“Succede così: che incontro lo scrittore Flavio Pagano durante la presentazione di un libro e vedo che è preoccupato che la sedia non lo regga”. Pagano sta sopra i 150 chili, a occhio e croce, e Pietro Parisi, che racconta questa storia, meno di 80. “Gli ho detto di non c'era da preoccuparsi, lo sapevo per esperienza diretta”. Da lì a spiegare che lui, Parisi, è stato obeso per quasi tutta la sua vita, non ci è voluto molto. “Pesavo 200 chili. E so che quelle sedie reggono”. Bastano poche battute e Pagano gli dice che la sua storia deve essere raccontata in un libro (La cucina che mi ha fatto dimagrire). Che dica tutto sulla sua esperienza passata, dell'obesità e di come ne sia uscito. “L'obesità ti esclude dalla vita. Non hai rapporti sociali, non giochi a pallone, non esci gli altri, non puoi neanche andare a comprare dei vestiti”. Delle ragazze neanche a parlarne, soprattutto Magda, quella ragazzina esile di cui è innamorato in silenzio sin dalle elementari che segue come un'ombra fino ai loro 12 anni: “era l'unica cosa dolce che conoscessi che non faceva male” dice nel libro“l'unica parte leggera di me”. Lui, “chiattone”, non osava dichiararsi e si sentiva condannato alla solitudine: “chi guarda un obeso?”
Palma Campania
Così non gli rimane altro che il cibo, in cui rifugiarsi in segreto, al massimo con l'amico con cui condivide angoscia e obesità; e non è più solo il cibo come glielo ha trasmesso la famiglia, ma una specie di droga che lo stordisce. Nel frattempo, però, accadono tante cose. Perché la vita di Pietro Parisi è punteggiata di episodi vissuti senza pelle: l'obesità sin dalla prima infanzia, che ne condiziona così fortemente le giornate, ma anche la vita in una zona difficile come Palma Campania. Non è ancora adolescente che suo padre va a lavorare a Firenze; senza quella guida le cose si fanno complicate. Pietro è esposto, le cattive compagnie non mancano e la terra dei fuochi brucia di rischi per un ragazzino. Il padre torna giusto il tempo per chiedergli di andare via da lì e prendere la sua strada. “Ho pensato che i miei genitori volessero allontanarmi, mi sentivo ancora più solo e abbandonato, ma hanno fatto un gesto eroico, e se ne ho mai fatti io, come dice qualcuno, li ho imparati da loro”.
L'adolescenza fuori da casa
A 14 anni va via di casa, starà fuori per 12 anni, passando di cucina in cucina, a 16 anni è da Gualtiero Marchesi, approda da Alain Ducasse che è ancora un ragazzino. Continua a girare, nel 2005 è a Dubai, al Muj Al Arab, l'albergo più lussuoso al mondo all'epoca. E decide che è ora di tornare a casa. In quella zona che sprofonda nella criminalità che tanto ha tolto alla terra. Torna e trova una vecchia pizzeria, la sistema e la chiama Era Ora. Subito si confronta con l'esigenza di ripensare la sua cucina. Qui foie gras e ricette gourmet non s'erano mai viste, e neanche grandi cuochi. “Dovevo ripercorrere i sapori della mia infanzia, quelli che mi aveva insegnato mia nonna” spiega “mettendoci l'eleganza e la tecnica imparata dai grandi maestri”. Si rimette in gioco e anche qui sono legnate. Gli dicono che più di tre mesi non dura, vive umiliazioni e difficoltà. Ma a quel punto è già tutto deciso: la ricostruzione di una filiera del territorio, la scelta di lavorare con le persone e non con i marchi, la rete di agricoltori a cui dare un nome e un volto. È già il cuoco contadino, come sarebbe stato conosciuto dopo qualche anno. “Molti oggi vengono da me anche per la solidarietà che porto in tavola” dice“per la cultura che faccio nei miei ristoranti”.
Pensare magro
Il lavoro ingrana, e le cose filano lisce, se non fosse per quelle abbuffate notturne e quel modo di isolarsi dal mondo attraverso tutto quel grasso. Ci pensa un incidente in auto per un crollo iperglicemico a fargli capire che deve cambiare. Aveva fagocitato una trentina di cornetti in un silenzio febbrile e cupo con il compagno di abbuffate. A quel punto, in ospedale, capisce che il suo non è altro che un suicidio con il cibo. E da lì inizia un lungo processo, quello che l'ha portato a prendersi la responsabilità della propria vita. E capisce, soprattutto, che non si tratta solo di liberarsi dal grasso, ma anche dai condizionamenti e i fantasmi che l'obesità portava con sé. “Anche se non ho ancora 40 anni” dice “ho già due vite” perché “il mio modo di essere era stato molto influenzato dalla mia circonferenza”. La decisione di dimagrire (perderà 130 chili in tre anni) condiziona anche il suo lavoro. Col supporto medico ritrova nel cibo lo strumento per stare bene, e cambia la sua cucina: elimina salse e basi di impostazione francese e trova una via più leggera. Predilige materie prime lavorate il meno possibile, cotture leggere e delicate. “Inizio a pensare magro”. A considerare la qualità, prodotti buoni, con pochi chilometri alle spalle, lavorati con rispetto, senza quell'apporto di grassi che ne copriva il sapore autentico. “Nascono in questo periodo tante cose, tutte le mie pazzie: i boccaccielli, la pizza con lievito fujuto e altre cose” dice, ma poi aggiunge: “ma nasce soprattutto un nuovo Pietro, anche vanitoso, che cerca di recuperare parte di quell'adolescenza e qualcosa di più importante”. A quel punto torna indietro anche al suo amore d'infanzia, la ragazzina a cui non aveva il coraggio di parlare e che oggi è sua moglie.
