Viaggio nelle torrefazioni italiane di ricerca. Tredicesima tappa: Orlandi Passion di Centobuchi

13 Ott 2015, 16:00 | a cura di

Andiamo in un piccolo comune in provincia di Ascoli Piceno chiamato Centobuchi per scoprire il caffè di Orlandi Passion. Ma la storia di questa torrefazione nasce a Seattle negli Stati Uniti. Il creatore di questo gruppo internazionale è Mauro Cipolla e questa è la sua storia.

Parlare di “esperienza” in America per Mauro Cipolla è riduttivo. Il torrefattore ha vissuto la nascita e lo sviluppo della cultura dell'espresso negli Stati Uniti. Si è fatto le ossa nelle caffetterie di Seattle per poi tornare in Italia, nelle Marche, sua terra d'origine. È tornato per far vivere ai suoi figli le bellezze del paese, per restare, continuare i suoi studi, la sua ricerca per la tazzina perfetta. Per scoprire poi, una volta tornato in Italia e dopo anni di fatiche e ricerche, di avere il caffè nel sangue: la sua bisnonna aprì una delle prime caffetterie a Milano nel 1916 ma la sua famiglia non ne ha fatto parola fino al 2009. Ma questa è un'altra storia. Quella di Mauro, invece, inizia a Seattle negli anni '70.

Come è iniziata l'attività?

La mia storia è particolare. I miei genitori erano emigrati a Seattle quando io avevo circa 7 anni. Ho studiato international business all'università ma col passare del tempo ho intrapreso un'altra strada. Sentivo la mancanza dell'Italia, delle mie radici e mi sono appassionato di cibo, per cui sono tornato qui. Alla fine degli anni '70 sono andato a Caserta presso una piccola torrefazione locale e ho cercato di apprendere il più possibile, lavorando con una vecchia macchina a legna. Dopo, c'è stata l'esperienza in Sicilia, dove ho conosciuto quella che dopo qualche anno è diventata mia moglie. E dopo ancora la Toscana, dove ho seguito corsi di cioccolateria e pasticceria. Volevo riportare il vecchio artigianato in Italia, ma volevo anche farlo conoscere all'estero. L'attività di torrefattore nasce a Seattle nel 1985, con il Caffè d'Arte. Solo dopo molti anni ho scoperto che anche la mia bisnonna aveva una passione per il caffè: nessuno della mia famiglia me ne aveva mai parlato in tutto questo tempo.

Quando ha capito che le cose si stavano mettendo bene?

Il mio obiettivo era entrare nei bar e nei ristoranti. A quei tempi Illy era già conosciuto e apprezzato negli Stati Uniti, marchio potentissimo nell'industria del caffè. Ho iniziato a conquistare alcuni dei suoi clienti e quello per me è stato il momento in cui ho capito che stavo lavorando nella giusta direzione.

Come si è sviluppata poi l'attività?

Ho iniziato a scrivere testi, partecipare a trasmissioni televisive come Good Morning America o Ciao Italia!, che al tempo contava 42milioni di spettatori. Poi c'è stato il roadshow: con i miei collaboratori andavamo in giro per alberghi e tenere conferenze, incontri. Poi ho iniziato a collaborare con la SCAA (Specialty Coffee Association of America); ho aperto altri punti vendita, una cioccolateria e una pasticceria. La pasticceria mi ha aiutato molto nel mio lavoro di torrefazione perché mi ha insegnato il rigore e la precisione.

Quando e perché ha deciso di aprire una torrefazione in Italia?

Sono tornato per i miei figli, per dare un senso alle loro radici. Volevo che i miei bambini facessero il loro percorso in Italia per poi scegliere da soli se lasciare o meno il loro paese d'origine. E alla fine siamo rimasti tutti quanti, innamorati della nostra terra. Abbiamo ancora l'attività a Seattle ma abbiamo aperto una torrefazione in provincia di Ascoli Piceno nel 2014.

Ora, parliamo di caffè. Che prodotti avete?

Il nostro centro di produzione è diviso in tre settori: il caffè in grani, le capsule – biodegradabili – e le cialde. Personalmente, continuo a preferire il caffè in grani alle cialde o alle capsule, ma cerchiamo comunque di ottenere il meglio da ogni tipologia di offerta.

Blend o monorigine?

