La casa editrice è Artioli, di Modena. Quella di Lamborghini, Maserati e Alfa Romeo, per intenderci. Dei volumi d'arte, degli album Panini e dei libri di fotografia. E non deve stupire se oggi si dedica a un'altra forma d'arte: quella del servire. Quella ancora troppo sottovalutata e poco compresa, che ha avuto e ancora ha in Italia alcuni dei suoi interpreti migliori. Uno proprio in quell'angolo dello Stivale così strettamente legato ai motori e all'arte. Lui, lucano di origine ma modenese di adozione, è Beppe Palmieri, direttore di sala e cantina del ristorante numero uno al mondo secondo la 50 Best, Tre Forchette per il Gambero Rosso e Tre Stelle Michelin: uno dei vanti della città, l'Osteria Francescana di Massimo Bottura. “Quando Artioli mi ha proposto di fare un libro ho accettato subito” racconta Palmieri “è una casa editrice importante, e io speravo di fare qualcosa di diverso dal classico volume di tecnica di servizio”. Non le indicazioni sul come si apparecchia la tavola, quindi, ma altro. Cosa? “Mi sono concentrato sulla sala”. Nei modi e nello stile che in molti hanno imparato a conoscere negli ultimi 7 anni attraverso Glocal, “blog aperto per raccontarmi e avere un palcoscenico in cui raccontare come vivo e come penso la sala”.
Alla chiamata della casa editrice ha risposto: “il libro c'è già”. Almeno nei contenuti, si è trattato poi di metterli insieme, selezionarli, fare editing. E pensare al libro nel suo complesso di testi e immagini. Per le foto ci sono nomi come Callo Albanese, e Paolo Tersi - “fotografo della Francescana da sempre” - a immortalare momenti e volti del ristorante, il gruppo di lavoro di Palmieri: “ho voluto dedicare il libro ai miei colleghi. Loro sono i protagonisti, anche delle foto” spiega, e poi aggiunge “Ho la fortuna di avere la governance de la Francescana da 18 anni, senza una compagine così non ce l'avremmo mai fatta a fare quello che abbiamo fatto”.
Il libro
“Ho capito che dovevo dare in mano il pacchetto a qualcuno per togliere il più possibile e andare al nocciolo della questione” racconta “Ho avuto il privilegio di lavorare con Daniele Buzzonetti – tra gli autori più importanti di libri sui motori e direttore di Motor Sprint per 20 anni – per fare una sintesi di quel che avevo scritto negli anni, e mi sono innamorato di quel che è stato fatto”. Il risultato è un libro in italiano e inglese, a suggerire un possibile sbarco all'estero. Racconti senza un indice, come un diario dell'esperienza personale di Palmieri, “ma non è un libro su di me, se è autoreferenziale lo è per dire delle cose, perché in questi anni su Glocal mi sono messo a nudo” spiega, e aggiunge: “ho cercato di mettere insieme in materia emotiva e passionale gli argomenti che devono essere affrontati per essere uomini e donne di sala di alto profilo”, temi validi per tutti, non solo per chi lavora in un ristorante blasonato. “Il libro ha questo senso: parlare di tutto quello che davvero conta nella sala, andando in profondità sulle varie questioni”. E i risultati in prevendita rivelano l'interesse suscitato dal volume già prima di uscire.
