La data precisa dell'inaugurazione ancora non c'è, ma non manca molto: “conto di aprire Il Portico per la fine di luglio” dice Paolo Lopriore, che sembra essersi lasciato alle spalle l'inquietudine che lo ha accompagnato negli ultimi anni per trovare pace in una nuova dimensione domestica: “l'ispirazione sta diventando sempre più quella di un posto che sia casa mia”. E per rafforzare il senso di questa affermazione chiama in cucina sua madre, presente sia a pranzo (che sarà più semplice e immediato, anche nel prezzo) che a cena. Del resto, dice: “mia mamma mi ha dato un palato, il signor Marchesi il gusto”. Così, tracciati i suoi riferimenti, è pronto per ridefinire la sua posizione dando seguito all'intuizione delle ultime stagioni. Quella che pone la cucina mangiata al centro dell'esperienza gastronomica. Non più lo chef con la sua cucina, ma il cliente con le sue esigenze. A cui lascia anche la libertà di finire i piatti come più preferisce (come già iniziato a fare lo scorso anno a Milano), secondo il nuovo mantra della convivialità declinato a partire da riflessioni, ripensamenti e collaborazioni, prima tra tutte quella con l'artista Andrea Salvetti.
La cucina dei piatti unici e del piatto forte
“Non voglio più avere obblighi e fare quello di cui ho voglia, in modo più semplice” dice. E per raggiungere il suo obiettivo si lascia alle spalle la canonica divisione tra antipasti primi e secondi, per celebrare il piatto unico “tre al giorno: uno di carne, uno di pesce e uno vegetariano. Il piatto unico nella pirofila, che per la cena diventa una pirofila scomposta”, da assemblare giocando con sapori e abbinamenti, comunque un piatto complesso che si sviluppa intorno a un prodotto centrale.
Insieme ai piatti unici anche il piatto forte: uno al giorno. “immaginiamo: lunedì il pesce di lago, martedì la carne rossa, mercoledì le frattaglie e così via. I clienti sanno che se vogliono mangiare il manzo lo trovano in un determinato giorno”. Occasione per concentrarsi su una materia, studiandone potenzialità in una prospettiva nuova, a mano libera e con più armonia, secondo regole che sono quelle quotidiane in cui il prodotto detta l'andamento della cucina.
Inaugurando così anche un rapporto diverso con i fornitori: “saranno loro a suggerirmi il prodotto migliore e il momento migliore. Magari prendo una mezzena, e sarà il macellaio a tenerla e a darmi, giorno dopo giorno, le varie parti al momento ottimale” le frattaglie per prime e poi, secondo la frollatura, tutti gli altri pezzi. “E su questo costruisco il mio menu”. Una cucina di mercato, proprio come si fa a casa, per cui non servono grandi celle, routine e organizzazione marziale ma richiede impegno quotidiano con la creatività del cuoco sempre sotto esame.
La sala e gli oggetti d'arte di Andrea Salvetti
“Il progetto è di un architetto amico di famiglia, ma è stato fatto secondo le mie indicazioni” dice. A rimarcare un andamento che rifugge grandeur e sfarzi, puntando su quella che si potrebbe definire decrescita felice. “La cucina è grande quanto la sala (45 mq, ndr), con stufa e banchi importanti, c'è un locale tecnico sopra, con tutti i motori, e una cantina vera”. A guidare le scelte “la mia esperienza dai Troisgros in cui la precedenza va tutta alla cucina. E poi siamo in campagna qui, a 15 chilometri dal lago di Como” a sottintendere che certe dinamiche tipiche della metropoli, come la supremazia degli architetti, sono fuori gioco. Facciata color mattone, interni galli - “i colori della campagna” - atmosfera rilassata, molte cose ancora da decidere. Di sicuro ci saranno i mobili-scultura e gli oggetti di Andrea Salvetti “opere artistiche non solo decorative, ma anche funzionali, di una bellezza utile” come le credenze che custodiscono quanto necessario per la vita del ristorante. Protagonisti in tavola gli strumenti per la cottura creati dallo scultore “per ora gli stessi, ma stiamo pensando a un affumicatore da tavola” dice “ma prima devo entrare in cucina, iniziare a lavorare e capire la materia”. E dopo sarà il turno della sala che dovrà prendere confidenza con questo approccio: “quando lo staff sarà pronto a usare i nuovi strumenti, allora aumenteranno”.
