Quattrodici ristoranti, una catena dedicata al fast food di qualità, una società di catering, un'altra di consulenza, 1800 dipendenti: la questione si fa seria quando si parla delle cifre dello Union Square Hospitality Group, la compagnia diretta da Danny Meyer, 58 anni, uno dei ristoratori più noti della Grande Mela e amministratore delegato dell'USHG. Asciutto e sorridente, Meyer ha lo sguardo acuto di chi riesce a mettere immediatamente a proprio agio il suo interlocutore: del resto il focus della sua impresa è ed è sempre stato sull'ospitalità, una capacità di far star bene i clienti che ha pochi pari al mondo. Lo abbiamo incontriamo a Villa Taverna, storica residenza dell'ambasciatore americano a Roma. "Un ristorante è una delle imprese più rischiose che ci siano": così l'ambasciatore John Phillips ha introdotto Meyer ai top manager dell'ambasciata, spingendolo a raccontarsi in quell'ottica di scambio di idee ed esperienze cara alla cultura a stelle e strisce.
L'amore per l'italia
È Roma motivo conduttore della narrazione: innamorato delle trattorie, ispirazione per le sue attività, la capitale ha un posto speciale nel cuore dell'imprenditore. "A 20 anni facevo la guida turistica per mio padre, che aveva una compagnia nel settore dei viaggi; vivevo nelle vicinanze del Vaticano, accompagnavo i turisti in giro per la città, ma anche in Umbria, a Firenze, in Sicilia. Sono tornato a Roma per studiare politica internazionale e varie altre volte nel corso della mia vita. Due dei miei ristoranti sono italiani, Maialino, costruito sul modello delle trattorie romane, e Marta, una pizzeria".
Nota cambiamenti nella Roma di oggi, agli onori delle cronache troppo spesso per malaffare e cattiva amministrazione?
Non sono molto aggiornato, l'ultima volta che sono stato in città è stato quattro anni fa e oggi sono solo in transito. Però tenga presente che la prima volta che venni qui era appena stato ammazzato Aldo Moro: era un periodo terribile e pericoloso. Non sono un nostalgico, i bei vecchi tempi ("the good old days") non sono quelli di allora, ma oggi.
Qual è la percezione della cucina italiana e del Made in Italy negli Stati Uniti?
Penso che il cibo nazionale di New York sia quello italiano, più di tutti gli altri. I newyorkesi amano lo stile italiano in cucina. Anche il vino ha un'importanza enorme. Riguardo ai miei ristoranti, Maialino ha solo etichette italiane, che da Marta sono affiancate anche dallo Champagne. Lo Union Square Cafe ha una carta divisa equamente tra bottiglie italiane, francesi e californiane, perché, quando ho aperto, le mie ispirazioni erano la Francia, l'Italia e San Francisco.
Le origini e lo Union Square Cafe
Quella di Meyer con la cucina non è una relazione ereditata o annunciata: dopo una laurea in scienze politiche e una campagna elettorale alle presidenziali del 1980 come direttore sul campo per John Anderson (il senatore correva da indipendente contro Carter e Reagan), a 26 anni decide che la sua passione vera è la ristorazione. Comincia come manager al Pesca, ristorante italiano di New York, quindi intraprende un viaggio, prima in Italia e poi a Bordeaux, per fare stage in cucina, pur non essendo un cuoco. “Ho iniziato a Roma, in via del Banco di Santo Spirito, in una trattoria che sfortunatamente non esiste più e che si chiamava Taverna da Giovanni, un locale in cui portavo i turisti quando facevo la guida” ricorda. “È lì che sono tornato per trascorrere un periodo in cucina: lì ho imparato che con ingredienti di qualità, manipolati poco e velocemente, si possono fare davvero grandi cose. E ho cominciato anche a cucinare con il peperoncino!”
Un altro concetto appreso in Europa è quello che gli americani definiscono "farm-to-table", la cucina stagionale, a base di prodotti agricoli locali, quella cucina del mercato che tanto ha segnato la ristorazione francese a partire dalla nouvelle cuisine e di cui la tradizione italiana è intimamente permeata.
Una volta tornato a casa, nel 1985, Mr. Meyer apre il suo primo ristorante, lo Union Square Cafe, che quest'anno, dopo 31 anni vicino a Union Square, si rinnova con un cambio di sede: riaprirà fra qualche mese a pochi isolati di distanza, al 235 di Park Avenue. Un locale che ha segnato un cambio di passo nella tavola newyorkese, precursore non solo dell'idea della sostenibilità nell'approvvigionamento delle materie prime, ma anche di un approccio illuminato alla gestione della sala e dell'accoglienza dei clienti.
