Ci sono storie che vale la pena raccontare, storie che sembrano cambiare l'ordine delle cose. Storie che partono dalla fine o che magari cambiano le carte in tavola nel corso della narrazione. Se parliamo di cibo, non raccontiamo solo di verdure, formaggi o pezzi di carne, ma parliamo soprattutto di pezzi di vita vissuta, di memoria e cultura.
Un'animella, settanta-ottant'anni fa, era il cibo dei poveri. Ancora di più: duecento anni fa le interiora venivano gettate via alla servitù e gestite con gelosia dai lavoranti al mattatoio, mentre i signori mangiavano cosci e costate. Oggi, l'animella vai dal macellaio di lusso e la paghi più del petto di pollo. Ammesso che la trovi! Oggi vai in bisteccheria, in wine bar, in trattoria e trovi la costata alla brace, la Fiorentina, la tagliata. I parametri si sono invertiti: nei locali più semplici trovi quello che era il cibo dei ricchi. Invece, vai nel ristorante fighissimo e trovi le interiora, le animelle, la pajata...e le paghi più delle tagliate.
Eppure, tra le storie di cibo all'incontrario, ce ne è una che sfugge a questa regola. O meglio, ce ne è una davvero particolare: che mescola più e più volte i parametri raccontando una storia e il suo esatto contrario. Parliamo della carne di pecora: costa poco anche se se ne trova poca, condivide il destino di alcuni cibi poveri nobilitati perché si mangia ormai solo nei ristoranti gourmet pur essendo un cibo modesto, non si trova più nelle trattorie e osterie dove era di casa. Eppure, allo stesso tempo, potrebbe tornare ancora anche nelle trattorie, continuare a costare poco e far felici di nuovo i palati di molti perché il suo prezzo di mercato non si è trasformato. Anzi nel tira e molla tra produzione e consumo la pecora occupa un posto del tutto originale.
Ma vogliamo continuare a raccontare questa storia a partire dalle persone prima che dai numeri. Succede, nella patria della pecora, che un cuoco sardo di talento come Roberto Petza voglia far fare a quella carne tutto il cammino, andata e ritorno: portare la pecora – cibo pastorale, povero, coriaceo e grezzo nell’immaginario di molti – nella ristorazione di alto livello, e allo stesso tempo diffondere la cultura della pecora anche nelle trattorie. Perché oggi le pecore giunte “a fine servizio”, ovvero che non partoriscono più agnelli e non danno più molto latte, vengono abbattute e buttate via. Al massimo usate nei cibi per animali. Vogliamo continuare a gettarle nei fossi in putrefazione, come accade (o accadeva prima che ne venisse utilizzata la carne) per i bufalotti maschi che non danno latte per le mozzarelle? Prima di rispondere c'è una premessa da fare: si tratta di carne sana, non grassa e di animali che camminano e pascolano e dunque hanno colesterolo buono e molti antiossidanti naturali.
Proprio per cercare un nuovo finale a questa storia giovedì, a Siddi, un workshop organizzato dalla Fondazione Accademia Casa Puddu – che ha come obiettivo la valorizzazione e lo sviluppo dei mercati delle eccellenze della Marmilla – metterà insieme macellatori, produttori e ristoratori proprio intorno alla carne di pecora, sarda ovviamente. Inoltre, tre chef molto diversi tra di loro, partecipano con un faccia a faccia sul tema: “Pecora a modo mio”. Sono Salvatore Tassa, Roberto Petza e Andy Luotto che interpretano la carne di pecora e la propongono in degustazione per far capire immediatamente come si possa lavorare questa carne sana e saporitissima. L’obiettivo è di diffondere questo prodotto, soprattutto nell’alta ristorazione che può fare da traino per una sua riscoperta anche nella gastronomia di livelli più bassi.
Questa iniziativa parte da una considerazione semplice: l’Italia produce complessivamente 60mila tonnellate di carne ovina e ne importa 30mila, segno che la produzione è comunque deficitaria rispetto al consumo interno. Una produzione in calo che registra nell’ultimo decennio un -18%. D’altro canto, invece, la Sardegna con le sue 9.800 tonnellate di carne ovina si attesta su un livello di produzione costante nel tempo e conta circa 1 milione e 380mila capi di bestiame destinati al macello tra agnelli e agnelloni, pecore da latte, montoni e castrati.
Obiettivo, vista l’importanza dell’allevamento ovino in Sardegna, è un patto di filiera che garantisca i produttori, i coltivatori e i consumatori: affrancarsi dai mangimi che sono una quota minima nell’alimentazione di bestie sostanzialmente al pascolo ma che sono anche l’unica possibile fonte di contaminazione da OGM; e sviluppare il recupero di immense superfici agricole negli anni abbandonate e riconvertibili alla produzione di mais e di soia OGM FREE certificata. Considerazioni queste che risultano da un’indagine presentata a Casa Puddu durante il workshop-convegno e che secondo Marco Piras – agronomo e ricercatore dell’Università di Cagliari – dovrebbe portare alla stessa certificazione di cui si fregia un prodotto come il Parmigiano Reggiano: “la prestigiosa certificazione di Filiera Controllata, che attesta la sua qualità esclusiva di prodotto con latte ottenuto da alimentazione NON OGM”.
Intanto, tra Tassa, Andy e Petza ne assaggeremo delle belle: vi faremo sapere e vi racconteremo dei sapori della pecora sarda.
a cura di Stefano Polacchi