di carne bianca, nutriti non di pascoli ma solo di latte materno, abbacchio per intendersi. Da Roma in su si accettano magari costolettine appena più rotonde e grasse. Un tantino più cicciotte, ma niente di più.
Peccato, perché chi ha assaggiato le carni saporite e succulente degli esemplari adulti d’Oltremanica, le comprerebbe senz’altro volentieri al supermercato o dal macellaio, se solo le trovasse. Certo, poi, le tradizioni sono tradizioni e ognuno ha le sue, di rispettabili rispettabilissime, ma qualche apertura di credito non potrebbe che allargare gli orizzonti.
Gli orizzonti del Galles per esempio sono infiniti. Esci da Londra, passi accanto al castello di Windsor, lo scorgi in lontananza. Non c’è la bandiera alzata e dunque la regina sta a Balmoral o chissà dove.
Passi il meraviglioso ponte di Bristol appeso sull’oceano e ti viene da pensare che in Italia oltre ai pregiudizi sugli agnelli forse dovremmo abbattere anche quelli sui ponti… o forse no. Sei di là dal fiordo. Galles, ex regione poverissima di Com’era verde la mia valle, vite di minatori, terra di povertà, di emigrazione. Letture fuorvianti.
Ora qui è il paradiso. Qui vengono a fare le vacanze i ricchi inglesi: è una sorta di Liguria dal clima mite addolcito dalla Corrente del Golfo. Di verde ce n’è quanto se ne vuole, estate e inverno. Percorri da Londra 130 miglia e non vedi una bruttura, solo colline con alberi centenari, pascoli, siepi, torrenti, cottage e giardini che qui sono una religione.
Come una religione è il concetto di campagna. E poi pecore pecore pecore a perdita d’occhio, puntini bianchi su fazzoletti verdi. Tre milioni di abitanti su una superficie come quella della Lombardia che di abitanti ne conta il triplo. E cinque milioni di pecore.
Per rendersi conto di che cosa significhi per un inglese il concetto di campagna, e dunque di allevamento, basta un’illuminante visita al Royal Welsh Show, la più importante fiera di campagna del Galles.
Decine e decine di pecore, agnelli e montoni di tutte le razze a sfilare nei tradizionali concorsi accompagnati al guinzaglio da gongolanti agricoltori in camice bianco. Alcune spettacolari come la suffolk con il vello di un color tabacco e il muso nero o la border Leicester dal muso simile a quello di un lama.
Sui prati erbosi sfilano davanti a giudici severi anche cavalli, maiali, tori, mucche, animali da cortile (c’è persino il concorso delle uova). Gli allevatori sono visibilmente orgogliosi delle selezioni raggiunte, delle plastiche e rotonde conformazioni di lombi e spalle di esemplari non solo da passeggio ma, perché no, anche da arrosto…
Insomma, qui l’allevamento è una cultura, non semplice mestiere o lavoro. La Fiera per molti di questi agricoltori rappresenta l’unica vera occasione di vacanza, tre giorni entusiasmanti da spendere tra animali ed esibizioni, dai concorsi ippici alle gare di taglio dei tronchi d’albero.
Non c’è del resto bisogno di spiegare quanto scenda in profondità l’amore degli inglesi per cavalli, cani e animali in genere. I cani, poi, altra religione. L’intelligenza di un Border Collie nel radunare le pecore disperse sui pendii di queste montagne e riportarle a casa è impressionante.
A seconda del fischio del padrone il cane disegna la sua traiettoria curva che ha lo scopo di stringere le pecore in una precisa direzione. Non che debba riportarle all’ovile: solo radunarle, dato che le greggi se ne stanno all’aperto la maggior parte del tempo e negli stazzi vanno solo per partorire. Tant’è che, appena nati, gli agnellini vengono rivestiti nei primi due giorni di vita di amorevoli mantelline antifreddo delle quali poi si liberano da soli a suon di calci. Unici nemici: volpi e corvi, cui però provvede il cane.
I pastori hanno un’aria da gentleman nel loro abbigliamento selezionato nel corso di secoli, giacche, cappelli e stivali antipioggia diventati griffes per manager in disarmo weekendistico, ma qui vissuti nella loro naturale funzione.
Ogni famiglia alleva pecore di razze diverse, quelle che meglio si sono adattate ai particolari microclimi o che già allevavano nonni e bisnonni. Ci sono le razze che brucano le erbe salmastre vicino all’oceano e quelle che brucano i pascoli pieni di essenze della montagna (una camminata tra campi e valli è un aerosol di profumi inebrianti).
Inutile dire che il lamb è un punto fermo del menu gallese. Del resto, se in Italia abbiamo un consumo medio annuo procapite di 1,5 - 1,8 chili di carni ovine, in Inghilterra siamo a 6 chili a testa: gli inglesi sono infatti i primi consumatori di carne d’agnello in Europa.
Avere in tavola per il pranzo della domenica il cosciotto d’agnello ha rappresentato per generazioni di inglesi il segno tangibile del benessere raggiunto.
Ma ora che anche in Inghilterra si affaccia la recessione si cominciano a scegliere tagli meno nobili e costosi.
Certamente non meno buoni. Così, puntando a conquistare l’immaginario degli italiani legato ancora all’agnellino da latte, l’HCC (la società che promuove la carne gallese) ha “ingaggiato” Carlo Cracco proprio per fare una cucina creativa e di alto livello con i pezzi più difficili dell’agnello: spalla e coscio in primis, senza sfruttare solo il tenero e “facile” carrè.
