onte sono delle colonne internazionali, ancora meno la Borgogna o la Catalogna. Se Tokyo e New York passano oramai per essere le inattaccabili realtà del nuovo corso culinario – basti vedere come Michelin si dà da fare da quelle parti per raccattare qualche briciola d’un mercato ben restio di fronte alla Legione d’Onore del gallico prontuario – Parigi e Londra fanno sempre figura, la storia ce l’insegna, delle eterne imbronciate cuginette.
Certo, ci si dovesse fidare della pubblicistica corrente che non cessa mai di cantar le lodi del liberalismo rampante londinese, sarebbe senz’altro Parigi a ritrovarsi nei panni della Bella Addormetata. Tra bistrot e settari Templi (neanche fossero al dio Sole!), diritti d’autore e centralità turistica, Parigi adempie bene alla sua funzione di cartolina postale, riflesso per allodole gaudenti e poco schizzinose.
Non è un caso che “l’esule” parigino più celebre del mondo sia il povero Woody Allen sempre pronto a farsi fotografare, anche al Ritz o al Crillon, con la baguette sotto braccio, un berretto sbilenco e magari pure un Brie nella saccoccia. C’è mica un image remaker a bordo?
La prossima volta che sentiamo il termine grandeur – che tradurremmo volentieri in italiano non con grandezza, ma con prosopopea – risponderemo che, in materia di capitali, la prosopopea la trovate più a Londra che a Parigi. Quella del ricatto dell’economia, d’una city modaiola col più alto turn over di aperture/chiusure di locali d’Europa.
Potere del buzz, della pubblicistica, della possibilità di affitti immediati: del tutto e subito, insomma. Anche se la libertà è controllata a vista da un registro espressivo tra i più circospetti. Molta acqua è passata sotto il London Bridge dai tempi in cui, nel 1988, Marco Pierre White s’inventava ex novo uno stile che sarebbe rapidamente diventato una sorta d’identità nazionale. Ma dall’insuperabile classicismo franco-britannico del geniale punkettaro oggi si è arrivati all’invasione dei cloni.
Tutto cambia sul fronte occidentale perché tutto resti uguale. La macchina da guerra di Gordon Ramsay esporta tentacolare il savoir faire delle sue holding in giro per il mondo, dopo New York e Praga, tra qualche settimana anche a Versailles. Tra Soho e South Kensington, Mayfair e Camden Town, la città è un proliferare d’insegne che durano il tempo che trovano. Più ancora a Londra che a NY, il business è all’insegna della mobilità totale. Un’annata, qualche mese tutt’al più: in certi casi si misura anche in settimanate la speranza di vita d’un ristorante che gioca il tutto per tutto sin dal primo giorno d’apertura.
Londra è un microcosmo di vasi comunicanti: appena tirata su la saracinesca, ecco sbarcare in fila indiana tutta la congregazione food-writers. Per l’edizione del venerdì, per la doppia pagina del sabato o del supplemento domenicale, il tempestismo della restaurant review si traduce in un immediato afflusso di clienti. Che sarà subito riciclato, la settimana successiva, verso il nuovo arrivato.
Dice Monica Brown, PR di Sir Heston Blumenthal: «IL turn over è altissimo, come gli affitti dei locali. Per forza di cose, visti i prezzi, il centro di Londra non può che proporre, a parte qualche rara eccezione, ristoranti studiati apposta per rispondere a determinate esigenze della nicchia di mercato. Di lusso o senza pretesa, è difficile trovare nella capitale degli autentici spazi creativi».
Ecco perché, senza fare i marziani o i vecchi marxisti, ogni qual volta atterriamo a Londra la sola cosa che ci sorprende non è tanto il numero incalcolabile di nuovi ristoranti, la lunga lista dei caduti nottetempo o l’omologazione verso il basso d’un minimo commun denominatore culinario delle proposte. Sono semmai i prezzi, gli aumenti insensati, gli abbonamenti della metropolitana, i tassisti che mettono un tigre nel contatore, la pauperizzazione umana d’una città oramai fatta solo per le fasce più agiate della popolazione, una Disneyland della Brit Attitude. E da quand’è che si va da Mickey con lo zio Walt per mangiare?
Andrea Petrini