Io non credo nei monorigine che ora sono così di tendenza. Il monorigine non rientra nella dicitura italiana classica del caffè espresso. È diventato una moda ma io sono un torrefattore italiano degli anni '70, forse un po' all'antica, ma voglio mantenere quello standard alto dell'espresso italiano. L'intero settore del caffè oggi in Italia è molto americanizzato. Tutta l'ondata dei caffè monorigine, biologici e simili io l'ho già vissuta in America anni fa. L'ho sperimentata, studiata ma non rientra nelle mie radici La miscela è una costante dell'espresso; l'estrazione degli oli del caffè avviene attraverso temperature e tempistiche precise, una lavorazione scrupolosa che ha bisogno di un blend che racchiude più note aromatiche. La miscela è importante perché la natura è in continuo cambiamento e il caffè nasce da una pianta, non è un qualcosa di immutabile. A volte possiamo non trovare più gli stessi identici aromi in una varietà; con il blend non c'è questo rischio perché possiamo modificare la miscela, le proporzioni in modo da ottenere l'aroma che preferiamo. Il caffè crudo è vivo, respira e siamo noi che dobbiamo adeguarci all'evoluzione della natura.

Che tipo di miscele avete?

Sono tutte 100% Arabica. Non utilizziamo la Robusta perché ormai non è più una qualità pregiata. È sempre stata considerata una varietà di serie B ma in realtà fino a una ventina di anni fa si poteva trovare una percentuale di Robusta nobile. Ora, il 56% del caffè crudo che entra in Italia è Vietnam grado 2, una pessima qualità; in Italia c'è il primato di Robusta vietnamita perché costa poco ed è scambiata sul mercato di Londra a bassissimo costo.

Da quali territori acquistate il caffè crudo?

In passato, ho scritto ben 3 libri sulle classificazioni dei caffè crudi e una volta conclusi e stampati, erano già obsoleti. Mi sono reso conto che è impossibile classificare i caffè a seconda delle origini geografiche. Ad esempio, c'è stato un tempo in cui il caffè della Colombia era molto rinomato e così la richiesta è stata talmente alta che ha superato l'offerta. Sono iniziati i problemi di potatura, la raccolta diminuiva e il caffè della Colombia non è stato più utilizzato per tanti anni. La mia visione è semplice: bisogna capire cosa ci piace di un caffè e trovarne 2/3 che, miscelati, restituiscono gli stessi aromi. In questo modo si può sempre ottenere la gamma di note aromatiche che preferiamo a prescindere dal tempo e dalla natura.

Prima ha nominato i caffè biologici. Cosa ne pensa?

Sono nati a Seattle negli anni '80. A quei tempi non erano buoni, ora invece l'offerta è molto migliorata. Ma io non li vendo; trovo che sia solamente una questione di business, di marketing, non ci vedo un reale vantaggio nel caffè biologico.

Veniamo al decaffeinato. Qual è la sua visione su questo prodotto?

L'annosa questione del decaffeinato! Ci combatto da 30 anni. In torrefazione ne abbiamo 3 tipologie: quello classico con diclorometano, quello naturale ad acqua e quello realizzato con l'acetato di etile, solvente naturalmente presente all'interno del caffè.

Perché c'è ancora l'offerta di decaffeinato con diclorometano?

Ho letto parecchio sull'argomento e sulla chimica del caffè in generale. Ancora non ci sono trattati in grado di dimostrare con delle prove concrete che il diclorometano faccia male e quanto influisca sul nostro organismo, in che modo. Il mondo della chimica del caffè è vasto e ci sono molti aspetti da valutare.

Prepara anche caffè americano?

Ho studiato l'estrazione in un laboratorio in California, in cui tostavo e miscelavo tutti i giorni per misurare l'esatta estrazione dell'olio essenziale. Ma ora siamo in Italia e voglio concentrarmi sull'espresso. Il nostro slogan è “Happy Lifestyle”, stile di vita felice ed è questo quello che voglio, facendo ciò che amo.

Come è cambiato il consumo di caffè nel tempo?

Adesso vanno molto di moda i caffè di stampo anglosassone a infusione fredda, per non parlare della Latte Art, la decorazione di cappuccini. Molto bella, sicuramente, ma il prodotto? È effettivamente un cappuccino di qualità? A me interessa quello, non l'estetica.

Gli errori più comuni nella preparazione dell'espresso?

Dunque, il problema è a monte e per analizzarlo dobbiamo fare una premessa sui macchinari. Utilizzare una macchina non significa spingere un bottone, ma saper usare i sensi. Udito, vista, olfatto: bisogna ascoltare la macchina e sentire i profumi che sprigiona per capire come lavorare il caffè o il cappuccino. Per anni ho lavorato con macchine Simonelli ma poi ne ho provate tantissime altre e ognuna conferiva il proprio gusto al caffè. Prendiamo a esempio la temperatura dell'acqua: dovrebbe essere non superiore ai 93° ma spesso viene portata a 98° quando si ha un caffè di bassa qualità per bruciarne i sentori sgradevoli (e purtroppo succede in molti locali).

E il cappuccino?

