Si parte dal locale, dalla tradizione e dalla propria storia; da un territorio vasto e eterogeneo; e si declina in molti modi diversi nell'omaggio che apre la prima giornata, quello alla Lombardia. Che non è e non deve essere identificata con la sola Milano, pur riconoscendone il ruolo di traino, come capoluogo del gusto e dell'effervescenza ristorativa. Ma con il complesso di paesaggi, prodotti, storie con cui si aprono i lavori nella sala centrale di questo congresso che celebra il viaggio. E lo fa nella sua accezione più ampia: dentro e fuori i territori, attraverso il passato, tra idee e suggestioni, di andata e di ritorno o, ancor più semplicemente, inteso come apertura all'altro, libera da muri e confini.
Omaggio alla Lombardia
Viaggi di ritorno
Si parla di storia familiare con Giovanni Santini, figlio di Antonio e Nadia, che denuncia la progressiva contrazione delle materie prime disponibili che, per questione di cambiamenti di gusti e di abitudini o di poca redditività di certi prodotti, stanno gradualmente perdendosi. Come certe zucche fondamentali nella Lombardia dei tortelli di zucca, ancora oggi preparati espressi Al Pescatore (Canneto sull'Oglio) a ogni comanda “un lavoro che riconcilia con se stessi”, per via di quella operatività manuale che affianca il lavoro più creativo. E che per questo non annoia. Così come non stanca il continuare su una strada già avviata “siamo riconosciuti per uno stile e non posso ignorare quello che è stato fatto prima, sarei imbecille, ci sono cose che vanno al di là di noi stessi”: si chiama, per l'appunto, storia. E lo sintetizza nel piatto: Il richiamo della Campagna che porta in primo piano il calore dell'agricoltura e della vita contadina con la sua armonia: con foglie, piccole verdure di stagione, chips e petali a creare un carosello cromatico e gustativo intorno al branzino marinato. A sintetizzare la possibilità di costruire nel mondo contemporaneo preservando il senso di quanto accaduto prima.
Ancora storia personale e un viaggio di ritorno verso il mondo agricolo, per Franco Aliberti, campano figlio di contadini, da circa un anno a La Fiorida di Mantello con Gianni Tarabini. Ancora la stessa idea di attualità del passato sintetizzato nella formula “oggi, ieri e domani”, con ieri come elemento centrale tra presente e futuro, necessario per sviluppare un nuovo pensiero. Che non può fare a meno della campagna, in quella Valtellina in cui lavorano, producono, cucinano a distanza ravvicinata - solo poche decine di metri - in un'azienda che è un organismo complesso che impiega quasi 100 persone. E ilfinto tartufo è una sintesi di tecnica e gusto, un piatto confortante che riunisce storie e sapori in un solo boccone, e conclude il trittico di assaggi che include due versioni di taroz alle patate, classico e rivisitato.
Sincerità e ricerca nella tradizione
“I piatti sono una scusa per esprimere i nostri concetti” dice Cesare Battisti (Ratanà di Milano). E i suoi concetti parlano chiaro: rispetto, ricerca, territorio, ma soprattutto qualità dei prodotti e umiltà: “serve meno vanità e più sincerità” dice. E lo dimostra con un piatto a tutto sapore, il Risotto con cime di rape e salsiccia di Bra. Semplice, chiaro, diretto come il suo invito a non mettere “nel piatto l'ego del cuoco”.
