peciale della Cina.
Di certo c’è che tutto quello che c’è di buono e di nuovo al mondo – ma anche di classico – lo si trova a Hong Kong: ingredienti, stili, cuochi, design, vini. E la qualità dell’offerta è in crescente aumento.
«Penso che siamo migliorati moltissimo – conferma Lau – La ragione è semplice»… e Winnie Yeung, coordinatrice della guida ai ristoranti dell’Hong Kong Magazine, l’ha spiegata così ai suoi lettori:
«L’accresciuta concorrenza, gli affitti che aumentano, molti più clienti che se ne intendono, significa che i ristoranti che non sono buoni spariscono e quelli che li rimpiazzano devono essere buoni per sopravvivere».
Di questa effervescente situazione intende approfittare la Michelin che a fine anno lancerà una specifica guida ai ristoranti di Hong Kong e Macao, la seconda in Asia dopo quella di Tokyo.
Ai posteri questa stagione passerà come l’era del wagyu. Che non è il nome di una dinastia di mandarini, né quello di un segno dello zodiaco cinese. È semplicemente l’ingrediente che domina i menù dei ristoranti, di alta cucina e non. Wagyu (“nostrano” in giapponese) sono i bovini geneticamente selezionati per produrre carni con elevata quantità di grassi insaturi.
Originaria del Giappone, a Hong Kong questa carne è importata prevalentemente da Australia e Stati Uniti, Paesi che l’hanno lanciata come prodotto globale. E qui più che altrove è diventata un simbolo di alta cucina e di un certo lusso gastronomico.
Non importa dove il ristorante si trovi e che cucina faccia. C’è wagyu dal cinese Chung’s Cuisine a Causeway Bay e dall’internazionale Harlan’s di Central, dal Lung King Heen nel Four Seasons Hotel, sempre cinese e dai giapponesi Zuma (Central) e Morihachi a Kowloon, dalla supertop Steak House di Tsim Sha Tsui e dall’italiano DiVino ancora in Central. Michele Senigaglia, il cuoco di quest’ultimo, con il guanciale di wagyu e i pomodori cuore di bue fa un risotto richiestissimo dai suoi clienti.
In un supermercato di Central o di Kowloon il wagyu può costare anche 200 euro al chilo. È caro, ma non troppo; non è caviale, ma trasmette status di opulenza e soprattutto è alla moda.
«Ai miei concittadini il lusso e la moda continuano a piacere – dice Alvin Leung, il Demon Chef patron di Bo Innovation (vedi box). Il Ferran Adria di Hong Kong, così almeno lo presentano i media locali, aggiunge: «Lo provano le file davanti ai negozi dei grandi stilisti di moda».
Anche lui, innovazione o no, va sul sicuro e farcisce il suo menu paramolecolare di caviale e wagyu. Entrambi in fondo segni di un benessere che non ha abbandonato la città nonostante siano passati oltre dieci anni dalla partenza degli inglesi. Anzi, si è accresciuto: «Si temeva che senza gli inglesi la città andasse giù e invece è successo il contrario» conferma Pino Piano direttore di sala e comproprietario di Gaia, uno dei ristoranti italiani più conosciuti di Hong Kong, e parte di un gruppo con altri 7 locali.
Hong Kong capitale gastronomica dell’Asia deve la sua forza innanzitutto a questo: è rimasta una delle tigri economiche dell’Asia. Per il resto il suo primato goloso si basa su grandi e solidi numeri: seimila ristoranti di tutte le cucine etniche, dalle modeste case del tè ai franchising della ristorazione di superlusso che vengono da fuori come L’atelier de Joel Robuchon, il Morton’s of Chicago e gli immancabili Nobu, e Alain Ducasse.
In questo dinamico panorama ci sono sempre nuovi ingressi, ma cadono e pesantemente anche, miti che furono in auge negli anni Novanta. Il Felix al 28° piano del Peninsula Hotel da tempo ha cessato di essere il rivoluzionario tempio del Pacific Rim, la elegante e stimolante cucina fusion interpretata da cuochi del calibro dell’hawaiano Bryan Nagao.
Oggi le sedie disegnate da Philippe Stark sono malinconicamente stinte e ai fornelli c’è un giovane cuoco americano che fa una cucina frankstein, comfort food da road house statunitense con ingredienti di lusso. Ma lusso, anzi superlusso, è oggi soprattutto la Krug Room nell’Hotel Mandarin Oriental, un posto dove mangiano solo 12 ospiti accolti con Champagne dell’omonima maison di Reims.
