angolo sotto casa e la caffetteria, che è invece una sorta di tempio mistico dove si può persino pensare di fermarsi a lavorare, un luogo dove l’atmosfera, prima ancora dell’offerta e del buon servizio, fa la differenza.
Viva i bar di quartiere (ma con un'offerta consapevole)
Ma davvero non ci piace più niente del bar all’italiana? Davvero per promuovere specialty o in generale caffè di qualità, c’è bisogno di creare uno spazio industrial, uguale a sé stesso in qualunque parte del mondo? Certo, sono belli i bar specialty contemporanei, con le lavagne che recitano l’offerta delle singole origini del giorno, i baristi con i grembiuli di jeans e quel binomio legno/acciaio che in qualsiasi caso scalda un po’ l’ambiente. Tuttavia, per un vero appassionato - ma ancor di più per chi l’espresso lo vive come una sorta di "medicina" da prendere a dosi nell’arco della giornata per rimanere concentrato - è curioso imbattersi invece in bar “normali”, di quartiere, che offrono però specialty di default. Magari senza neanche sbandierare troppo la scelta, senza autodefinirsi un’oasi felice per gli amanti dell’oro nero. Lo fanno e basta, un gesto automatico, semplice, che proprio perché fatto con disinvoltura e banalità, diventa potentissimo.
Un'alternativa per tutti
Per esempio, da circa un anno lungo viale Marconi, quartiere residenziale di Roma Sud, c’è un bar carino, arredato con cura ma senza troppi orpelli: l’insegna recita Gordo Bistrot ed entrando sembra un posto come un altro, certo molto pulito e accogliente, ma nulla grida “specialty” lì dentro. Invece poi dietro al bancone c’è un barista attento innamorato del caffè, che alle spalle ha una mensola stracolma di sacchetti di caffè di micro-torrefazioni da tutta Italia, che vanno dal Bugan Coffee Lab di Bergamo a Le Piantagioni del Caffè di Livorno (e molti altri ancora a rotazione), e realizza cappuccini ad arte con grande maestria.
Ecco, lì si può scegliere tra diverse singole origini, da gustare in un bell’espresso doppio, ma se si entra per caso, chiedendo solo “un caffè”, si riceve comunque un’ottima tazzina, con la miscela base di una buona torrefazione romana (Picapau). Di esempi simili ce ne sono ancora, anche in altre città (è il caso di Bar Affori a Milano): non sono migliori delle caffetterie specialty più contemporanee, non sono più validi ma nemmeno peggiori. Sono un’alternativa, una formula che forse a una fetta di popolazione italiana più abituata a un certo tipo di locale, servizio e proposta, può risultare più comprensibile. Non sono la prima scelta, ma nemmeno la seconda: sono un’altra opzione, un format che gioca un campionato diverso e altrettanto importante.
Il ruolo dei baristi
Sono locali che non puntano tutto sul caffè, ma l’espresso lo valorizzano tra una chiacchiera con i clienti più mattinieri e una pizzetta incartata per la merenda dei bambini, inserendosi a pieno nel tessuto della vita di quartiere, diventandone parte integrante. Magari del fatto che quei chicchi li ha tostati uno dei migliori torrefattori d’Italia non ne parleranno mai, o chissà, forse troveranno un giorno un cliente più incuriosito che farà domande, e allora sarà la volta buona per fare divulgazione sulla materia. Un argomento che spesso tendiamo a rendere più complesso del dovuto, e che proprio attraverso semplici gesti quotidiani può essere compreso meglio. Con un po’ di costanza, naturalmente, ma chi si avventura nel mondo dei bar lo sa bene: la pazienza non sarà sempre la virtù dei forti, ma sicuramente è il superpotere dei baristi.