Identità Golose 2017 report. Terzo giorno: Bottura, Romito, Camanini, Lopriore, Cracco

7 Mar 2017, 09:57 | a cura di

I grandi nomi della cucina e i grandi maestri pizzaioli, la cucina di montagna e quella di mare. La terza e ultima giornata di Identità Golose punta sui temi caldi della vita gastronomica internazionale.

L'ultima giornata di Identità Golose si apre con la schiera dei big della cucina Italiana: Cracco, Bottura. Romito, Camanini, Lopriore: una sequenza dei talenti più acuti del nostro panorama ristorativo, dotati di una visione che esula dalla semplice cucina. E poi, nelle sale collaterali: pizza, cucina di montagna e cucina di mare.

 

CraccoPiatti di Carlo Cracco

Carlo Cracco: tra ricordi e piatti iconici

Apre l'ultima giornata di lavori Carlo Cracco, che annuncia il suo futuro prossimo. Niente più MasterChef, chiusura del ristorante in via Victor Hugo e apertura in Galleria Vittorio Emanuele II, sempre a Milano. Cinque piani, tre dei quali ospiteranno le cucine, il caffè, la pasticceria, il ristorante, il bistrot: un progetto enorme capace di cambiare le dinamiche cittadine. Sembrano lontanissimi i tempi in cui lo chef vicentino s'iscrisse all'alberghiero non tanto per cucinare, ma per avere l'opportunità di viaggiare. 

E proprio la tematica del viaggio è resa tangibile grazie ai suoi piatti: la Sea salad world tour per esempio. Che deriva dal suo famoso Quaderno di mare“una specie di ceviche a base di dentice che recupera gli scarti di pesce ridisegnati in sfoglie. Al quale abbiamo aggiunto due gelatine, ricavate da altrettanti infusi. Il primo di nasturzio, germogli di piselli, finocchietto, achillea. L'altro a base di pepe di sansho e wasabi; sono queste gelatine” spiega “a fare la differenza perché restituiscono acqua alla preparazione: sembra di ritrovare il mare”. Il viaggio, anche temporale, attraverso i suoi piatti continua con il Tuorlo marinato, altra creazione simbolo, cui è stato aggiunto del plancton “per dare una nota vegetale e marina mantenendo quella sulfurea dell'uovo”. L'uovo, marinato, diventa malleabile e viene usato per fare degli spaghetti conditi con baccalà cotto nel latte di mandorla, ultimati con cioccolato alle mandorle. “L'approccio rimane quello della predisposizione alla contaminazione” dice“anche se non basta usare prodotti esotici, bisogna farli propri”. L'ultima tappa è quella di un viaggio più intimo, legato ai ricordi, che vede come protagonista il Riso e latte, classico dolce contadino. Che sul palco di Identità Golose prende la forma di un arancino con un cuore di mascarpone e zabaione. Al ristorante si serve su una ciotola contenente arancia, zenzero, cannella, garofano, ginepro, anice, cardamomo coperti da sale grosso bollente, che funge da estrattore di profumi. E infine servito con caramello di limone.

 

CamaniniI piatti di Riccardo Camanini

 

Riccardo Camanini: una cucina a doppio passo

Si tratti di quello recente, fatto di esperienze vissute e ricordi familiari, o di quello remoto, di storia antica e tradizioni centenarie, il passato è uno degli snodi cardine con i quali i cuochi fanno in conti. E lo fanno in un modo dialettico, quasi sempre rispettoso, ma allo stesso tempo libero da timori reverenziali. Il viaggio che racconta Riccardo Camanini (Lido 84 di Gardone Riviera) origina da un passato lontano, andando a pescare tra le ricette di epoca romana di cui, grazie ad Apicio, abbiamo testimonianza. In questo caso il “condito di miele da viaggio”, un “intruglio” che ha suscitato la curiosità di Camanini e messo in moto la sua creatività. E, insieme a quella, la voglia di riportare in auge uno strumento affascinante quasi dimenticato, quel torchio che, nella grande cucina classica, si usa per estrarre il corallo dei crostacei e gli umori dalla carne per farne fondi, succhi e salse. Camanini lo porta in sala e lo usa di fronte ai clienti. Ennesimo tassello di quella cucina fatta in tavola che conquista (sarebbe meglio dire riconquista) terreno e trova una splendida interpretazione artigianale a Gardone, come nel servizio della cacio e pepe cotta in vescica o nello zucchero filato con burro di arachidi lavorato a mano in sala. Ma facciamo un passo indietro: torchio alla mano, è venuto naturale riflettere su come rielaborare l'intruglio di Apicio. Ne è nata una salsa di faraona con miele, colatura di alici (al posto del garum), aceto locale di groppello, riduzione di marsala invecchiato; legata con il sangue, che coagula a 55°, nello stile dei civet. Hardcore anche la scelta della carne: il rognone. Frattaglia difficile, amara, ferrosa, presentata in tartara e lavorata in più fasi: cottura, riposo, pressatura (per recuperarne il sangue) e arrostitura violenta della parte centrale. Rompe il tabù del sangue di rognone, tradizionalmente prodotto di scarto, il cui uso è consentito dal grande lavoro dell'allevatore e del macellaio che consegna una materia integra e di qualità.