Riqualificare una professione
“Ogni giorno ricevo mail di gente che non riesce a trovare personale di sala” racconta Palmieri, ed è una difficoltà talmente radicata da avere guadagnato una sua definizione: Emergenza sala. La sfida è riqualificare un mestiere, per portare la sala al livello della cucina, colmando il gap che si è generato negli anni. I motivi? Vari, “per questo è necessario aprire un dibattito che prenda in considerazione tutti gli aspetti”. Per esempio la cronica mancanza di attenzione verso questo lavoro, poco interessante agli occhi dei giovani che non vogliono più farlo “la responsabilità è anche nostra: dobbiamo viverlo con stessa passione che hanno i cuochi perché si generi più interesse. Sai quale è il problema?” riprende “servire è un esercizio difficile che facciamo malvolentieri, soprattutto ora che abbiamo conquistato dei diritti e siamo meno propensi a riconoscere il nostro dovere: si vuole guadagnare tanto e in fretta senza essere disposti a fare sacrifici e a intraprendere un percorso di crescita”. Dalla nostra abbiamo una grandissima tradizione: dagli anni '70 in poi le grandi sale internazionali “come quella di Ducasse a Montecarlo” avevano tra le loro fila degli italiani, senza contare che in Italia c'è gente come Santini, Alciati o Pinchiorri: “punti di riferimento che bisognerebbe coinvolgere di più, sono considerati meno di quanto meritino”. È il momento di ridare dignità e valore a questo mestiere, gratificare chi lo fa, in ogni senso: “non si può lavorare 12 ore al giorno per 800 euro al mese. Bisogna pagare bene, se altrimenti i migliori ne vanno all'estero”. Non usa mezzi termini: “Il successo di un ristorante e i conti in ordine dipendono soprattutto dalla sala. Se non si investe su quella, il progetto del locale rimane incompiuto”. Non può arrivare il messaggio della cucina, anche se valida, né funzionare l'impresa. “È la grande sfida del futuro, nei paesi anglosassoni è già così”.
Sala e cucina: lo stato dell'arte in Italia
La chiamano Emergenza sala, dicevamo, la difficoltà di trovare personale preparato. “Bisogna affrontarla con i toni giusti” commenta “perché da questo dipende il futuro del nostro mondo. Le cucine scoppiano di talento, la generazione degli Alajmo, Bottura, Cracco ha dato vita a un esercito di cuochi che brucia di passione, la cucina italiana oggi è la migliore al mondo, ha trovato un punto di vista nuovo per celebrare i prodotti che abbiamo”. Non solo: “c'è un numero di frequentatori come non c'è mai stato” e una crescita diffusa in tutto il comparto: “prendi Gabriele Bonci, ha valorizzato un lavoro umile, da un negozietto è arrivato fino a Chicago, ed è stato di ispirazione per tanti. Oggi non ha bisogno solo di chi fa la pizza nel suo laboratorio, ma anche di gente che sappia stare al banco e comunicare, spiegare, far capire. Professionisti che cambiano il bilancio emozionale”. È un tassello che fa la differenza. “Perché oggi il prodotto c'è, mancano le risorse umane”. Così come mancala sala. “Rischiamo di avere la meraviglia nel piatto e la miseria nella sala. Invece bisogna chiudere il cerchio” dice “far passare il messaggio e per farlo va bene anche un po' di sana retorica: ripetere, ripetere, ripetere. Se il contenuto c'è, prima o poi passa”. Quei messaggi su cui ha insistito in questi anni.
Le regole d'oro della sala
Un bravo cameriere sa che non ci sono regole scritte sulla pietra (come ci diceva qualche tempo fa uno dei migliori barman italiani, Massimo D'Addezio), ma una sinergia di elementi da miscelare con cura e misure sempre diverse, capacità di risolvere problemi o situazioni impreviste, attenzione agli ospiti, all'andamento del locale e alle esigenze dello staff. Insomma: una mix di competenze e sensibilità difficili da trasferire “ma guardo con interesse Intrecci, la scuola di sala delle Cotarella” con cui collabora insieme all'associazione Noi di sala, di cui è uno dei promotori. Esistono però requisiti fondamentali e direttive chiave. “Bisogna avere un'ossessione per il lavoro, pure lo sbaracco deve essere fatto in un certo modo”. È solo un esempio, per dire che anche quando non vede nessuno, tutto deve essere perfetto. Ma non basta, perché la parte più importante è sapere rapportarsi ai clienti, “un uomo di sala deve stare lontano dai riflettori e dentro il ristorante: rappresenta gli occhi, il braccio, la pancia dei grandi cuochi”. È con lui che parla il cliente, perciò serve cultura, non solo gastronomica. 10 anni fa era impensabile che un cameriere potesse coltivare relazioni importanti o conoscesse lo scenario internazionale. “Giriamo il mondo per fare esperienze che a volte istillano dubbi” fa, e poi aggiunge: “i dubbi sono fondamentali, anche per non sopravvalutarsi e mantenere il giusto punto di vista”. Senza perdere d'occhio il proprio ruolo, e vedere in sala quel che gli altri non guardano:“noi siamo lì per risolvere immediatamente ogni problema e regalare al cliente una esperienza memorabile: il difficile non è far venire le persone, ma farle tornare”. Come? La sua ricetta l'ha ripetuta fino allo sfinimento: “basso profilo, altissime prestazioni”.