La sala
I team di lavoro è nuovo “così è più libero di prendere anche la strada più spericolata”, perché il compito che gli viene affidato è cruciale: “il viaggio lo conduce il cameriere”, che deve capire chi ha di fronte: aiutare, suggerire, far scoprire, ma solo se è il caso, altrimenti no. “Io cuoco devo concentrarmi sul cucinare. In questo momento non voglio neanche fare un piatto bello, ma un prodotto bello. Il piatto bello è compito di qualcun altro”. Di qualcuno che sappia decorare. “Affidare gli incarichi giusti a chi sa farli è qualcosa che ho imparato con Andrea Salvetti”. Alla sala anche l'onere di dare le giuste indicazioni in cucina: “penso al cuoco che fa il nigiri più piccolo per la donna se mangia meno o un piatto diverso per i mancini” sono improvvisazioni del momento per regalare a ogni ospite la stessa esperienza: quella tailor made.
La tavola per tutti
Eredità dell'attività precedente, un tabaccaio, un bancone che solletica la fantasia dello chef: “ancora non so bene come vivrà” ma l'idea è quella che sia un passaggio aperto verso le persone, “mi piace l'idea di fare da mangiare anche fuori orario, se qualcuno ha fame. Un piatto semplice, pensato sul momento, anche a tre euro, ma preparato da uno chef che ha una storia. Un uovo sodo accompagnato da un sale profumato, o qualcosa di simile”. Insomma una cucina aperta alle persone, “quando ero in Francia, tutti venivano a mangiare, anche se era un grande ristorante, e lo facevano con piacere”. In Italia, invece la situazione è diversa. Spesso mangiare equivale ad analizzare, ricordare, parlare di altre esperienze magari facendo sfoggio di nomi e ristoranti visitati, accumulando piatti su piatti. “La Tv è riuscita a far parlare di cucina, ma bisogna tornare a vivere l'emozione”. Sedersi a tavola per il piacere di mangiare e di stare insieme. “ecco: serve un altro modello da seguire”. Motivo per cui l'obiettivo è stare entro i 60 euro. Ma dato che nessuno mangia più antipasto primo e secondo, ma un solo piatto, al massimo due, un ripensamento della cucina nella direzione del piatto unico incontra tanto le esigenze dei clienti, quanto quelle dei ristoranti la cui sostenibilità economica gioca su equilibri delicati, a partire dalle scelte in cucina fino a quelle imprenditoriali, come la proporzione tra ospiti e persone che lavorano “in Italia, per le leggi che abbiamo, non è pensabile avere più impiegati che coperti”. Il Portico si assesta su 4 o 5 persone in cucina e 2 o 3 in sala per 30 ospiti.
La cucina
“L'idea che ho in testa è quella di lavorare con le grandi ricette di cucina regionale, ma usando la tecnica e la conoscenza per cambiargli i connotati” dice, e fa l'esempio della lattuga ripiena che in estate può essere preparata con la lattuga di mare. “Il valore di un cuoco c'è quando riesce a trasformare in processo qualcosa che fino allora non si era mai visto. Pensiamo ad Adrià”. Un esempio curioso, per lui, che ammette “i miei piatti sono sempre stati molto emotivi: ho sempre cucinato secondo la giornata” esecondo l'ingrediente “me ne sono accorto lavorando sull'alloro: a un certo punto, dopo un anno, il mio piatto era molto diverso perché era stata una stagione molto piovosa”. Significa non avere un lavoro fatto in batteria, ma accettare l'imprecisione e le variabili “questa è la magia della cucina, è un po' il rigore sbagliato dell'Italia” scherza. “Cerco la verità dell'ingrediente e la mia, devo cucinare in modo vero”. E tutto parte intorno a un prodotto: “ho una carne rossa e ci costruisco antipasto primo e secondo”: un carpaccio per antipasto, un brodo classico o uno shabu shabu, un raviolo di mostarda che non è un primo ma un contorno del bollito. “Mesi fa a Roma ho parlato con Giovanni Passerini e mi sono sempre più convinto che era questa la direzione che volevo”.
Nessun richiamo al “vecchio” Lopriore? “Vorrei riprendere i miei estratti, i distillati che facevo al Canto di Siena. Magari senza presentarli in maniera estrema”, insomma: se vuoi li metti altrimenti no “certo, io spero che li mettano, e che da lì nasca uno scambio, un invito l'un l'altro ad assaggiare e provare”. Insomma a vivere la tavola. Anche questa è convivialità: quella in cui il cliente sceglie se veramente vuole fare un'esperienza e in che modo farla. Magari per giungere allo stesso piatto che avrebbe trovato in un menu con un'impostazione tradizionale.
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a cura di Antonella De Santis