La verità è che in questa Hong Kong degli Anni Zero, dominata dal boom di aperture di locali giapponesi, tornano anche i ristoranti francesi. A partire dalla fine degli Anni Ottanta del Novecento erano stati sistematicamente rimpiazzati con gli italiani. Questo non significa che la love affair di Hong Kong con la cucina italiana stia diminuendo, al contrario. I cinesi ne vanno matti.
«È che loro hanno una cultura molto simile alla nostra, per quanto riguarda la famiglia, la casa e la buona tavola» dice Marco Avitabile, Executive Chef del Grand Hyatt. Proprio questo in questo albergo, esattamente venti anni fa cominciò la conquista dell’Asia da parte della cucina italiana di qualità.
«Oggi ci sono almeno trenta grandi ristoranti italiani in città» dice Umberto Bombana, cuoco del Toscana nell’Hotel Ritz Carlton (in ristrutturazione) e veterano della scena gastronomica locale.
Obiettivamente incontrastabile è il primato di Hong Kong in termini di offerta di cucine cinesi. Per quantità e qualità qui si concentra il meglio delle gastronomie regionali della Mainland (come è chiamata la Cina), per tutte le tasche. Rispetto al passato c’è chi percepisce una minore specializzazione dei ristoranti: «Ho l’impressione però che stanno aumentando i ristoranti che hanno piatti di più regioni nel loro menu» dice Li Shu Tim, Chef del Ristorante One Harbour Road, nel Grand Hyatt Hotel. Ma senza ombra di dubbio Hong Kong è capitale indiscussa della cucina cantonese, quella della confinante Guangdong, di cui geograficamente la ex colonia britannica è parte, la provincia più ricca della Cina, dove vivono oltre 100 milioni di cinesi. Chiu chow, hakka e Canton: le tre grandi anime della cucina cantonese sono di casa in ogni angolo e soprattutto nei mercatini di quartiere. È a Hong Hong che si fissano gli standard di qualità per la cucina cantonese, da sempre basata soprattutto su cotture rapide al wok, al vapore o fritture in immersione. E soprattutto sulla freschezza degli ingredienti e sulla esaltazione dei loro sapori originali, due elementi delle dominanti tendenze gastronomiche contemporanee, a qualunque latitudine.
Anche per questo la cucina cantonese sta vivendo probabilmente il momento di più grande popolarità della sua storia. Il merito di Hong Kong è di averla posizionata negli ultimi due decenni in contesti di servizio di fine dining, alta ristorazione: lusso, fusion, nuovi ingredienti, grande capacità tecnica dei cuochi e servizio a 5 stelle.
«Nella cucina cantonese la tradizione è stata sempre buon cibo e il resto non era importante» conferma Daniel Chui, il direttore di Fook Lam Moon, il ristorante di Wanchai aperto dal suo padre Fook nel 1948 e che è una istituzione in fatto di cucina cantonese. Daniel, che ha lasciato la sua carriera di medico in Scozia per tornare qui, ricorda: «Quando ero piccolo nel nostro ristorante a nessuno dei clienti importava se finiva seduto nei pressi del bagno o se il servizio non era impeccabile. Oggi i tempi sono cambiati».
Il pubblico reclama più servizio, più ambiente, più qualità, più lusso, anche nei ristoranti popolari. Fook Lam Moon non è un posto per fighetti, qui vengono a mangiare famiglie locali, impiegati e uomini d’affari e turisti, in maggioranza cinesi.
Il ristorante della famiglia Chui fa una cucina tradizionale e in generale abbordabile, con uno speciale e succulento maialino da latte con crosta croccante e un superbo pollo fritto, con il metodo della doccia cantonese (frittura graduale con mestolate di olio bollente). Un pasto medio costa tra gli 800-1.000 dollari di Hong Kong – non una grande cifra per mangiare da queste parti – ma il piatto superstar continua a essere quello con gli abalone secchi fatti rinvenire con una cottura in brodo di 12 ore e serviti con una riduzione vellutata dello stesso. L’abalone, il succulento mollusco di mare che assomiglia all’orecchia di San Pietro, resta un’autentica delizia per i cinesi. Un lusso che qui costa 8.000 dollari (730 euro) per piatto. In media, un solo abalone può costare anche 180 euro, 2.000 dollari di Hong Kong.