C'è voluto qualche mese a Davide Oldani per abituarsi al nuovo D'O. Ma ora è pronto e va a tutta birra nel portare verso il domani la tradizione. Su cui ragiona senza freni. Parte dalla cassoeula, il piatto tipico lombardo, corposo e robusto, ma trae spunto anche dal civet (o sivé) e dal sanguinaccio per buttare lì un lavoro sul sangue che lascia a bocca aperta. Rivisitazione della Cassoeula e sangue alla milanese. Divide il sangue di vitello in siero e massa grazie a una centrifuga da laboratorio. Il siero, ricco di albumina, può montare e diventare una meringa, la parte densa, con piastrine globuli bianchi e rossi, è la base del classico civet. “Sono per il sangue e non per gli insetti” dice provocatoriamente. E torna pop con il gesto infantile del leccare il piatto, ma ci mette su una ceramica lunga che copre pudicamente il viso mentre lo si fa. E aggiunge guanciale, puntina, la verza (quella che ormai si fatica a trovare, per tornare al discorso di Santini) a ricomporre una cassouela molto più moderna nel gusto, separata nelle sue componenti e disposta in ceramiche diverse (tutte disegnate da Oldani), che mette sullo stesso piano tradizione, ricerca e design. “I viaggi ti riportano a vedere, capire, osare oltre le regole”. La stessa che fa osare armonie e contasti vertiginosi nella cialda di siero di sangue e zucchero, ganache al cioccolato e caviale. O nell'altra cialda, quella preparata a partire dal liquido di cottura delle cartilagini dello stinco, che dà origine a una sfoglia croccante dal sapore neutro, base di un dolce completato da una mousse bianca di caffè (realizzata con i chicchi in infusione nel latte).
Identità Naturali
La naturalità del mestiere del cuoco
La giornata a Identità Naturali comincia con il tiramisù crudista vegano di Daniela Cicioni. Dove sono utilizzati ingredienti principalmente asiatici. Ma al di là dei piatti presentati (Enrico Bartolini è arrivato a 7) è il pensiero condiviso che interessa. Ovvero che il cuoco deve ritornare a essere cuoco. Punto. Niente esibizionismi o puri e semplici esercizi di stile, via gli orpelli e le mansioni estranee al mestiere del cuoco. È quel che dicono tutti. È quel che afferma Paolo Lopriore (Il Portico). Della sua rivoluzione vi abbiamo parlato qui e qui. La nuova concezione ristorativa di Lopriore torna al concetto di convivialità, con una cucina volta alla naturalità del prodotto, che prende le distanze dall'ingabbiamento del piatto grazie alle creazioni dell'artista e designer Andrea Salvetti. Sul palco di Identità Naturali porta un suo affumicatore fatto di tanti ripiani per lavorare più ingredienti contemporaneamente. Un oggetto funzionale, di design, che abbellisce la tavola e attiva il commensale, finalmente attore protagonista del convivio. Che oltre a decidere con quale ordine mangiare, decide anche quanto mangiare e quali condimenti inserire nella sua composizione personale. “Anche perché spesso l'ospite ha il palato più riposato del mio e quindi la mia misura del condire è più alta rispetto alle sue esigenze. Ognuno deve cercare di condurre il proprio viaggio”. I piatti presentati sono una scusa per parlare proprio di questo. Il primo è a base di patate (Patate, sciatt, bietole, noci, nocino e olio di noci da attingere, mixare, condire in totale libertà), il secondo ha come protagonista la pera cotta in 4 modi diversi: “Cruda per capire la vera sugosità della pera, rosolata nel burro salato, in tempura e bollita. Della pera ho utilizzato tutte le parti, da quella centrale (in tempura) alle bucce (bollite)”. Le quattro parti della pera le ha poi affumicate in questa torretta/affumicatore. In queste preparazioni, a pensarci, c'è dell'altro, un cambio di prospettiva: nessuno spreco, l'evidente risparmio di tempo del cuoco che non deve più impiattare (perché l'affumicatore viene portato direttamente al tavolo), l'educazione del commensale che impara a conoscere gli ingredienti senza alcun filtro e senza l'imposizione delle scelte del cuoco. L'atto finale della cottura avviene in tavola, e quella magia prima diritto esclusivo del cuoco ora è passata nelle mani del clienti. In tutto questo ragionamento un ruolo fondamentale ce l'hanno anche (oltre ai commensali) i fornitori: “Devono essere responsabilizzati, loro sono i veri conservatori del cibo. Per esempio è il macellaio che mi chiama per dirmi quali tagli posso cucinare perché è il suo mestiere. Noi cuochi ritorniamo a fare i cuochi”.