Questo piatto muscolare ha il suo contraltare in un altro esile, domestico, emozionale: la minestrina di risoni in brodo. Che arriva da un passato recente, e che Camanini trasforma a partire dalla scelta della pasta per assicurare un morso piacevole, cambiando le proporzioni tra liquido e solido, puntando un brodo vegetale e su un grasso ugualmente vegetale a formare i classici occhi oleosi in galleggiamento sul brodo. Crea una salsa di pistacchi e acqua di pomodoro invernale, cui aggiunge un olio di cedro libanese estratto dagli alberi del giardino di Lido 84. Un ritratto dentro-fuori il tempo e la memoria in una cucina che vuole, sempre di più, recuperare il valore del gesto e del gusto.

lopriore

 

Paolo Lopriore: il convivio e la sua storia

Da Apicio al cuoco Bartolomeo Scappi, attivo in quel crogiolo internazionale che era la corte papale nel '500, passando per la riflessione sul ruolo della cucina nei secoli e sul nuovo concetto di ristorazione che Paolo Lopriore (Il Portico di Appiano Gentile) sta definendo per approssimazioni sempre più mirate da un anno e mezzo a questa parte. La sua cucina conviviale è un triangolo ristorativo ai cui vertici troviamo 3 C: cuoco, cameriere, cliente. Ognuno con un proprio spazio (cucina, sala, tavola) e un compito ben preciso. E, pure se riconosce al cuoco un ruolo artistico, lo circoscrive a un lavoro minuzioso sul prodotto. L'obiettivo è intaccare il meno possibile la materia e solo per prepararla alla cottura, mai dopo; al resto pensano i commensali, chiamati a comporre i propri piatti anche grazie ai macchinari artistici di Andrea Salvetti, usati per completare in tavola le cotture.Da Scappi arriva la testimonianza del consumo di cavedano, pesce d'acqua dolce scomparso per secoli dalle nostre tavole che Lopriore lavora “mettendosi a servizio del prodotto”, eliminandone con tecnica le lische senza quasi scalfirlo. Ricuce l'incisione necessaria per togliere le spine e porta il pesce arrostito apparentemente integro, come mai era stato presentato prima, definendo un nuovo parametro dell'arte della tavola.

Della cucina della condivisione e del convivio di Lopriore abbiamo già parlato, ma della cornice in cui matura no. Ci pensa Luca Govoni (docente di storia e cultura della cucina italiana all'Alma) a inquadrare in un contesto storico e sociologico gli elementi portanti della cucina, quella domestica e quella di alto rango. E suggerire spunti di riflessione. Come quando ricorda il ruolo della chiesa nel trasformare le ricette di grasso in ricette di magro, o dà un orizzonte simbolico agli oggetti più familiari, come il sale in tavola a evocare la saggezza di Cristo che si può prendere e dosare; o quando nota come sia cambiato il modo stesso di stare a tavola, definendo (e qui cita un brano del Manifesto dell'Accademia italiana della cucina)la convivialità come "felice parentesi di conversazione e di amicizia"possibile anche grazie a una diversa attitudine fisica. E fa riferimento a quando il commensale si sporgeva oltre il suo coperto, nel prendere un condimento o una porzione, con un gesto di apertura che non trova quasi più riscontro nelle tavole contemporanee. Quel gesto di familiarità e incontro che Lopriore è sempre più deciso a far rinascere.

