Pino Cuttaia inaugura il percorso Le grandi cene d’autore del Baglio Sorìa firmando una cena a quattro mani con il resident chef Gaetano Basiricò. Nel suggestivo contesto del Resort & Wine Experience targato Firriato, in provincia di Trapani, all’interno della tenuta agricola della famiglia Di Gaetano, lo chef di Licata ha dato vita, cuore e anima a una serata dedicata a quella cucina della memoria che lo ha consacrato tra i luminosi astri della ristorazione italiana e gli ha conferito una identità precisa e tratti peculiari inconfondibili. Nel ruolo di affabile anfitrione della serata Nino Aiello, giornalista e raffinato critico enogastronomico, che ha accompagnato gli ospiti guidandoli per mano in un percorso di proustiana memoria, illustrando e commentando le proposte degli chef da una parte e gli abbinamenti di casa Firriato dall’altra. I suoi inizi sono stati difficili. Emigrato in Piemonte con la nonna materna, appena finito gli studi ha cominciato a lavorare in fabbrica e poi alla Olivetti prima di stabilire che avrebbe trascorso la sua vita in cucina.
Si ricorda il momento esatto in cui ha deciso che avrebbe fatto lo chef?
Una mattina, davanti ad una cipolla, mi sono accorto di poter scegliere di tagliarla come volevo, e mi sono sentito libero. Quella libertà è stata la mia “chiamata”, ho deciso lì.
Cosa ha trovato in cucina, che le mancava prima?
In fabbrica ero soltanto un numero, come gli altri. In cucina, finalmente, potevo essere una persona.
Questa attenzione alla persona poi è entrata a far parte della sua cucina. Di lei si può dire che è un cuoco generoso, non solo verso il cliente, ma anche verso la sua brigata. Come nutre questo altruismo?
La mia generosità nasce dal non avere l’esigenza di riscatti sociali. Quando nella propria famiglia niente ti viene negato e il sapere di ognuno è a disposizione di tutti, è normale crescere come un comunicatore. La cucina è fatta di gesti, di interpretazione, e io non so né voglio nascondermi. Questa ricchezza, che pur donata non si esaurisce, va coltivata, e l’unico modo per coltivarla è non chiudersi, concedersi agli altri.
Il piatto a cui oggi si sente particolarmente affezionato?
Si chiama Memoria visiva, e indica la strada verso cui sto andando: una strada fatta di imperfezione, perché la perfezione spesso è priva di vita.
Com'è?
Si tratta di un pezzo di pesce spada battuto e cotto da un lato soltanto, che riporta alla memoria la carne che si faceva cuocere in un piatto coperto posto sull’acqua usata per la cottura della pasta, quando c’era un malato in casa o per fare presto. Nel condimento del pesce lascio sempre cadere un nocciolo di limone, come poteva capitare nei gesti della mamma, che quel nocciolo non aveva bisogno di toglierlo perché non aveva timore di essere giudicata.
E un piatto che le piacerebbe avere inventato?
Ci sono alcuni piatti in cui riconosco del genio, ma onestamente posso dire che nessuno di essi mi ha mai suscitato invidia. Mi piace mantenere il mio stile: non voglio essere contaminato, per questo non guardo mai la tv quando si parla di cibo.
Quali cucine le interessavano, negli anni della gavetta?
Non ho mai cercato cucine importanti, il curriculum a tutti i costi. Per esempio subito dopo la mia esperienza Al Sorriso, quando aveva due stelle Michelin e prima che conquistasse la terza, sono andato a lavorare nella pizzeria di un amico. Ho sempre cercato il rapporto umano, prima di ogni altra cosa, ed è quello che cerco di trasmettere oggi ai miei ragazzi.
Cosa di preciso?
Uno stile di vita, un modo di relazionarsi con la società. La mia cucina è un ambiente rigoroso, ma da me non si impara solo a cucinare. C’è un forte rispetto, si mangia insieme e insieme si discute. È una strada difficile: più facile per tutti sarebbe limitarsi a comandare. Ma mi sta a cuore che imparino a chiedersi il perché delle cose.
E a lei chi lo ha insegnato? Chi considera il suo maestro?
