nte della gastronomia vanta probabilmente una tradizione e uno spessore tra i più forti d’Italia e del mondo.
Il gruppo Acqua Marcia, proprietario del complesso neo liberty, ha affidato alla sapienza di Massimo Mantarro, chef del Principe Cerami ristorante del San Domenico Palace di Taormina (anch’esso del gruppo Acqua Marcia), al talento e alla creatività del giovane Carmelo Trentacoste, già cuoco con Nino Graziano e ora in forza a Villa Igiea, alla capacità organizzativa e alla sensibilità di Stefano Scarpaci, executive chef della struttura palermitana e cresciuto nelle cucine del Gourmand’s di Rosario Guddo, il compito di tradurre in sapori e piatti la filosofia foodie. Con loro un protagonista d’eccezione della cultura e del giornalismo palermitano, Gaetano Basile, che ha affiancato i cuochi nella realizzazione di un primo menu e nella scoperta e conoscenza della tradizione gastronomica e culinaria siciliana prima dell’arrivo del pomodoro e dei supermercati.
I racconti di Basile accompagnano e descrivono bene la nuova era di Villa Igiea, inaugurata dalla festa di venerdì scorso.
Seduti a un tavolo nello scenario suggestivo della Terrazza Franca Florio, Gaetano (discendente di quell’Ernesto Basile che con i Florio ha dato alla villa – ridotta a un mefitico sanatorio – l’aspetto attuale) ci racconta le sue scoperte, i suoi viaggi, la sua vita che l’ha portato a raccogliere oltre 5.000 ricette storiche siciliane.
L’arancina tradizionale, qui, non è quella con al centro il ragù e i piselli… «La vera arancina non era quella – sorride Basile – Bensì quella che ho ritrovato in Nord Africa qualche anno fa: sono finito a cena in un accampamento di beduini nel deserto e loro ci hanno invitato a cena offrendoci di prendere con le mani il riso che stavano preparando in una grande pentola, seduti intorno al fuoco. Era quella la madre dell’arancina: riso allo zafferano con pisellini e verdure e sfilacci di montone. Ecco dove nasce. L’ho rifatto a casa ed è fantastico!» Così, torna a Villa Igiea l’arancino che fu, quello delle origini. «percorso simile a quello fatto dal imballino, di riso o di pasta – continua Basile – Era il cibo da tascapane che si portavano gli arabi nelle battute di caccia che duravano diversi giorni. E qui a Palermo sono diventati cibo di strada».
Continuando con l’aperitivo nella terrazza Florio, Gaetano racconta anche dello sfincione, un altro classico. «Lo sfincione nasce al convento di San Vito, nel 700. Ma il pomodoro a quel tempo non era ancora utilizzato in cucina: le monachelle infatti lo facevano infilandoci dentro piselli, interiora di pollo e besciamella. Alla fine si spennellava per fargli fare la crosticina. Questo, oggi, è lo sfincione del monsù… Poi si è pomodorizzato tutto. Ma la cucina siciliana era ricchissima di salse, come quella di zafferano per le triglie (splendida!). O come quella di un altro classico antico, il tacchino alla 'mpiperata, dove la salsa è pepe con succo di melagranata, fantastica. Io, per esempio, faccio ancora la Trippa all'olivetana, un piatto che viene dallo Spasimo ed era considerato un piatto di magro: si fa un fondo con soffritto di strutto e brodo di carne, poi si aggiungono la passolina, pinoli e lo zafferano e alla fine la trippa. È Un piatto del ‘500, delicatissimo».
La cena comincia, escono i nuovi piatti. E si comincia alla grande, con una ricetta in cui il nome (che cita molti ingredienti) non rende affatto merito al gusto: delicatissimo e di grande carattere allo stesso tempo. Si tratta di un Passato di topinambur, favette e piselli stufati, filetti di seppia marinata al pepe nero e croccante di carciofi spinosi di Cerda… Anche qui Basile ha la sua storia da raccontare. «I topinambur sono stati portati in cucina da noi dai francesi che a inizi ‘900 ne andavano matti… Ma la loro fortuna in cucina non era pari al loro destino in campagna, dove venivano dati ai maiali che ne andavano ghiotti, come i tartufi che erano considerati patate marce – spiega il giornalista – Il carciofo, invece, viene creato nel ‘400 a Firenze dal marchese Strozzi. Da noi si usavano i germogli del cardo, e anche di questi i francesi andavano pazzi. La piana dove ora sorge l’Ucciardone (proprio ai piedi di Villa Igiea) deve il suo nome proprio alla grande ricchezza di cardi che i francesi amavano e che indicavano con “Il’ya les cardone”… Tutto si tiene, insomma, a stigmatizzare una tradizione gastronomica ricca da sempre di incroci e intrecci internazionali di gusti e culture».
Ed ecco quindi il primo piatto, mezzi paccheri freschi, ragù di triglie e zafferano e fiori di zucchine quarantine. Gustosi e freschi.
Poi il pesce, uno splendido trancio di cernia alla matalotta… Si fa per dire.
Il pesce, infatti, non è cotto nel sugo di pomodoro con zafferano e aromi tutti insieme, bensì proposto in una cottura perfetta e curatissima, accompagnato da pomodori confit, timballetto di caponata e olio di acciughe in conserva. E si sentono alla perfezione gli aromi di Sicilia, menta e origano in primis…
Insomma – concludendo col dessert che parla di miele, arance e gelsomino – una carellata di sapori e profumi che descrivono bene il nuovo corso di Villa Igiea, come racconta il direttore del complesso, fiero di aver dato corpo a una nuova fase…
Stefano Polacchi
7 maggio 2012