stra e compulsare l’importanza – o l’inutilità – di ulteriori certificazioni di qualità per ristoranti e osterie in un mercato che, a dire il vero, dovrebbe autoregolarsi.
Vediamo in primis cosa succede in Francia: una schiera di starchef (ditene uno e c’è: da Ducasse a Robuchon sono quindici e sono i più grandi) ha patrocinato il lancio di una appellation, una denominazione che identifichi quella minoranza di ristoranti francesi (il 25%, pare) che non ricorre ai cibi precotti, ma che dà garanzie al consumatore di pietanze fait maison, fatte in casa. Sull’Express Alain Ducasse è furente: “in Francia ci sono 150mila ristoranti e ben tre quarti non fanno altro che cucina industriale, gli altri si battono per cucinare prodotti freschi e noi ci rivolgiamo a loro, per tutelarli”. L’iniziativa promossa dai 15 chef fondatori del Collège culinaire de France sottolinea un problema molto sentito per i “cugini”: la qualità media della ristorazione.
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La Francia – al di là del successo prettamente parigino della bistronomie – continua ad essere connotata come patria di grandi chef pluriblasonati. Sotto di loro, chi offre una proposta di livello medio e vuole preparare prodotti freschi si confronta con una pletora di alfieri del precotto, dell’industriale e del decongelato.
Ma è un problema solo francese? Probabilmente i francesi hanno il merito di porselo, questo problema, che però riguarda tutta Europa: sia le grandi città che i piccoli centri e le località di villeggiatura. Londra, Roma, Barcellona presentano infatti una minoranza di eccellenze e una schiacciante maggioranza di postacci, ecco perché hanno ancora senso le guide gastronomiche; a proposito quanti di quei locali che costituiscono il 25% dei ‘buoni’ identificati da Ducasse sono effettivamente segnalati nella Guida Michelin che ha una enorme influenza nella costruzione e nella chiave di lettura dell’offerta gastronomica d’oltralpe? In Italia in particolare le proporzioni lamentate da Ducasse (solo un quarto degli operatori fa un lavoro serio e accurato) sono probabilmente replicabili.
Cosa fare allora? Due le strade: una, quella che i 15 grandi chef transalpini tentano con questa nuova denominazione, è certificare i ristoranti e rendere pubblica questa attestazione con siti web, vetrofanie, pubblicazione. Un’altra passa invece per l’atteggiamento, le scelte e la consapevolezza dei consumatori: basterebbe infatti prestare un po’ più di attenzione alla scelta della tavola da prenotare, informarsi, avere occhio e preoccuparsi molto di più di quello che si sta mettendo nello stomaco. Di base servirebbe un po' più di cultura gastronomica, ma anche qualche accorgimento può essere d'aiuto. Un esempio? I menu con tante, tante pagine. Residuati bellici di una ristorazione da Anni Settanta e Ottanta, sono un buon indizio. Da evitare. I ristoranti che tengono a servire pietanze fresche, infatti, non possono materialmente andare al di là di una proposta di 5/7 piatti per ogni portata. Ed è solo uno dei trucchi…
In definitiva la verità rispetto a questo problema è che i ristoranti più attenti al margine di guadagno che alla decenza delle materie prime esisteranno fintanto che esisterà un pubblico che li frequenta. Dunque bene agire sulla certificazione dell’offerta, ma indispensabile (a partire dalla scuola, oltre che dalla famiglia transitando per la televisione) qualificare la domanda.
a cura di Massimiliano Tonelli
10/04/2013