L'importanza dell'ospitalità
Autore di un libro fondamentale per chi voglia intraprendere questa carriera (Setting the Table, Harper Collins, 2006), Meyer ha negli anni stabilito i principi fondamentali su cui deve basarsi l'ospitalità in un ristorante. "C'è un'antica parola italiana, entrata anche nel vocabolario americano, che amo molto: è sprezzatura, un termine che descrive chi è capace di fare il proprio lavoro senza sforzo visibile, una combinazione tra classe, grazia e noncuranza. Non tutti sono in grado di avere questa caratteristica, per me è fondamentale: non c'è bisogno di essere appariscenti e nemmeno di essere i migliori di sempre per attirare i clienti, la sprezzatura è ciò che spinge a tornare in un luogo".
Come si fa a far vivere la migliore esperienza possibile ai propri ospiti? Secondo Meyer, il 49% lo fa la cucina, ma il 51% è dato dall'esperienza complessiva nel ristorante. "Puoi cucinare la migliore carbonara al mondo, ma io scelgo di tornare a mangiarla da quelli che ne fanno una versione ottima e che sono felici se godo mentre mangio la loro carbonara". Tecnicamente devi essere perfetto, quindi, ma poi c'è qualcosa di impalpabile che regala la migliore esperienza possibile: "Io le chiamo abilità emotive (emotional skills) e, secondo la mia teorizzazione, sono sei tratti distintivi che deve avere lo staff in materia di ospitalità".Ottimismo, intelligenza, etica del lavoro, empatia, consapevolezza di sé e integrità: questi i sei punti alla base dell'Hospitality Quotient (Quoziente di Ospitalità), HQ, concetto su cui l'imprenditore ha costruito una società di consulenza che affianca aziende non solo nel settore della ristorazione, ma ovunque ci sia necessità di trattare con le persone (ad esempio gli ospedali). Mentre le conoscenze tecniche si possono insegnare, questi sono tratti che i dipendenti devono avere prima di tutto in sé: importantissima, quindi, la fase di selezione del personale, oltre a quella di formazione.
Il volto leale del capitalismo
È il comportamento dell'azienda che, secondo Meyer, influenza primariamente quello dei lavoratori: "Quello che ci hanno insegnato a proposito del capitalismo è di far tutto esclusivamente nell'interesse degli investitori. Ecco, secondo me Adam Smith su questo punto sbagliava: le decisioni si devono prendere nell'interesse dei dipendenti, dei clienti, della comunità e dei fornitori, così si crea valore a lungo termine anche per gli investitori". Dice e aggiunge un assioma semplice e chiarissimo: "Se le persone che lavorano per te sono felici, anche i clienti saranno felici. I nostri dipendenti sono i nostri primi clienti: solo in questo modo possiamo pretendere performance di alto livello da loro. Noi facciamo sforzi straordinari per i dipendenti, per i clienti e per la comunità. Ci impegniamo molto affinché delle nostre attività benefìci anche chi lavora intorno a noi, utilizzando prodotti locali, prendendoci cura dei luoghi e dei quartieri in cui ci muoviamo".
Una politica virtuosa nella gestione del lavoro e dei lavoratori che si è riflettuta, negli anni, in un inanellarsi di successi e, ancor di più, nel bassissimo numero di insuccessi dello Union Square Hospitality Group. A parte la cessione dell'Eleven Madison Park, uno dei ristoranti più noti al mondo, a Daniel Humm e Will Guidara, rispettivamente chef e direttore dell'insegna, è il Tabla, nel 2010, l'unico caso di chiusura nella trentennale storia del gruppo. “Èstata una lezione imprenditoriale importante: un enorme ristorante indiano con 280 coperti, dai costi eccessivi, che abbiamo tentato in tutti i modi di tener vivo. Abbiamo pagato la recessione, ma la nostra politica del lavoro è stata coerente anche in quel caso. Ci siamo presi cura dello staff, assorbendo nel gruppo le persone, per quanto era possibile, e cercando di trovare una nuova occupazione agli altri dipendenti, mettendoli in contatto con tutti gli chef che avevano già lavorato per noi".
