Awamori: storia del distillato giapponese che viene da Okinawa

23 Feb 2021, 16:28 | a cura di
Grano, riso e kōji nero: così nasce il distillato giapponese tipico delle isole Okinawa. Si chiama awamori ed è perfetto nei cocktail.

Nello studiare l’evoluzione della cultura enogastronomica europea, non possiamo esimerci dal valutare come i secoli di storia e il succedersi dei regni abbiano trasportato con loro nuove abitudini alimentari e nuove forme di consumo. È peculiarità di ogni impero l’allargarsi e il ritrarsi come le onde di una marea attraverso i secoli, e di conseguenza coinvolgere e contaminare i nuovi paesi annessi con le proprie tradizioni culinarie. Pensando all’oriente con i suoi imperi millenari (come ad esempio quello cinese) pare inevitabile per noi immaginare una geografia statica, turbata solo dall’arrivo degli occidentali, ma non è così. Il Giappone che conosciamo oggi ad esempio, a livello territoriale, è solo lo spettro di ciò che il Mikado arrivò a conquistare fino alla seconda guerra mondiale, e se l’onda della marea pare ormai essersi ritratta fino a coinvolgere soltanto l’ampio arcipelago, non bisogna scordarsi che all’interno di esso si trovano ancora isole che, per storia e tradizioni, hanno vissuto per secoli come stati autonomi.

awamori

Le isole Okinawa

Uno dei casi più interessanti è sicuramente quello delle isole Okinawa, un atipico arcipelago che ormai siamo abituati a vivere come l’avamposto nipponico più a sud nell’oceano, diventato celebre nel '900 per via delle battaglie della Seconda guerra mondiale, e per il seguente insediamento della base americana. Tuttavia questa terra ha una storia secolare, che solo nell’ultimo secolo si è fusa in maniera definitiva con quella del Giappone.

Questo arcipelago infatti non è più vicino a Tokyo di quanto non lo sia a Taiwan, e per lunghissimi secoli è stato uno paese indipendente, noto come il Regno delle Ryūkyū, retto da una monarchia dal '300 fino a fine '800. Questo piccolo stato marittimo svolse il ruolo fondamentale di crocevia per i commerci medievali tra il Celeste Impero e quello nipponico, restando uno stato sovrano attraverso i secoli, anche se sempre accettando una duplice subordinazione nei confronti degli ingombranti vicini (pagando tributi a Pechino prima e successivamente anche a Kyoto), fino a essere annessa in via definitiva al Giappone nel 1879, che per capire quanto sia recente come data, basti pensare che è lo stesso anno della nascita di Albert Einstein.

L'awamori

Se questa terra è, a oggi, a tutti gli effetti subordinata a Tokyo e fortemente influenzata da decenni di convivenza con gli americani, alcune delle tradizioni storiche ancora restano in vita, e anzi, provano proprio in questo momento a uscire dai propri confini e ad arrivare anche da noi qui in Europa. Il prodotto che più pare poter raccontare l’identità di questo popolo è l’awamori, un distillato che rappresenta (sia a livello tecnico che gustativo) un unicum, una nuova categoria a livello globale.

La distillazione raggiunse infatti Okinawa già nel XV secolo, dalla Thailandia, e decennio dopo decennio qui è stata affinata a livello tecnico per renderla sempre più confacente al clima subtropicale delle isole. Questo spirito di riso, nonostante possa essere confuso con lo shōchū (il distillato popolare del Giappone), presenta rispetto a esso alcune differenze rilevanti: in primo luogo la materia prima – nel primo riso e grano giapponese, nell'awamori riso thailandese (eredità di chi portò gli alambicchi) e grano Indica - ma a contraddistinguere il prodotto in maniera ancora più evidente è il kōji nero specifico di Okinawa, che agisce come agente principale per attivare la fermentazione, mentre per lo shōchū si utilizza un kōji bianco.

awamori

Il valore storico e culturale dell'awamori

Questo distillato ha assunto nei secoli lo stesso valore simbolico e culturale che ha il vino in Europa, diventando protagonista delle tavole e accompagnando i più importanti momenti di passaggio nelle vite dei singoli. Ad esempio, il distillato (nonostante il colore trasparente) viene spesso “invecchiato” in anfora, ed è consuetudine comune metterne via una per la nascita di un figlio per aprirlo al raggiungimento della sua maggior età.

