Si chiama bliss point ovvero punto di beatitudine, quello stato di appagamento indotto da un cibo che spinge a volerne ancora. Accade principalmente con i prodotti confezionati: le chips, una merendina, gli snack salati e altro ancora. E non è un caso, né una nostra insana passione per tutto quel che è cibo spazzatura. Ma il risultato di un preciso lavoro di laboratorio che studia, e usa, il quantitativo esatto di zucchero, grassi, sale per generare nel consumatore proprio quel tipo di piacere, quello per cui si è indotti a mangiarne o berne ancora. E diventare, potenzialmente, un consumatore compulsivo. Si tratta di provocare un desiderio indotto, la pulsione a ripetere l'esperienza e ricreare quindi le condizioni di quel piacere.
Accade con tutti i prodotti dell'industria alimentare: vengono progettati a tavolino per agire su alcuni meccanismi neurologici in modo simile alle droghe, tabacco soprattutto (a proposito: non è inquietante il legame di Philip Morris con Kraft?) e indurre una sorta di dipendenza. E lo fanno proprio grazie a questa parabola di grassi-sale-zucchero. A confermarlo alcuni studi scientifici sui topi, nei quali la somministrazione combinata di questi tre elementi fa superare la percezione del senso di sazietà e li spinge a sovralimentarsi.
Avviene così che anche nel pane industriale non manchi una consistente presenza di zuccheri, spesso utilizzati anche come sostituti di ingredienti più costosi, che lo stesso saccarosio venga potenziato nel suo potere dolcificane da esaltatori di sapidità, che il sale venga sottoposto a una polverizzazione estrema per rendere più forte la sua percezione sulla lingua. Così da incrementare l'esplosione di sapore generata da patatine e altri snack salati, ma attenzione: il sale è presente, in quantitativi rilevanti, anche nei biscotti, nei cereali, nelle merendine dolci.
Michael Moss, giornalista del New York Times e premio Pulitzer, ricostruisce in Grassi, Dolci, Salati. Come l'industria alimentare ci ha incastrati il percorso intrapreso dalle multinazionali del food americane quando, era la fine degli anni '90, si iniziò a puntare il dito proprio contro di loro per la responsabilità nell'emergenza obesità degli USA. In quel periodo la cattiva nutrizione era diventato un problema nazionale e le aziende dovettero allinearsi – almeno apparentemente – alle nuove campagne governative riguardo l'alimentazione. Almeno apparentemente, dicevamo, perché l'obiettivo delle grandi multinazionali non era allora come non è oggi il benessere pubblico, ma il profitto e il dominio sul mercato, possibilmente sconfiggendo la concorrenza. Proprio in quel periodo dunque si iniziò a studiare il bliss point, calcolando l'esatta quantità di grassi, zucchero o sale che genera quello stato di appagamento che induce a desiderare ancora il prodotto e quindi a ripetere l'acquisto. Inquietante dietro le quinte di operazioni di marketing che puntano a riabilitare agli occhi dell'opinione pubblica i prodotti incriminati.
Iniziarono a comparire allora i nuovi tormentoni, parole come integrale, naturale, vitamine aggiunte, strumenti di una comunicazione spesso ingannevole cui non corrisponde alcun valore nutritivo aggiunto o maggiore salubrità del prodotto. Pura operazione di marketing, senza considerare i veri e propri casi di contraffazione. In soldoni: molte chiacchiere, poca (quando nessuna) sostanza.
Gratificazione, desiderio indotto, dipendenza. Queste la chiavi su cui agisce l'industria alimentare. Così facendo si incentivano comportamenti compulsivi, paragonabili a quelli indotti dalle droghe, cui il consumatore meno consapevole cede. Soprattutto se il prezzo di vendita è particolarmente basso, ovviamente a scapito della qualità della materia prima. Ci penseranno additivi e aromi naturali a mascherare e rendere gustosi i prodotti, tessendo un vero e proprio inganno sull'esatta natura di ciò che si sta mangiando. Così si progettano cibi che il nostro palato e il nostro cervello giudicano perfetti, dunque desiderabili al limite della dipendenza. Concorrono a costruire questa grande illusione le textures, la consistenza sotto i denti o sul palato, il rumore emesso durante la masticazione (il famoso crunch o crock), un primo impatto gustativo intenso così da far recepire immediatamente questi cibi come buoni, la facile deglutizione che lascia subito spazio a un nuovo boccone. In qualche modo c'è una grande seduzione inconsistente: all'impatto immediato segue un finale scarico che spinge a un nuovo assaggio proprio per ricreare il forte piacere iniziale, sempre disatteso dal procedere dell'esperienza che rimane così inconclusa. C'è un altro fattore molto importante: il basso, quando non assente, apporto proteico che indurrebbe senso di sazietà. Gli snack in buona sostanza sono calorie vuote, l’organismo non le registra come nutrienti, e quindi continua a cercare altro cibo, possibilmente proprio quello che dà appagamento. Il bliss point è continuamente chiamato in causa, e continuano le ricerche per innalzare la soglia del punto di piacere. L’obiettivo, ovviamente, è sollecitareil desiderio di consumarne sempre di più, fino alla dipendenza. Le definiscono food addiction, dipendenze da cibo.
Nel libro-inchiesta Moss non manca di chiamare in causa alcuni noti marchi del settore alimentare svelandone pratiche poco chiare e pubblicità ingannevoli. Il cosiddetto junk food è l'imputato principale, ma insieme a questo ci sono i più diversi cibi pronti, precotti o surgelati; pizza, primi o secondi piatti che somigliano da vicino a quanto potrebbe essere preparato a casa, ma a un'analisi più approfondita “giocano sporco” puntando proprio ai tre elementi cardine del piacere – grasso, dolce, salato - per spingere a consumarne ancora e ancora. Un nemico tanto più subdolo quanto più celato sotto un'apparenza innocua e familiare.
Ma da dove nascono queste preferenze alimentari? Principalmente sono un retaggio evolutivo: attraverso il gusto si distingueva tra buono e pericoloso, individuando nel dolce e nel salato i sapori della sopravvivenza, nell'acido e nell'amaro quelli del rischio, mentre la triade calcolata nel bliss point - zuccheri, grassi e sale - è quella degli alimenti più ricchi che in epoche remote erano difficili da reperire e indispensabili per la sopravvivenza, situazione che ormai non ha nessun riscontro nelle esigenze effettive del mondo occidentale.
Giocando su questi elementi l'industria alimentare ha costantemente intrapreso un'opera di circonvenzione del pubblico, ai danni della salute del consumatore e delle nazioni, costrette ad affrontare un'emergenza sanitaria, non solo preoccupante, ma anche onerosa. Chi, come, quando è ciò che si propone di raccontare Michael Moss.
Grassi, Dolci, Salati. Come l'industria alimentare ci ha ingannato | Michael Moss | Mondadori | pagg. 464 | euro 20
a cura di Antonella De Santis