Con pinna di squalo e nidi di rondine, l’abalone forma la santissima trinità del lusso nella cucina cantonese che, salvo rare eccezioni, abita soprattutto nei ristoranti dei grandi alberghi. Un retaggio del passato coloniale. E così, per esempio, Lau Yiu Fai, cuoco del Yah Toh Heen, ristorante dell’Intercontinental Hotel, è uno specialista della zuppa di pinna di squalo, che termina con una succulenta chela di granchio gigante. Gli spaghettini traslucidi che finiscono nel piatto sono filamenti della pinna del pescecane, ricavati con un lungo processo di marinatura ed essiccatura. Di per sé non meriterebbero la fama di ghiottoneria sublime che hanno e infatti i golosi cinesi sono più che altro attratti dalla loro consistenza. Il sapore viene dalla zuppa “superiore”.
«È una riduzione di un brodo ricchissimo nel quale c’è anche il liquido di cottura dell’abalone e prosciutto di Yunnan di qualità» spiega Bernard Lim, il direttore di sala del ristorante. Il consumo di pinna di squalo sta generando sempre più proteste da parte delle organizzazioni ecologiste preoccupate per il futuro di questi pesci, ma la coscienza ambientale non è entrata nelle cucine di Hong Kong. Concetti ecologici come i “chilometri zero” sono ancora incomprensibili qui.
Lau Yiu Fai dice che la sua è una cucina cantonese tradizionale, ma in realtà è un innovatore. Tra i suoi piatti più riusciti c’è la polpa di aragosta saltata al wok, con una salsa al latte fresco, e terminata con uova di granchio. Latte? Nella cucina cinese?
«Si non è comune – ammette Lau Yiu – ma è per stare al passo con i tempi, perché un cuoco cinese a Hong Kong deve sapere sempre cosa succede intorno a lui». Lau Yiu vanta anche un altro primato:
«Siamo stati tra i primi in città a usare il wagyu» dice. Nel suo menù c’è un piatto di cubetti di wagyu saltati nel wok con ananas e spezie e serviti nel cavo dello stesso frutto. La verità è che è difficile distinguere la cucina cantonese tradizionale da quella contemporanea.
«Dipende dagli ingredienti», si azzarda a dire Poon Chi Cheung, chef allo Spring Moon, all’interno del Peninsula Hotel. Nel suo elegante ristorante le porcellane d’epoca, cinesi ed europee, fanno da cornice a oltre 200 artistiche teiere di terracotta in miniatura. La collezione è peraltro onorata da una fornita carta dei tè, forse la migliore in città, e da un’ampia scelta di delicatissimi dim sum. Secondo Poon «quella fatta con gli ingredienti che vengono dalla Cina e dalle nazioni vicine è la cucina classica».
Di questa ultima fa parte quindi anche il superbo piccione croccante, aromatizzato con il fiore di osmanto che è una punta di diamante del menu classico dello Spring Moon. Alla tradizione è ancorato anche il menu di un altro simbolo del fine dining cantonese, lo Shang Palace, nell’hotel Shangri La di Kowloon. Nel menu di questo ristorante ci sono tutti i piatti classici del repertorio cantonese, inclusa la zuppa di nidi di rondine, che poi in realtà sono secrezioni delle ghiandole salivari della salangana, un uccello simile al rondone. Considerati una ghiottoneria nel passato, per la consistenza e per il loro altissimo contenuto proteico, erano cari perché difficili da reperire in quanto la salangana nidifica sugli strapiombi costieri o montani. Oggi i nidi sono prodotti con uccelli da allevamento, ma il loro prezzo rimane ancora elevato.
Tende a uno stile più contemporaneo la grande cucina del Lung King Heen, nel Four Seasons hotel. Anche qui c’è wagyu, saltato con spugnole e funghi, ed è eseguito in maniera ineccepibile, ma tutta la cucina dello chef Chan Yan Tak e dei suoi giovani assistenti è senza sbavature. A partire dai dim sum: sublime quello di aragosta e capasanta al vapore, come del resto quello di taro con maionese e caviale. Si, maionese, un' altra piccola concessione alla innovazione.
Frutto di una ricerca particolare è invece il foie gras cotto al vapore e servito in una salsa di abalone. Siamo di fronte alla versione più moderna della sontuosità gastronomica cantonese, ma il piatto ha un sapore convincente e originale (e il fegato viene anche dalla Cina). Molto buoni al Lung King Heen i dolci, dalle tartine di crema alla gelatina di fiore di osmanto. Ma di questo ristorante merita una menzione speciale il servizio che è di elevatissimo livello di eleganza, efficienza e buon gusto.
Rosario Scarpato