Il ruolo dei collaboratori
E ritornare a fare il cuoco significa anche mettere da parte l'ego e lasciare spazio ai propri collaboratori. Sono sentiti e quasi emozionanti i ringraziamenti che fa al suo team Simone Salvini, che sul palco ha presentato Il seitan che non c’era (wafer di pasta fresca fritta con hummus di fagioli, piselli sbollentati e sbucciati, burro fatto con pinoli, anacardi e olio di noci pecan e acqua affumicata, pomodorini confit, spuma di latte di mandorla, salicornia, sfere gelificate di lamponi). Sono sempre i collaboratori che hanno ispirato la pizza Bangladesh di Matteo Aloe di Berberè, o che consentono a Valeria Margherita Mosca di portare avanti il progetto Thinking like a forest, “un'azienda agricola sperimentale, in collaborazione con Legambiente e Regione Lombardia, con l'obiettivo di dare vita agli alpeggi in stato di abbandono o semi abbandono”. L'abbandono crea danni: impoverisce i territori, il tessuto socio economico e il bagaglio culturale della popolazione.
E sempre rimanendo in tema di collaboratori, è l'intervento di Antonia Klugmann (L’Argine) a colpirci di più. “Oggi viviamo in un mondo dove le persone arrivano da noi. Bisogna saper mettere in relazione le nostre radici profonde con dei nuovi rami, dei nuovi innesti che portano nuovi frutti. Un modo per far questo lo si trova sempre e la cucina è uno dei primi luoghi dove le influenze creano cose spettacolari. Per esempio in cucina da me c'è un esperto di cocco che viene dal Ghana, un'esperta di fermentazioni ucraina, il sous chef è giapponese, il commis siciliano: questo fa la differenza in un contesto piccolo come quello del Collio”. Sul palco porta la rapa bianca abbinata ai crauti e al tartufo (raccolto proprio vicino all'Argine a Vencò). E un finocchio declinato in diverse preparazioni: bollito, purè, infuso. Ancora una volta (e come per Lopriore) per non buttare via nulla. “Evito gli sprechi, anche dal punto di vista energetico, sia per un fattore etico sia perché oltre a essere cuoca, sono la proprietaria del ristorante”. E il viaggio (il tema di Identità di quest'anno)? Più che questa tematica è emerso il fatto che chi viaggia ha (solitamente) l'apertura mentale per accogliere gli altri. Anche perché la migrazione non è un fatto di oggi, ma è sempre esistita. Lo conferma Mariana Muller (Cassis), parlando nello specifico dell'Argentina, in un discorso universale: “Siamo un popolo di migranti. Persone che portarono in Argentina le loro abitudini, le loro radici, i loro semi, le loro tradizioni, i loro prodotti. Oggi, anche grazie a loro, la nostra è una cucina con un'identità, nonostante sia ricca di prodotti provenienti dal mondo, come la trota o l'agnello che porto oggi sul palco”.