«Coscio e spalla sono pezzi difficili, perché occorre saperli lavorare: quindi è carne molto adatta alla ristorazione di livello che ne può tirar fuori grandi sapori» spiega lo chef milanese.
E a dimostrazione di quanto afferma, butta là dei piatti dal gusto incredibile come gli Spaghetti di agnello gallese, ottenuti lavorando la noce del coscio come un prosciutto e poi tagliandola a julienne, accompagnata da una salsa di patata che stempera il sale necessario al trattamento della carne; o il Brasato, cottura mitica in tre fasi che tende a tener morbida la carne che altrimenti («ed è il limite di molti cuochi gallesi, che non riescono a uscire dagli schemi tradizionali» commenta Cracco) sarebbe dura e stopposa.
Per non parlare del Roasted Lamb, una sorta di roastbeef di agnellone, semplicissimo, che rende al massimo il sapore dolce e deciso di questa carne di carattere.
Ma le ricette per gustare questi tagli di carne non mancano neppure nella cultura gastronomica gallese. Come nel tradizionale cawl, uno stufato brodoso preparato con tagli minori (collo e sottospalla) con l’aggiunta di porri, patate, cipolle, carote, rape, orzo, ed erbe fresche: prima si gusta il brodo e poi il resto.
È servito di solito in ciotole di legno e gustato con cucchiai anch’essi di legno per non scottarsi la bocca. Nel cawl entrano spesso anche pezzi di maiale.
Molto popolare è poi lo shank braised, lo stinco brasato, oggi una sorta di mania nei gastropub come pure il roasted loin, il lombo al forno.
Il coscio arrosto si gusta di solito anche freddo accompagnato dai chutney . Con gli avanzi ci si fanno polpette. Abitudine della midle class era quella di tenere il forno accesso per tre giorni, in modo da cuocere più carne possibile che si sarebbe poi smaltita fredda nei giorni successivi. Si va a perdere invece la tradizione della pecora bollita e anche quella del montone.
A nulla sembra valgano i tentativi di Charles d’Inghilterra, principe ma pure impegnatissimo farmer nel riportare in vita le antiche tradizioni. Non è comunque un caso che il Galles esporti parte della sua produzione in Francia, essendo la cultura del gigot analoga.
Al pari dei gallesi, i cugini d’Oltralpe apprezzano infatti gli agnelli di taglia extralarge, quelli sui venti chili che i francesi sono disposti a pagare cari. Gli agnelli gallesi che importiamo invece in Italia sono più leggeri (tra gli 8 e i 13 chili), ma anche il mercato italiano si sta impercettibilmente spostando dai capi ultraleggeri a quelli appena più pesanti (sui 13 -15 kg). 76 mila tonnellate è la produzione gallese, di cui il 30 per cento ha come principali mercati di sbocco la Francia, l’Italia, il Belgio, la Germania.
Le nostre importazioni riguardano per la maggior parte agnelli di razza welsh mountains, di misura più consona ai nostri gusti alimentari che non premiano certo le rotondità ovine.
La Spagna invece in fatto di agnelli è autarchica, il loro cordero in patria non ha rivali. In Italia di agnello gallese ne riceviamo 5.500 tonnellate.
Nella conquista del nostro mercato, che resta dominato da esemplari nostrani (in primis l’agnello sardo), il gallese se la deve battere con la concorrenza dei consanguinei scozzesi che però hanno lo svantaggio di avere carcasse più grandi, sui venti chili di peso, e dunque meno congeniali alle inclinazioni alimentari italiane.
Peraltro la triade sardo-gallese-scozzese può far valere in Europa l’Indicazione Geografica Protetta. Ma il vero competitor è il neozelandese che arriva per metà surgelato.
Potendo contare, i neozelandesi, su enormi estensioni di terreno, possono anche permettersi di allevare un enorme numero di capi nell’ambito dei quali selezionare animali di taglia standard più adatti ai diversi mercati.
Senza contare che i primi agnelli neozelandesi sono arrivati in Europa nel 1872 e la promozione è cominciata nel 1924. Un vantaggio competitivo ancora complicato da colmare. Ecco spiegato perché conosciamo soprattutto gli agnelli neozelandesi…
Circa mille fattorie concorrono in tutto il Galles a fornire agnelli tracciabilissimi, dalle più piccole con sette capi alle più grandi (circa la metà) con migliaia di capi.
In alcuni supermercati inglesi di altissima gamma come Withe Roses la tracciabilità riguarda oggi ogni singolo animale e non solo il lotto. L’agnello gallese biologico viene venduto nella rete dei supermercati italiani Natura Sì ma in realtà anche il prodotto convenzionale, per quanto riguarda l’alimentazione, data l’estensione dei pascoli, è di fatto un prodotto estremamente naturale (i prati molto di rado hanno bisogno di essere concimati).
Forniture di gallese bio sono state sottoscritte dalle mense scolastiche di Roma. E chissà che le giovani generazioni di romani imparino ad apprezzare non solo l’abbacchio.
Trattandosi poi di un prodotto stagionalissimo (il gallese da noi lo si trova da settembre a febbraio) a Pasqua, se mai lo si intercettaste, potrebbe costare davvero molto ma molto caro.
Raffaella Prandi