Per un personaggio poliedrico, eccentrico, come Gabriele d’Annunzio, che fece – per sua stessa ammissione – della propria vita un’opera d’arte, potrebbe apparire marginale o addirittura trascurabile passare in rassegna le testimonianze sui rapporti con la gastronomia della regione nativa.
Ma, evidentemente, non è così perché quello che conta in d’Annunzio è l’essenzialità storica della cucina abruzzese: una essenzialità fatta di calore umano, di ricordi di tempi lontani, di sentimenti, di affetti familiari, di nostalgia per il tempo perduto e non ritrovato.
Ed è proprio la nostalgia la chiave di lettura, il filo rosso che lega tra loro il salamino pepato della Maiella, le triglie allo spiedo, il cacio vermicoloso, il brodetto di pesce alla vastese, i maccheroni alla chitarra, preparati con una “specie di arpa cuciniera a sezione rettangolare, e che si suona con le mani in piano orizzontale”. È la nostalgia per la sua Terra, che si fa sempre più struggente col passare degli anni, fino a diventare malinconia nel Notturno e nel Libro segreto, al centro dei quali si pongono preminenti i due grandi amori del poeta: la madre e la città natale.
A questi motivi si ricollegano i frequenti richiami della memoria: il profumo del pane recente “che si spandeva dal forno di Flaiano”, che dista pochi passi dal palazzotto avito di Pescara; “la zuppa rustica all’uso del paese, ricca di zenzero, colorita e odorante”, che Giorgio e Ippolita, nel Trionfo della morte, mangiano sul terrazzo dell’eremo rustico di San Vito Chietino; il cacio pecorino che un servitore gli porta ogni mattina su un antico piatto in ceramica di Castelli; la “porchetta d’oro” regalatagli dal ministro Giacomo Acerbo, conterraneo, che ispira a d’Annunzio uno dei più nostalgici sonetti dialettali; e il dolce Parrozzo di Luigi D’Amico, da quel pane rozzo dei contadini abruzzesi, attaccandosi al quale avverte la suggestione di succhiare da esso la parte più genuina della sua regione. Per lui questi elementi semplici, di una cucina realmente povera, rappresentano il pretesto per recuperare un rapporto lontano con la sua Terra e la sua gente.
Non si comprenderebbe altrimenti il significato di questo libro se non fosse chiaro che ogni riferimento positivo a quello che in apparenza sembrerebbe cibo del popolo, va inquadrato per ciò che esso è realmente, cioè cibo della casa e, quindi, della madre.
Non si comprenderebbe se pensassimo a quanto poco mangiava il poeta, soprattutto durante gli anni del Vittoriale. Nella sua ultima dimora aveva introdotto per sé e per gli altri un vero e proprio regime dietetico. Così scrive al pittore Francesco Paolo Michetti che lo era andato a trovare: “Certo, ignori la regola del Vittoriale. Io, Abruzzese schietto, da gran tempo ho abolito l’abbottatura in forma di rimpatriata. Esporrò, a te igienista antico, la mia teoria del digiuno. Per esempio, mentre scrivo, son digiuno da 38 ore. Alla mezzanotte prenderò un lieve pasto”.
Non sempre, in realtà, questi pasti erano lievi. Ultimati i digiuni, riprendeva a mangiare “come un feroce lupo della Maiella”. Stanotte” confessa “ho mangiato con una furia bestiale. Ho ingoiato tutte le triglie dell’Adriatico. E sono stato molto male, dopo: e sto ancora male”.
Quando il suo medico provava a fargli notare l’insensatezza di una simile dieta, si sentiva rispondere piccato: “Noi in Abruzzo ci curiamo così, e si campa cent’anni. Un pastore della Majella ne sa piú di te”.
In questo libro, che esce dopo tre anni dalle prime due fortunate edizioni di Gabriele d’Annunzio e la gastronomia abruzzese, si approfondisce, in particolare, il rapporto dello scrittore con il vino e con l’alcol. Argomento particolarmente interessante, soprattutto in considerazione del fatto che d’Annunzio era astemio, come confermano i suoi più accreditati biografi.
Egli era convinto che il vino potesse essere escluso dal vitto di un gastronomo, arrivando addirittura a sostenere “che non si poteva essere un buon ghiottone essendo anche un buon beone”. E su questa teoria sfidò il giornalista e scrittore tedesco Hans Barth, al momento della pubblicazione del libro guida alle osterie d’Italia.
Eppure, l’occasione è propizia per tessere le lodi della Vernaccia di Corniglia, sul litorale delle Cinque Terre, “celebrata già dal Boccaccio e annoverata dal poeta tra le delizie offerte agli ospiti vegnenti nella feria d’agosto”; e dell’olente vino d’Oliena al quale d’Annunzio lega il ricordo di quando, in compagnia di Edoardo Scarfoglio e Cesare Pascarella, giunse nella “ospitale Sardegna tra i Sepolcri dei Giganti e le Case delle Fate”.
Al Montepulciano d’Abruzzo riserva un uso molto più familiare. Il primo dicembre 1932 scrive ad Acerbo per ringraziarlo del restauro della casa pescarese, e per invitarlo al Vittoriale “pe’ magnà ‘nghe me nu belle piatte de maccarune e pe’ beve nu bicchierucce de montepulciane”.
Eppure, è ancora una volta dai liquori abruzzesi che prova le suggestioni più intense. Così come intenso è il rapporto epistolare con Amedeo Pomilio, creatore del liquore Aurum. Davanti a una cassa colma di doni che quest’ultimo gli aveva fatto recapitare al Vittoriale, che gli “toccano la cima del cuore prima di deliziare il palato”, d’Annunzio avverte addirittura la presenza della mamma che gli sorrideva dall’ombra: “E la mia tristezza estuava come la foce della nostra Pescara”.
Mentre, nella lista dei vini e dei liquori, presenti nella cantina del Vittoriale, compaiono due bottiglie di Amaro Majella, prodotto dal chietino Giulio Barattucci che, nel 1858, aveva ottenuto il Corfinio dalla distillazione di 42 erbe raccolte lungo i sentieri della Maiella. Il poeta, ancor giovane, aveva definito “odoroso” quel liquore che aveva contribuito a plasmare l’atmosfera delle dimore dannunziane e soprattutto quella del Cenacolo francavillese.
Gabriele d’Annunzio e l’enogastronomia della memoria| Enrico Di Carlo, presentazione di Lia Giancristofaro, disegno di copertina di Marco Martellini| Ed. Verdone | pagg. 120 | euro 10
a cura di Enrico Di Carlo