Il territorio
Vinta la battaglia con il peso, rimane quella per il territorio, che non smette di difendere e di far conoscere. “Con il mio ristorante ho portato tanta gente in questa terra” dice “e voglio essere d'esempio ai giovani che devono crederci, e non abbandonarla”. Ci pensa un attimo e aggiunge “andare fuori fa crescere e aiuta a vedere certe cose con occhi diversi. Allontanarsi serve, stare via per un po', per poi tornare” e aggiunge che è anche grazie a questo che ha saputo di dire no a chi è andato a bussare alla sua porta. Il caso (ma non è l'unico in questi anni) è noto, anche per il grande riscontro mediatico che è seguito: una richiesta di soldi una sera a fine servizio, uno sfogo sui social network e il tam tam sui media. È successo non più di un paio di settimane fa. Quando l'abbiamo raggiunto telefonicamente ha raccontato, con amarezza, dell'episodio e della difficoltà di fare impresa nel suo territorio, dell'abitudine all'atteggiamento mafioso, fatto di scambi di favori, di pressioni per scegliere un certo fornitore e dei mille e più rivoli in cui si insidia il pensiero malavitoso. Che, in alcune zone, è più profondamente infiltrato di altre. Zone in cui lavorare è solo una delle tante opzioni per andare avanti, e neanche la più appetibile, zone in cui l'omertà e la connivenza hanno volti familiari. “A questa cultura bisogna ribellarsi” dice “perché il mio NO è solo la normalità, non un atto di eroismo”. Parla di abitudine alla camorra, e ne racconta le dinamiche quotidiane anche nel suo libro. Si tratta di piegarsi o non piegarsi: “Se rimani devi dire NO” ci aveva detto all'epoca. Non puoi cedere a chi pensa che il rispetto e il valore si conquistino con la prepotenza e non con il lavoro.
Un modello contadino non solo virtuale
A questa cultura bisogna opporsi e trovare la forza nelle proprie radici, spiega: “Qui Gomorra è un modello per i giovani, e invece il modello deve essere quello contadino. La terra va difesa e va anche faticata” e aggiunge: “e non a colpi di foto sui social network, ma con l'impegno vero e responsabile verso i contadini e verso il proprio territorio”. Spiegaci meglio, chiediamo. “Per far crescere il territorio bisogna muovere tutta la rete, valorizzando le produzioni di qualità. Ma sul serio e non solo con una foto su Facebook in cui ti fai vedere nei campi e poi, dopo due giorni, sei da un'altra parte, non acquisti più il prodotto e lo lasci marcire. È successo con il grano della pasta, basta andare a Bisaccia e Calitri per vederlo, ma anche con altri prodotti”. È un modello 2.0 che deve partire dalla terra e alla terra tornare, perché non sia solo uno sfruttamento dell'immagine. Ma non si tratta di puntare il dito, quanto di costruire una giusta identità, costruire speranze mediante la solidarietà. “Come il mio impegno con l'Unicef per la malnutrizione”.
Il futuro
Il libro La cucina che mi ha fatto dimagrire, è già una realtà, con tutto il racconto della sua vita e, a corredo, poche ricette che tracciano il nuovo profilo del cuoco contadino. Ma la corsa di Parisi per costruire questa sua seconda vita non si ferma. A dicembre aprirà il suo nuovo locale. Dopo Era Ora, l'osteria Le cose buone di Nannina (dedicata alla nonna, in cui adotta una politica low price), la Villa Giusy Eventi, il Boccaccielli Bistrot di Roma, è il momento della Macelleria di mare Nannina a San Gennaro Vesuviano, che vende e serve anguilla, stocco, baccalà e i pesci di grande taglia, ripercorrendo le tradizioni di mare dei contadini e creando mercato per i pesci grossi che oggi sono più difficili da vendere, perché nei ristoranti si lavorano piccoli tagli. Continua l'impegno per il benessere e la gastronomia, con un nuovo format che arriverà prima a Napoli, e toccherà poi Milano e Roma. Un progetto che vuole mettere insieme gusto e salute, con una filosofia gastronomica a tutta leggerezza, con cotture che rispettano la materia prima con un approccio che potrebbe ricordare quello orientale, ma in veste campana. Mentre continuano le consulenze negli Emirati Arabi, non manca una fuga nella Grande Mela con la famiglia Maiuolo: un progetto di open kitchen al Chelsea Market con panini e piatti di pasta espressi. Firmati da Pietro Parisi, il cuoco contadino già chiattone a Palma Campania pronto per la sua terza, quarta, quinta vita.
Era Ora | Palma Campania (NA) | via Trieste, 147 | tel. 339 8587591 | www.pietroparisi.it
La cucina che mi ha fatto dimagrire | Pietro Parisi e Flavio Pagano | Sperling & Kupfer
a cura di Antonella De Santis