Identità di Formaggio
Si parla di formaggio, nella mattinata di apertura della Sala Blu 2, e il pensiero corre subito alla moltitudine di produzioni che sa offrire la Penisola. Basti pensare, come ricorda l’assessore Giovanni Fava sul palco in qualità di rappresentante della regione ospite (ma tra gli espositori del Mi.Co. si aggira per tutta la mattina anche il sindaco di Milano Giuseppe Sala), che la Lombardia produce da sola il 44% del latte italiano. E che di grandi soddisfazioni è fatta la tavola di un intenditore di arte casearia che si trovi a viaggiare per l’Italia, come dimostra l’assaggio folgorante nella sua semplicità della Zuppa di ricotta con extravergine, pepe e pane proposta da Giuseppe Zen, che sul palco allestisce una sorta di pop up di Resistenza Casearia (il banco dei formaggi del mercato di piazzale XIV maggio di Milano inaugurato qualche mese fa). A lui, istrione della cucina popolare italiana, è affidato il compito di aprire i giochi: un compito che tra un Risolatte con stracchino e una Cassata monacale assolve alla perfezione, scaldando la platea con la sua visione etica e goduriosa del cibo: “Noi cuciniamo perché ci piace da morire mangiare. Per questo perseguiamo il buono e il sano”, chiosa. E poi non risparmia un appello alla concretezza, quella dei sapori, da ricercare di fronte alle derive di un sistema alimentare che rischia di farci smarrire. Il suo, insomma, è un viaggio nel gusto, e nella specificità dei territori regionali. A partire dal formaggio. E di territorio si parla anche quando a prendere la scena è Andrea Ribaldone, chiamato a rappresentare l’universo degli erborinati: “Il ristorante gastronomico dev’essere caposaldo di un territorio: presentare i produttori che lo rappresentano senza forzare la mano a tutti i costi. È così che il prodotto incontra le persone”. Ma poi, visto che la curiosità non conosce confini, anche per un cuoco come lui legato alla sua terra, quella piemontese, l’esperienza nel mondo si rivela proficua.
E dall’Estremo Oriente arrivano le suggestioni che combina nel piatto, pure quando si tratta di sublimare il gusto di un erborinato, presentato su foglia di Indivia fermentata in extravergine e aceto umeboshi, con semi di zucca, gel di pompelmo e avocado.
Ecco che allora la forza della libertà che non conosce limiti geografici esplode nella cucina di Francesco Apreda, che sul palco di Identità porta due viaggi gustativi e concettuali filtrati da esperienze vissute: a Mumbai lo chef dell’Imago all’Hassler (Roma) gestisce il ristorante Vetro dell’Oberai, recentemente riconosciuto migliore tavola italiana nel Sud dell’India. E proprio dal Paese che più l’ha ispirato negli ultimi tempi riporta sentori di cocco, spezie ed erbe aromatiche che incontrano la tradizione italiana. Gli Gnocchi alla romana Asia Express ne sono esempio lampante: panati e fritti in panko e lamelle di riso, incontrano una salsa di latte di cocco e pecorino e si bilanciano con la freschezza delle verdure saltate al wok e il mix Spicy Bombai firmato Apreda. All’amore per il Giappone, invece, fa riferimento una ricetta apparentemente più legata alle latitudini italiane, che fonde amatriciana e pasta al pesto, giocando però su estrazioni, acque di pomodoro, foglie di shiso e ancora un blend di sapori importanti (ma calibrati), dall’alga nori ai semi di coriandolo, dal wasabi allo yuzu, allo shiso.
Cucina d’autore che abbatte i confini anche per Philippe Léveillé, la cui storia professionale già parla chiaro: francese della Normandia, dal 1987 in Italia (dove oggi dirige il Miramonti l’Altro). Sul palco presenta l’inedita accoppiata frutti di mare e formaggio.
Dossier Dessert
Appuntamento fisso da 12 anni, il Dossier Dessert ha attraversato praticamente l’intera storia di Identità Golose. Quest’anno accanto alle presenze di sempre – Corrado Assenza è una certezza – si alternano momenti di omaggio a glorie della pasticceria nazionale e interventi (particolarmente a fuoco) che illustrano alla platea dell’Auditorium il ruolo del pastry chef in alcuni dei più importanti ristoranti del mondo. Iginio Massari riceve l’omaggio del congresso e regala in cambio una breve lectio magistralis fatta di consapevolezza acquisita sul campo – sull’ingegneria del gusto e l’importanza dello studio rigoroso molto ci sarebbe da parlare – e spunti di riflessione che non mancano di provocare: “Tutti i giorni c’è innovazione, e il dolce è il cibo per eccellenza della trasgressione: solo così si produce progresso. Ma attenzione a non esagerare con l’evoluzione: chi fa il cibo che piace a lui senza pensare alle esigenze degli altri è egoista”. Autorialità, dunque, e il maestro della pasticceria italiana può parlarne con cognizione di causa, ma mai fine a se stessa. Chi è d’accordo è Corrado Assenza, che ancora una volta porta a Milano la sua grande umanità, insieme alla competenza e alla dedizione per la materia prima che indirizzano la ricerca del Caffè Sicilia di Noto. Sempre più orientato verso l’abbattimento del confine tra dolce e salato, quest’anno presenta l’accostamento tra carne, miele e salicornia, per poi sorprendere con un gelato al mauro catanese, l’alga tipica (e molto popolare) sulla costa orientale di Sicilia. La sua, ancora una volta, è una lezione che trasuda caparbietà e capacità di sintesi, in laboratorio come sul palco. Non una parola di troppo e splendidi assaggi che si avvicendano davanti agli obiettivi.