 

Piatti di Massimo Bottura

 

Massimo Bottura e l'ingrediente più importante

È quasi ora di pranzo ma la voglia di ascoltare l'oratore degli chef tiene la platea incollata alle sedie. È il momento di Massimo Bottura, il miglior chef del mondo da poco laureatosi (con laurea ad honorem) in Direzione Aziendale all'Università di Bologna. Anche lui (come Cracco) fa un excursus storico dei suoi piatti arrivando fino al Rinascimento della cucina italiana. Qui e ora. “Ora come non mai abbiamo preso coscienza del nostro passato, e grazie alla consapevolezza del pensiero contemporaneo, alla condivisione e alla biodiversità alimentare stiamo dando vita a una cucina italiana mai concepita fino a oggi”. Il punto di partenza (e di arrivo) è e rimane sempre la cultura: “L’ingrediente più importante per il cuoco del futuro è la cultura”. Lo chef modenese, non nuovo a parallelismi con l'arte, parla dei ristoranti italiani come delle botteghe rinascimentali, nelle quali attingere saperi, conoscenze, ma anche uno stile preciso, quasi svolgendo un ruolo sociale: “Noi chef dobbiamo essere ambasciatori dell’agricoltura, dobbiamo fare formazione, sviluppare il turismo”.

Ma come ci è arrivato Bottura al Rinascimento? Passo dopo passo, piatto dopo piatto. Esattamente come avviene per l'arte in cui una cosa evolve via l'altra. “Una volta ho assaggiato una Caesar salad, che a mio avviso aveva troppa salsa. Così ho preparato la mia versione: la Caesar salad in Emilia, con croccante di parmigiano, mostarda, aceto balsamico e pancetta”. Dalla versione emiliana è passato poi alla Caesar salad in bloom. Diventata, oggi, un'insalata di mare con acqua al nero di seppia, fondo di teste di gamberi e scampi, acqua filtrata di ostriche, yogurt di latte di mandorle e concentrato di camomilla. È l'evoluzione della sua cucina, che non ha mai perso di vista il gusto, come notato da Enzo Vizzari. Durante l'intervento, Bottura, porta altri esempi (delle tappe) del suo viaggio nella cucina italiana: parla di come è arrivato a creare la Lepre nel bosco, il Riso cacio e pepe, ilRiso camouflage o il Tiramizucca rotto (l'evoluzione diOops, mi è caduta la crostatina) che sarà in carta alla Francescana da ottobre. Ispirato, ovviamente, a un tortello di zucca alla mantovana, piatto della sua infanzia. La chiusura riprende il parallelismo con l'arte: “Come il Rinascimento, dopo l’invasione barbarica, recupera la classicità greca e romana con un approccio consapevole e culturale, così la cucina italiana oggi recupera le tradizioni che le appartengono, dopo l'invasione della nouvelle cuisine, del fusion, dell’avanguardia spagnola o della nordic cuisine”.

 

RomitoInteligenza Nutrizionale di Niko Romito

 

Niko Romito e l'Intelligenza Nutrizionale

Il viaggio che Niko Romito sceglie di raccontare è quello che parte dalla cucina d'autore e arriva alla ristorazione collettiva. Si parla di mense ospedaliere, ma potrebbero essere quelle di scuole, uffici, e altre realtà fatte di grandi numeri e bassi costi. All'estremo opposto dell'alta ristorazione, fatta di spese alte, talvolta altissime (e non solo per i clienti ma ancora di più per i ristoratori), e di pochi coperti. Così, risalendo la corrente, Romito ha trascinato con sé quanti più elementi del suo ristorante Reale (Tre Forchette e Tre Stelle Michelin a Castel di Sangro) per distillare saperi e tecniche anche ad altri format gastronomici, esempi di una “cucina di mezzo” alla portata di tutti. Ci sono stati prima i bistrot della scuola di cucina di Romito, Spazio (Rivisondoli, Roma a breve il trasloco - Milano ma potrebbe essere anche Londra, New York o Tokyo”, dice non senza lasciar presagire nuove prospettive), primo frutto di un processo di democratizzazione del cibo di alta qualità possibile grazie a quel laboratorio di ricerca che è rappresentato dal Reale, in cui si studiano tecniche e si sperimenta, per poi impiegare i risultati anche in altri contesti. “Un po' come per la Formula 1” diceva qualche tempo fa, alludendo a quanti ritrovati tecnologici d'avanguardia siano passati dalle auto da corsa a quelle che incrociamo quotidianamente sulle nostre strade. Quando una ricerca viene elaborata nei suoi risultati, messi a sistema e ottimizzati nei costi e nelle procedure, può uscire dal contesto dell'eccellenza ed essere declinata in diversi àmbiti. Un processo a cascata, insomma. In cui le tecniche dell'alta cucina non servono a dare vita a creazioni originali, ma a definire dei canoni che non lasciano spazio a errori, a codificare dei procedimenti che consentono di realizzare piatti perfetti indipendentemente dalla mano che li realizza eliminando il ruolo autoriale del cuoco. Ancora una volta, esattamente all'opposto di quanto si ritiene sia patrimonio della cucina d'autore.