Di Koshu (古酒, ovvero awamori con almeno tre anni di invecchiamento in vasi all'interno delle cantine con una temperatura bassa e costante) fino alla prima metà del 900 ne esistevano di antichissimi., anche con più di 200 o 300 anni di età. Prima della Battaglia di Okinawa della seconda guerra mondiale era comune trovare anfore così antiche, ma (nonostante la storia popolare narra che durante i bombardamenti si scappasse dalle case portando con sé le anfore invece dei gioielli) purtroppo la guerra anche in questo caso non ha lasciato superstiti. È comunque interessante comprendere quanto questo movimento di distillazione sia vivo e vivace, e per farlo basti pensare che su un territorio vasto grosso modo quanto la Sardegna si trovano a tutt’oggi 46 distillerie attive (per fare un paragone, in tutti i Caraibi, patria del Rum, se ne trovano meno di 50).

L'awamori un nuovo distillato e il suo uso in Europa

Fino a oggi, questo distillato è stato appannaggio dei soli appassionati di enogastronomia giapponese, ma qualcosa in questo senso sta cambiando. Grazie alla volontà di alcuni giovani imprenditori, più avvezzi a rapportarsi al mercato globale, l’awamori sta lasciando i confini e lo sta facendo guardando vero il mondo del bar. Se infatti altri prodotti della tradizione come lo shōchū o il sake trovano limitazioni nell’uso in miscelazione, legati a un grado alcolico troppo basso che tende a farli scomparire all’interno di un cocktail (soprattutto se in assenza di un bartender esperto in materia), l’awamori può essere automaticamente utilizzato come sostituto di un distillato europeo per quanto riguarda corpo, gradazione e aromi.

Una piccola ma grande differenza, che potrebbe fare di questo prodotto uno dei protagonisti dei grandi bar in tutto il mondo, portandolo fuori dalla nicchia dei prodotti esotici e rendendolo agevole al largo consumo, come ci spiega Giulio Amodio, barmanager del ChinaTang di Londra e Global Brand Ambassador di Ryukyu 1429, l’azienda che più di tutte sta provando a muoversi in questa direzione: “È un distillato di riso, che sorprende non solo in purezza quanto piuttosto nei drink. In miscelazione infatti si trasforma. Quando lo ho assaggiato per la prima volta ci ho visto la nascita di un nuovo trend e ho avuto feedback positivi da diversi bartender in tutti i nove paesi europei dove siamo presenti”.

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Jun Ogawa e Hiroumi Keimatsu, i due imprenditori dietro a questo progetto di rinascita e internazionalizzazione, hanno deciso di rilevare tre distillerie tradizionali e unirle sotto un unico nome. Le tre referenze create, Kaze, Mizu, Tsuchi - i cui sono nomi, traducibili come vento acqua e terra, sono stati scelti per via delle posizioni delle distillerie - sono estremamente diverse tra di loro e possono essere utilizzate in maniera completamente diversa. “Il Tsuchi ad esempio è un prodotto un po' più neutro e pulito, a me piace compararlo con una vodka e con un gin” racconta Amodio “Il Mizu ha il koji come protagonista assoluto, un sapore più intenso e tradizionale; in Italia lo hanno paragonato inizialmente alla grappa, poi al pisco e al mezcal. Mi piace molto anche usarlo al posto del rum, mentre il Kaze si beve già da solo grazie alla sua complessità e alla sua delicatezza, seppur con un'impronta asiatica. Lo si può usare per un Martini ad esempio. Ha personalità ed è elegante, forse è il più versatile”. Quel che è certo è che questi prodotti, con la loro setosità e rotondità, hanno parametri gustativi molto diversi da ciò a cui siamo abituati, e per questo estremamente interessanti.

Negli ultimi anni è diventato comune vedere i prodotti giapponesi nelle bottigliere dei grandi bar del mondo, prima con i whisky, e in tempi più recenti con i gin. La scommessa di accettare anche i loro spiriti tradizionali però è forse ancora più interessante, perché mentre la distillazione ci racconta della capacità umana di trasformare, la materia prima ci racconta il rapporto di un popolo con la sua terra e i suoi prodotti, e questo è quello che più ci dovrebbe affascinare.

a cura di Federico Silvio Bellanca

foto di Michele Tamasco

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