Shake Shack, successo planetario
Oltre ai ristoranti raffinati, tutti ai vertici delle classifiche della critica gastronomica newyorkese, un altro caso ormai leggendario ascrivibile al talento di Danny Meyer è Shake Shack, catena di "fine casual food" nata nel 2001 da uno stand di hot dog all'interno di Madison Square Park, come parte di un progetto artistico di supporto al parco. Quotata in borsa dal 2014, oggi conta punti vendita in Turchia, Regno Unito, Russia, Medio Oriente e Giappone.
Qualità nelle materie prime, prezzi contenuti, focus sull'accoglienza. Come riuscite a conciliare il fast food e il fine dining?
La risposta è sempre 49% cucina e 51% ospitalità, in qualunque Shake Shack devi poter percepire queste due componenti. Proprio come i ristoranti "alti", ogni punto vendita è coinvolto a sostegno della comunità in cui si trova, ogni Shake Shack è disegnato in maniera differente e in ognuno di loro assumiamo solo persone che hanno un quoziente di ospitalità alto. È un esperimento iniziato quando l'insegna era solo un carretto di hot dog: volevo capire se l'ospitalità è qualcosa di cui puoi godere solo in un ristorante costoso. La risposta è no, perché l'ospitalità è come un abbraccio: l'unico modo per ricevere un abbraccio è darlo a tua volta e puoi dare un abbraccio per 1 dollaro, 5 dollari o 15 dollari, è gratis.
Ha mai pensato di aprire un ristorante in Italia?
Anche se con Shake Shack siamo andati davvero lontano, non abbiamo ancora puntato sull'Italia. Sono aperto a qualunque ipotesi, ma sono anche molto rispettoso di questo paese, lo sento come un posto in cui venire a imparare, non a insegnare qualcosa. Una delle cose belle dell'Italia è che è puramente italiana, mi dispiacerebbe inquinare questa purezza con influenze esterne.
Le sfide del presente
Conosciuto da sempre per la sua capacità di precorrere i tempi, Danny Meyer, negli scorsi mesi, ha fatto ancora una volta parlare di sé per una decisione controcorrente: eliminare le mance dai propri ristoranti, comprendendo il servizio nel conto finale e alzando di conseguenza i prezzi delle singole portate. Chi conosce l'America sa che la mancia è norma radicata, ma, secondo Meyer, è anche motivo di eccessiva differenza nei guadagni tra personale di sala e cucina, essendo quest'ultimo escluso dal benefit.
Qual è stata la reazione dei clienti e degli altri ristoranti newyorkesi?
Molti ristoratori mi hanno detto: "Per favore, spiegaci come sei riuscito a farlo". Hanno lo stesso nostro problema: la crescente disparità tra il personale di cucina e quello di sala rende quasi impossibile trovare cuochi validi. Però non sanno come far funzionare la cosa con i clienti perché bisogna necessariamente alzare i prezzi. Un newyorkese è abituato a guardare i prezzi sul menu, ipotizziamo 25 dollari per il pollo, è quanto costa ovunque, sa che dovrà pagare anche la mancia del 20% e alla fine il conto sarà di 30 dollari, ma, psicologicamente, è come se i soldi per la mancia uscissero da un portafogli diverso. Nonostante alla fine il conto sarebbe lo stesso, servire direttamente il pollo a 30 dollari spaventa molti, per il rischio di perdere clienti. Da quando abbiamo cominciato, però, sette grandi compagnie hanno annunciato di seguirci nel cambiamento.
La maggior parte dei clienti ha reagito bene, non tutti naturalmente, è una sfida anche questa. La vecchia generazione è conservatrice su questo argomento, perché "è così che si è sempre fatto". Alcuni hanno imparato che dare la mancia è quello che serve per assicurarsi un buon servizio e hanno paura che, senza quest'arma, il cameriere non sarà gentile con loro. Io non assumerei mai un cameriere che è gentile con un tavolo solo per avere la mancia. Molti americani credono anche che i camerieri non abbiano altra paga oltre alla mancia: è sbagliato.
Ha il tempo di dedicarsi ancora al servizio e all'accoglienza personalmente?
Certo, tutti i giorni vado almeno in uno dei miei ristoranti. È chiaro che non posso svolgere il ruolo più importante, ma posso andare lì: passo la maggior parte del tempo a osservare la squadra, piuttosto che i clienti, cerco di capire se i dipendenti sono concentrati sul proprio lavoro e se si divertono insieme. Se vedo questo, allora so per certo che gli ospiti stanno bene.
a cura di Pina Sozio