Del progetto Intelligenza Nutrizionale, sviluppato in collaborazione con GioService, e l'Unità di Ricerca in Scienza dell'Alimentazione e Nutrizione Umana dell'Università La Sapienza di Roma, e del ruolo primario dell'alimentazione nel percorso di guarigione, vi abbiamo già detto quando Romito lo ha presentato qualche mese fa. Ora è arrivato il momento di vederne la messa in pratica (con l'appuntamento del 12 aprile per il primo servizio), di capire come, concretamente, le tecniche messe a punto (sottovuoto, siringaggio, alta temperatura e pellicola di amido, salamoia, vapore) rispondono alle esigenze della cucina ospedaliera: food cost complessivo? 5 euro al giorno (per colazione, pranzo, cena), riduzione di scarti ed energia (con notevole impatto su grande scala), aumento del valore nutrizionale dei prodotti anche dopo la cottura, sapore, aspetto, facilità di preparazione (e costanza nei risultati), conseguente educazione alimentare. Complice di tutto questo processo, un carrello impiegato per trasportare e rigenerare i piatti, che arriva a 100° e consente non solo di tenere in caldo i cibi, ma di completarne la preparazione mentre arrivano ai pazienti.

 

pizze

Identità di Pizza. Contaminazione di gusto

Nel gioco di prospettive ribaltato che assegna all’ultima giornata di Identità il programma più ricco di ospiti di peso e tematiche collaterali, alla pizza spetta la dignità che ha saputo conquistarsi sul campo col passare degli anni, fino a raggiungere un livello di prestazione altissimo e diffuso in tutta la Penisola, quale che sia lo stile abbracciato dai pizzaioli in Italia e nel mondo. La pizza, dunque, come viaggio di contaminazione tra cucina e arte dell’impasto, o studio della materia, come preferisce dire Massimiliano Prete. Il pizzaiolo pugliese adottato dal Piemonte apre la mattina di Identità di Pizza al fianco dell’amico e sodale Enrico Crippa. Insieme propongono una Contaminazione di gustoche è anche viaggio tra i prodotti d’eccellenza d’Italia, dalla cima di rapa alla cipolla piemontese, che accompagna pure l’assaggio di una focaccina bella da vedere quanto buona da mangiare sotto forma di brodo in bicchiere. Il sodalizio tra i due si concretizza nella comunione di intenti che li spinge a lavorare con rigore e dedizione, entrambi orientati verso quell’evoluzione gastronomica che richiese studio costante. Ma anche voglia di divertirsi con la materia prima, contaminare i generi, condividere esigenze: “Il prossimo passo?”rivela Crippa “Ho chiesto a Massimiliano di fare il pane per il mio ristorante: è giusto che il cuoco si dedichi alla cucina, affidandosi a un professionista per la panificazione”.

 

La pizza di Nasti

Evoluzione, ricerca, originalità: la nuova dignità della pizza

Maestro riconosciuto della pizza, abile “scultore della farina” è Corrado Scaglione, prima cuoco e poi pizzaiolo per passione, che tutti i giorni fa viaggiare la verace pizza napoletana, rivendicando la possibilità di portarla oltre i confini tradizionali, lui che con l’Enosteria Lipen ha fondato in Brianza un rifugio per chi vuole affidarsi alla sapienza di chi conosce il mestiere. La missione è quella di comunicare la pizza nella sua complessità, e presto la proposta di Lipen si arricchirà di un prodotto a pala, mentre il maestro sperimenta nuovi impasti. Sul palco di Identità presenta il suo viaggio verso la contaminazione territoriale, che è pure il viaggio che vuole condividere con i suoi commensali; e sul disco steso con maestria finiscono cipolla di Tropea, lardo di Arnad, pomodori del piennolo. Poi regala un assaggio di dessert/non dessert, con una mousse di acqua di mozzarella caramellata in superficie e contrastata da canditi di limone, “perché una pizzeria deve proporre dolci all’altezza: da Lipen il dessert vale il 10% del fatturato, non possiamo ignorarlo”.

Ma c’è anche chi porta sul palco la voglia di viaggiare oltre i confini nazionali per riscoprire il senso di una ricerca che a volte è troppo difficile riconoscere tra le mura domestiche. Del resto nemo profeta in patria, e Gennaro Nasti per trovare la sua consacrazione ha dovuto prima conquistare Parigi, con una pizza che è il risultato sì dell’attaccamento alla sua terra, Secondigliano, ma soprattutto del desiderio di lavorare fuori dagli schemi, fino a incarnare il ruolo di pizzaiolo chef dietro al forno di Bijou (più tradizionale, invece, la proposta di Popine). Il suo, dunque, è un viaggio alla ricerca di un’identità in aggiornamento costante, che fa bene al mondo della pizza d’autore e alla promozione del made in Italy all’estero.

