Quella di Marc Trujullo è una pittura meticolosa, precisa, che con colori pastello descrive una periferia americana fatto di fast food ed enormi centri commerciali, una pittura che non nasconde citazioni pop vicine all’arte cartellonistica di James Rosenquist.
Nato ad Albuquerque, New Mexico, frequenta prima la University of Texas di Austin e successivamente la Yale University School of Art iniziando fin da subito ad interessarsi alla resa estetica dei luoghi sperduti, sconfinati, popolati da cattedrali nel deserto sotto forma di pompe di benzina, supermercati o enormi parcheggi.
Il retaggio pop americano non può non influenzare anche il suo ultimo progetto: una serie di immagini che con strette inquadrature descrivono differenti menu di fast food, corredati da brevi descrizioni dell’artista stesso che in questo modo dà indicazioni sulla genesi del suo lavoro e l’aspetto che di volta in volta lo interessa di più nei vari pasti selezionati.
Così, per esempio, il suo primo lavoro rappresenta un vassoio di una compagnia aerea che offre ai passeggeri riso con pollo, un piccolo dolce al lato e una bevanda, scelto dall’artista con la volontà di dipingere un pasto economico, elemento distintivo di tutti i sui lavori successivi.
Così i protagonisti diventano i menu di KFC, quelli di Burger King dove i due contenitori di ketchup sembrano piccoli occhi sorridenti o il vassoio di Taco Bell di cui l’artista apprezza la crema di formaggio che assomiglia alla materia pittorica mentre del chili cheese dog meal di Der Wienerschnitzel ama l’inedita forma rotonda del tavolino.
Quello che interessa a Trujillo è dipingere i luoghi di un purgatorio quotidiano, gli spazi intermezzi, trascurati. “Sono luoghi che rappresentano non-destinazioni” dice “non-luoghi tipicamente nordamericani situati non si sa bene dove. Onnipresenti e tuttavia in gran parte invisibili. Non è la rappresentazione di uno specifico dettaglio o di spazi come teatri, stazioni di servizio o alimentari che mi interessa di più. Nel dipingere lo sfondo del nostro comune denominatore culturale, il lavoro è in grado di parlare di più del suo contenuto”.
a cura di Valentina Guttuso
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