Il vapore è importantissimo e anche il beccuccio. Ogni beccuccio ha una forma particolare, una precisa angolazione dei fori che va studiata per realizzare la schiuma. E poi ancora la grandezza della lattiera e il modo in cui la pieghiamo quando è il momento di montare. Questi sono i problemi legati alla macchina. Poi, naturalmente, il latte. Qualità a parte – che deve essere ottima – il latte va lavorato con cura, va girato correttamente per donare una tessitura vellutata al cappuccino, non va mai bruciato e non bisogna incorporare troppa aria. E infine, quando è il momento giusto per montare?

Organizzate corsi di degustazione?

Sono sempre propenso a fare formazione. Fino ad ora abbiamo fatto 750 degustazioni in giro per l'Italia e per il mondo e sono sempre aperte a tutti.

Come stanno lavorando le torrefazioni estere?

Per quanto riguarda l'Europa, in Francia ci sono alcune isole felici ma sono veramente poche. I francesi però hanno una marcia in più in fatto di estetica che gli va riconosciuta. Per la qualità invece la strada da percorrere è ancora lunga; hanno delle macchine molto veloci e il caffè è spesso troppo tostato oppure al contrario, troppo fresco e di conseguenza eccessivamente acidulo e inconsistente. In Germania fanno molta attenzione al prezzo, al packaging, al commercio, ma non c'è un'arte dietro, un concetto di artigianato. In Spagna hanno invece la stessa concezione di artigianalità che abbiamo noi e si trovano dei punti di qualità per tutte le tipologie di caffè. Per l'espresso ancora devono lavorare, ma partono da una buona base. L'Inghilterra è il paese che sta operando nel modo migliore. Ha seguito la strada di Seattle e i baristi sono preparatissimi, sia nella Latte Art che nell'espresso. Naturalmente, il gusto è quello anglosassone per cui le dimensioni della tazza di caffè tendono ad essere maggiori, mentre l'espresso è molto ristretto e molto fruttato. Al di fuori dell'Europa, tralasciando Seattle, trovo che in Australia stiano facendo passi da gigante.

Cosa sta accadendo invece in Italia?

Purtroppo negli ultimi 30 anni c'è stato un grande calo nella qualità, un peggioramento che avevo già previsto nel 1993, anno in cui ho affrontato questo tema a una conferenza internazionale di caffè. L'Italia è la culla della cultura del caffè, dell'enogastronomia, ma non dobbiamo rimanere immobili sulle nostre radici: dobbiamo evolverci continuamente. Questo non significa abbandonare i vecchi valori o le antiche tradizioni, al contrario. I cambiamenti vanno fatti con attenzione, altrimenti potrebbero portare peggioramenti. Faccio l'esempio di una torrefazione che aveva messo in disuso una vecchia macchina Petroncini degli anni '70 per sostituirla con una moderna, ma il caffè ne ha risentito. Adeguarci e proiettarci verso il futuro non significa sostituire il lavoro dell'uomo con quello della tecnologia. Semplicemente, intendo dire di continuare a ricercare per migliorare il prodotto che, come abbiamo già detto, cambia col tempo essendo parte integrante della natura. Inoltre, bisogna dire che la professione del barista non è più seguita come una volta; in seguito al boom economico degli anni '80 molti hanno aperto bar per fare business e non partendo da una vera passione. Non si parla più di una tradizione familiare tramandata fra generazioni ma di un “business in gestione”.

Bisogna quindi rivalutare l'artigianato?

In realtà adesso l'artigianato ha un valore altissimo. Ma è un artigianato di tendenza, in cui si pensa che basta avere produzioni più piccole e fresche rispetto all'offerta industriale per definirsi artigiani. Devo dire però che la crisi ha portato molte persone a ripartire attività antiche di famiglia. Certo, non lo hanno fatto partendo da una passione ma in qualche modo hanno ritrovato la storia del passato nel loro Dna.

Dove sbaglia il consumatore?

Il consumatore è obbligato a prendere quello che il mercato offre. Spesso, nelle caffetterie o bar dove viene servito un pessimo caffè nessuno si lamenta e in questo modo i titolari non possono migliorarsi. Il problema è che noi italiani siamo troppo gentili e per essere garbati non ci lamentiamo mai quando un prodotto non ci piace. All'estero non avranno la nostra storia e la nostra cultura del cibo però sono più aperti e mettono in discussione i prodotti e i piatti. Noi dobbiamo conservare il nostro patrimonio culturale e partire da quello per migliorarci, mettendo noi stessi, e chi lavora per noi, costantemente in discussione.

 

Orlandi Passion | Centobuchi (AP) | via del Terziario, 6 | tel. 0735 656024 | www.orlandipassion.com/

 

a cura di Michela Becchi

 

Nel prossimo articolo intervista a Micro Torrefazione di Gallarate

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