Nel pomeriggio è tra gli altri Ciro Salvo (50 Kalò, a Napoli, e più di recente 50Panino) a rappresentare l’orgoglio della pizza napoletana con un inno al valore della semplicità: Margherita e Marinara. Gli fanno eco Giuseppe e Simone Vesi (Pizza Gourmet), in un pomeriggio molto napoletano, con una lezione sulla riscoperta dei sapori veri. E si chiude con l’americana Sarah Minnick, già protagonista in auditorium con Franco Pepe il giorno precedente, che propone due pizze, una rossa e una verde. Con lei al forno c'è ancora una volta il pizzaiolo di Caiazzo, assistente per un giorno. Gran finale affidato a Renato Bosco (presto grande protagonista a Verona) con l'originale Marghe-Tira: pelato di kiwi, mozzarella di bufala campana dop e basilico.

 

Tra montagna e mare

Mare e monti per l’ultima giornata della Sala Blu 2, dove la mattina trascorre dibattendo di microclimi alpini e transumanza, latte di malga e tradizione di terra per Identità di montagna. I protagonisti che si avvicendano sul palco arrivano da tutta l’Italia montana, a cominciare dall’enclave del Nord Est – Alfio Ghezzi di Locanda Margon da Trento e poi Riccardo Gaspari e Oliver Piras e Alessandra Favero, rispettivamente da Cortina e San Vito di Cadore – per attingere poi alla tradizione aostana con Maurizio Grange e Piergiorgio Pellerei de La Clusaz di Gignod, fino a scendere in Calabria per l’intervento concertato di Antonio Biafora Nino Rossi (Biafora a Qafiz). Dopo la pausa, invece, il palco si sposta al mare, per incontrare la Puglia di Angelo Sabatelli, che da Putignano viaggia tra due mari, dalla Puglia all’Oriente.

 

Tony Lo CocoGli anelletti al ragù - Tony Lo Coco

Concentrato sulla sua terra, in un cammino tutto giocato sulla reinterpretazione della tradizione locale, è Tony Lo Coco, da I Pupidi Bagheria, che mentre cucina evoca i mercati di Palermo e le stigghiole – qui interpretato come viaggio dal maiale al tonno, che diventa protagonista avvolto da tagliatelle di seppia – e poi attinge alla memoria per giocare con gli anelletti al ragù, proposti nella variante di mare e stravolti nell’impiattamento che ricorda un dessert.

 

Identità di mare in un viaggio in Oriente

Ancora tonno, e ancora Identità di mare, con la sua medula (il midollo) nel piatto di Paolo Casagrande, italiano all’estero – dal Lasartedi Barcellona – che da qualche mese può vantare le Tre Stelle Michelin. La sua è una cucina che brilla per eleganza e colore, in equilibrio tra espedienti tecnici e contaminazioni di sapore. E l’orizzonte, per molti versi ben centrato sulla costa catalana, spazia spesso verso l’Estremo Oriente (un fil rouge comune a tanti nelle tre giornate) per intercettare shiso e mirin, calamansi e latte di cocco, zenzero e curry. Ma sul palco il cuoco trevigiano che ormai pensa in spagnolo porta soprattutto il viaggio del “suo” Lasarte, che guida per Martin Berasategui, e che con lui si è evoluto negli ultimi anni.

CeedroniMoreno Cedroni e Andrea Cuomo

 

Alla sua compostezza, fa da contraltare l’esuberanza di Moreno Cedroni (La Madonnina del Pescatore, Senigallia), che in sala presenta la sua Via della Seta (un menu già sperimentato al ristorante), dalla Cina a Venezia, passando per Samarcanda e Aleppo. Ma attenzione al monito di un maestro del mestiere: “L’unica strada possibile per mettersi in cammino è partire dalla cucina tradizionale, altrimenti i viaggi diventano corti”.

CedroniDumpling al latte di sesamo di Moreno Cedroni

 

Le suggestioni sono moltissime, dal dumpling al latte di sesamo, dalle polpettine di pesce al coriandolo alla fermentazione del cavolo rosso. Ma guai a non saper fare un purè! Chiude il viaggio al mare Giulio Terrinoni (Per Me a Roma) con il suo quinto quarto di pesce: “Per me la rana pescatrice è il maiale di mare. Con la sua testa preparo la coppa”.

 

 

a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli

foto: Brambilla Serrani

 

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