distribuzioni di questi “figli buoni” di galera. E non parliamo solo delle produzioni destinate all'autoconsumo: le mense e gli alimenti freschi e trasformati che finiscono negli spacci ad uso dei detenuti e delle loro famiglie, delle guardie carcerarie e del personale civile che lavora negli istituti.
Parliamo di dolci, pane, cioccolato, caffè, vino, birra, olio, formaggi, verdure, conserve, uova ecc. che escono fuori dalle sbarre per approdare – loro canale distributivo d'elezione – le botteghe del commercio equosolidale, i Gas, i mercati locali. Ma anche le Coop e le Ipercoop. E in alcuni casi particolarmente virtuosi e gourmet anche nell'alta gastronomia. Un nome su tutti: Eataly, che rappresenta uno dei massimi traguardi per chi ambisce al mercato di nicchia.
Come accennato all'inizio, abbiamo cercato di fare il punto, perché mettersi in contatto con le carceri, il Dap (Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) e le realtà che gli girano intorno (cooperative sociali e non, onlus...) è un'impresa titanica. Non ci sono dati precisi e soprattutto aggiornati di quanti detenuti ed istituti di pena hanno a che fare con le produzioni carcerarie alimentari. Le quali vivono in uno stato di continuo divenire, tra chiusure, stand-by e resistenza. Una bella ricerca condotta dall'Aiab alcuni anni fa, pubblicata su dei Quaderni curati da Anna Ciaperoni, nel direttivo Aiab, contiene informazioni ormai datate. I dati statistici del Dap rilevati al giugno 2011 sono risultati non aggiornati e per certi versi carenti. Con pazienza certosina ci siamo messi a contattare (a provare di contattare...) uno a uno gli istituti e le realtà interessate per cercare di avere il polso della situazione, facendo il conto della serva. Quello che è venuto fuori è un quadro nebuloso, difficilmente calcolabile e sofferente ma vitale e con grandi potenzialità.
Poi, ad articolo chiuso e già impaginato, è uscita sul settimanale L'Espresso (n. 6 di febbraio) un'inchiesta sulle “carceri d'oro”. E per noi è stata un'occasione – lasciatecelo dire – particolarmente golosa. Se non l'avete letto fatelo, così, tanto per squietarvi un po'. Ma come? Il vino Valelapena fatto dai detenuti del carcere di Alba che ha ottenuto gli apprezzamenti di pezzi grossi dell'enologia dell'Albese del calibro di Ceretto e Scavino, tanto per citarne solo due, in pool position per uscire dalle sbarre ed entrare nella distribuzione convenzionale, di nicchia e internazionale (a breve sarà tra gli scaffali di Eataly, e già sono in corso contatti con buyers stranieri), rischia di andare a farsi benedire perché sono stati dimezzati i fondi.
Mentre un ministro della Giustizia ha fatto costruire nell'appartamento riservato al guardasigilli un giardino pensile costato oltre 100mila euro e che ancora ci costa 800 euro al mese dati a un giardiniere che se ne prende cura. La colonia penale di Gorgona, considerata un paradiso del mondo della detenzione, dove si produce quasi tutto il commestibile e dove si tocca con mano la possibilità di recupero attraverso la pena, anche lei rischia di chiudere perché – dicono – costa troppo. O forse funziona troppo bene. Invece di incrementarne le produzioni e studiare il mondo di venderle con intelligenza e un minimo di marketing il Dap preferisce comprare Jaguar e altre vetture altrettanto costose usate come auto blu e fare ristrutturazioni faraoniche negli appartamenti in dotazione. L'elenco degli sprechi (da parte dell'amministrazione penitenziaria) e dei progetti virtuosi (nelle carceri) che rischiano di morire per mancanza di fondi potrebbe continuare. Ma noi ci fermiamo qui.
Cogliamo l'occasione per inaugurare nelle nostre pagine web una rubrica a puntate con le storie delle realtà più significative delle produzioni enogatronomiche nelle carceri.
Mara Nocilla
10/02/2012