Da Matera a Modena
Ma come è arrivato a essere l'alter ego di Massimo Bottura? Lui che nel 1996 ha lasciato Matera con un borsone e quattro soldi. “Mi dicevano che sarei tornato a casa malamente”. E invece indietro non c'è tornato, coltivando quella ambizioni che lo spingevano a desiderare di essere come i ragazzi in sala da Ducasse, cui guardava da lontano. “Me lo ricordo da dove sono partito e dove sono approdato: nel posto perfetto per fallire”. E invece non è stato così. Arriva dopo qualche giro alla Locanda Solarola di Castel Guelfo dove allora c'era Barbieri, “ogni tanto arrivava questa coppia modenese, erano ragazzi stimolanti, quando ho saputo che avevano un ristorante sono andato a mangiare da loro”. Scopre un locale con pezzi di Dellavedova alle pareti, e nei piatti le stagionature del parmigiano reggiano e i conchiglioni con schiuma di foie gras e vitello. “Era la Francescana, Massimo era lo chef, uno chef che frequentava la sala”. Nell'attesa di andare in America si propone da loro per un anno “poi sono rimasto qui” conclude. A costruire quel progetto di ristorante che ha portato la città di provincia sulla bocca degli appassionati gourmet (e non solo) di tutto il mondo come la Ferrari aveva già fatto precedentemente. “Cose che possono accadere solo a Modena, dove c'è un'energia incredibile, e il contesto della città di provincia, competitivo, molto ricco di tutto: di energia stimoli risorse difficoltà”. Dove non sono mancati sorrisini ironici “ci ridevano dietro, non abbiamo mai accettato lo scontro ma lavorato a testa bassa”. Macinando risultati su risultati.
La sala della Francescana
“L'unico merito che mi riconosco è stato intuire che l'organizzazione verticale non funzionava, mi sentivo in una posizione scomoda” racconta “puoi stare al fianco di colleghi più giovani solo se sei sullo stesso livello e hai un punto di vista obiettivo”. Per quello serve avere una visione ampia. “Ho deciso di mettere tutti sullo stesso piano tenendoli insieme più a lungo possibile, perché per far funzionare un'organizzazione così ci vuole tempo: quando saltano le gerarchie o nasce il caos più totale oppure succede il miracolo”. E miracolo è stato: “dare delle responsabilità a tutti, anche i più giovani, ci ha portato a crescere più velocemente” spiega “oggi siamo 10-12, siamo compatti, abbiamo maturato un'amicizia vera, siamo organizzati in maniera seria e professionale, ma con leggerezza. La forza della Francescana è sempre stata il senso di gruppo, l'appartenenza. E in questo gruppo ognuno fa molto meglio il proprio lavoro”. E aggiunge: “ci piace condividere, essere disponibili” e racconta di quando i fratelli Salvo, volendo partire con un'idea nuova di pizzeria, sono andati a fare uno stage in sala da lui.
Per loro ogni servizio – 2 volte al giorno per 5 giorni alla settimana - è come fosse la finale di Champions, si sente spesso dire a Massimo Bottura e il suo team. Parla di calcio ma poi fa riferimento a Jean Todt. “Quando abbiamo raggiunto il primo posto alla 50 Best eravamo strapieni, Massimo e Lara erano via, noi abbiamo festeggiato 3 minuti liberando l'energia senza smettere di lavorare (e l'avevamo intervistato proprio poche ore dopo quel traguardo. ndr), e così abbiamo festeggiato anche da secondi, convinti di poter tornare primi”, e così è stato. “Ogni traguardo abbiamo sempre puntato al successivo, senza lasciarsi travolgere dal successo. Senza distrarsi o cedere alla polemica, ripartendo dopo le difficoltà per fare meglio. E questo grazie a mia moglie che mi ha permesso di seguire questo sogno”. E ora? “Non lo so. Ma siamo solo a metà del percorso”.
Sala e Cantina – Giuseppe Palmieri – Artioli 1899 - in italiano e inglese - 152 pp - 35€ - www.artioli.it - da novembre 2018
Osteria Francescana - Modena - via Stella, 22 - 059 223912 - http://www.osteriafrancescana.it
a cura di Antonella De Santis