Per la giovane guardia convincente il racconto tra “obbedienza e libertà” di Andrea Tortora, in duplice veste di pastry chef del St. Hubertus – e per questo ben abituato alle necessità di una cucina complessa, che precedono l’ego del singolo – e pasticcere alla ricerca di una creatività tutta sua. Con lui il tema del viaggio si muove tra orizzonti spaziali – quelli del territorio altoatesino, con il dolce dedicato all’Enrosadira, che incontra le suggestioni orientali di un canederlo di ricotta che diventa takoyiaki – ed evoluzione personale, che non può prescindere dalla linea del tempo e dalle esperienze maturate in cucina. Perché forse la riflessione più convincente sul viaggio che emerge dal pomeriggio dell’auditorium non ha bisogno di suggerire scenari esotici, e invece attinge all’esperienza più intima del cuoco: “Per un cuoco il viaggio inizia quando entra in cucina” dice Gianluca Fusto “per 15 ore al giorno sei circondato da persone che crescono con te. È lì che si creano i rapporti, lì si evolve”. Pensiero semplice ma centrato per tornare a concentrarsi sul mestiere dello chef.
Identità di Gelato
La ristorazione, la pasticceria. E poi ancora la pizzeria, la miscelazione e la panificazione. In ogni settore della gastronomia si registra una codifica della propria identità, definendo canoni e filoni, costruendo i propri confini e la libertà di superarli. Fanalino di coda, la gelateria, che non riesce ancora a profilare la propria strada per l'eccellenza. Prova ne sia il fatto che a salire sul palco di Identità di Gelato siano stati non solo due gelatieri, ma anche un cuoco e un pastry chef.
Mentre si gira intorno a un disciplinare che, al pari di un Godot del gusto, pare sempre sul punto di arrivare senza mai conquistare il traguardo, si riflette sui problemi di un'attività che subisce fattori contingenti. Primo tra tutti il consumo prettamente stagionale che crea incertezza e fatturati oscillanti, imponendo così alle attività, spesso piccole imprese familiari, di cercare soluzioni alternative per assicurare costanza sui 12 mesi, “la gelateria tradizionale è moribonda” dice Paolo Brunelli da Senigallia, ma lo si riscontra ovunque, nelle chiusure nei mesi invernali, o nell'apertura ad altre categorie merceologiche, si tratti di pasticceria o cioccolateria. “Il problema è che il gelato vive di un consumo di prossimità” dice Simone Bonini di Carapina. Che apre il pomeriggio tornando ai temi che gli sono cari. Primo tra tutti il mancato riconoscimento come prodotto di alta gamma: “si fanno centinaia di chilometri per un ristorante o una pizzeria, ma quando si tratta di gelato si entra nel primo posto che capita” e aggiunge anche che non è neanche al pari di un bar, in cui si va più volte al giorno; che il gelato subisce molti falsi miti, come quello che fa ingrassare (“ma fa ancora più ingrassare un cocktail, magari fatto male”). Serve che al gelato venga riconosciuto un ruolo e un valore, mancanza di cui, forse, i gelatieri sono vittime corresponsabili: “Come pensare che venga riconosciuto come un prodotto di qualità quando ancora si vendono coni pagando un prezzo fisso a prescindere dal gusto? Nessuno pensa a fare prezzi diversi per gusti diversi” come capita, per esempio per la pizza, anche quella al taglio. Fare un prezzo corretto è un modo anche per educare il cliente. In che modo possiamo pensare che si riconosca un valore? Tornando a quel che si faceva un tempo: solo pochi gusti a partire dalla materia prima migliore a