Negli anni in cui io cominciavo il mio percorso in cucina in Italia c’erano due riferimenti importanti, che oggi sono due amici. Due figure assolutamente diverse nel loro genere: l’artista, Gualtiero Marchesi, e l’artigiano, però cerebrale, Gianfranco Vissani. Loro si chiedevano il perché delle cose, che è un momento fondamentale in cucina, perché porta un cuoco a crescere insieme all’ingrediente che ha di fronte.
E in Sicilia? Che succedeva in quegli anni?
In Sicilia c’era Nino Graziano. Un punto di riferimento, visionario e coraggioso nel difendere già all’epoca la sua tradizione. Tornando dal Piemonte ho chiesto di fare uno stage da lui, per imparare a usare le spezie tradizionali all’interno di una cucina stellata. Era un vero e proprio pioniere.
Cosa è cambiato da allora?
L’attenzione al prodotto: si è compreso che in un ristorante non servono dieci cuochi, piuttosto cinque cuochi e cinque contadini, per garantire materie prime eccezionali allo chef che poi dovrà trattarle. La vera innovazione è tornare indietro, come stanno facendo a Milano, dove semineranno un campo di grano in città accanto al Joia, là dove cinquant’anni fa un campo di grano c’era già. È un percorso naturale dell’uomo, il ritorno alle origini, ed è esattamente quello che faccio io nella mia cucina, con i miei piatti.
Qual è il riconoscimento a cui è legato di più?
I riconoscimenti ufficiali delle guide, le stelle della Michelin, i giudizi dell’Espresso, il Gambero Rosso che indica la Madia come uno dei migliori locali d’Italia, Paolo Massobrio che mi ritiene il primo chef della penisola, mi rendono orgoglioso, e molto. Vuol dire che faccio un lavoro contemporaneo, e che riesco a comunicarlo bene. Ma quello che più mi colpisce sono i riconoscimenti privati, per esempio quando un bambino mi dice che ha mangiato bene da me, o quando ho invitato alla Madia i miei vicini di casa, che non erano mai stati in un ristorante, e li guardavo emozionato dall’oblò per capire se si trovavano o meno a loro agio.
La prima volta che ha preso la stella, se l’aspettava?
Ho sempre visto le stelle come parte di uno stile di vita, non come un obiettivo da raggiungere. La Sicilia mi ha insegnato questo: che il tempo ha un valore, che non bisogna avere fretta. Le stelle più importanti bisogna averle dentro, come persona.
Ha dedicato il suo libro Per le scale di Sicilia a sua nonna e a sua moglie. Cosa le hanno regalato rispetto al suo lavoro?
Mia nonna Rosalia mi ha dato l’educazione. Mia moglie, invece, la possibilità di ritornare a casa e di comunicare la mia cucina da lì, attraverso il sacrificio che si fa tutti i giorni. Stare a Licata non è sempre facile.
A proposito, c’è stato un giorno in cui ha pensato di avere sbagliato ad aprire La Madia proprio lì?
Mai. Non lo penso mai, di avere sbagliato in questo, anche se a volte mi domando se sono egoista, rispetto al futuro dei miei figli. Perché magari altrove potrei garantirgli maggiori opportunità. Ma poi penso che a noi tocca solo dargli il senso della famiglia e l’educazione, poi, con lo studio o con il mestiere, si formeranno da soli, partendo e andando lontano.
I suoi piatti non spariscono dal menu, se non per la stagionalità, ma crescono, si evolvono. È stato difficile farlo capire ai suoi clienti?
Un po’ difficile, a volte. Un piatto nasce da un gesto, un’idea, un profumo. Ci vuole un semplice indizio per partire, ma la gestazione può durare un giorno, un mese, un anno. Arrivo da una cucina creativa fatta di tecnica, di evoluzione e di ricerca di se stessi attraverso il cibo. Quello che mi interessa davvero, però, è comunicare la mia ricerca a tutti, in modo elementare. Certo, potrei cambiare menu ogni giorno e fare dei piatti buoni comunque. Ma se poi non lasciassi niente a chi viene a mangiare da me, tutto questo che senso avrebbe?
Baglio Sorìa | Trapani | Contrada Soria SNC | tel. 0923 861679 | www.firriato-baglio-soria-trapani.it
La Madia | Licata (AG) | Corso Re Capriata F., 22 | tel. 0922 771443 | www.ristorantelamadia.it
a cura di Alessandra Dammone