disposizione, “non fare un gelato all'acciuga, ma un grande gelato al latte e burro, e completarlo con una acciuga”. Insomma niente giochi di prestigio ma un nuovo approccio al gelato. Il cambio di marcia che Bonini auspica, lo annuncia con una trasformazione radicale del suo locale fiorentino, “faccio un passo indietro” dice “dopo aver aperto delle gelaterie”. E il passo indietro è “un ristorante di gelateria”, aperto a eventi, degustazioni e con una scuola di gelateria, dove gustare il gelato come al ristorante: al piatto, per fare un viaggio nei sapori con elaborazioni gastronomiche. Il gelato come prodotto di altissima gamma, che può stare in locali di altissima gamma, come un grande gin o un altro grande prodotto, “una risorsa per chi vuole mettere me nel piatto” così Bonini si pone “sempre più come un fornitore e un player su tavole che legittimano prodotti così”. Lascia alle spalle la vecchia idea di gelateria per “un viaggio verso altre cose”.
Ragiona da chef, Moreno Cedroni. Lo fa a partire da un macchinario moderno (Principessa di Gaya Gelato) e da una tecnica antica, la fermentazione, che trasforma prodotti familiari “la fermentazione è una magia”. E il risultato più interessante lo ottiene con l'aglio nero, che apre a un ventaglio di sapori di liquirizia, oliva, da declinare sia sul dolce che sul salato, attualmente alla Madonnina del Pescatore in un predessert con granita di caffè fermentato con kombutcha panna, poco cacao. Cedroni sa bene che “per fare avanguardia bisogna far benissimo il tradizionale”, così nel gelato al baccalà c'è una tradizionalissima miscela bianca con latte e panna, a fare da base per un gelato che, nuovamente, rimane sul filo tra dolce e salato e che abbina al gelato di cavolo viola fermentato che ha un risultato tridimensionale aggiungendo acidità e piccantezza. Ma sa anche che la cucina ha sempre più bisogno di responsabilità, per questo suo compagno di palco è Carlo Catalani (già all'Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo) che spiega il senso del “chilometro consapevole”, che punta il faro non solo sui metodi di produzione, ma anche su quelli di trasporto, sulle condizioni lavorative di chi produce.
Responsabilità è uno dei temi chiave anche per Cesare Battisti e il suo staff del Ratanà. Ne avevamo parlato già lo scorso anno ma in questa circostanza è il pasticcere vicentino Luca De Santi, a raccontare come, nella progettazione dei piatti si spinga sempre più per un ristorante “a scarto zero” in cui le bucce della frutta servono, per esempio, per aromatizzare l'acqua di riso (realizzata con una tecnica che Battisti ha conosciuto al Mad di Copenaghen) da cui nasce il gelato al latte e riso, completato poi al piatto con chips degli stessi chicchi usati, biscotti con farina di riso e mais, crema di mandorle amare e rabarbaro. Un dolce complesso che scivola tra dolce, salato e amaro, senza timore, come molti dei dolci di De Santi. Ma la sostenibilità del Ratanà è un discorso complesso, è anche la responsabilità verso i propri fornitori, scelti con cura e trattati con ancora più cura, pagati il giusto (e allora per ottimizzare la spesa del prodotto risulta ancora più importante lavorarne ogni parte). Fondamentali alleati per una cucina che parte dalla tradizione, dai sapori locali, ma non manca di contaminare con tecniche diverse apprese nei molti viaggi e nelle esperienze all'estero, si tratti di quella della colatura di alici di Cetara (“perché non provare ad applicarla alle sarde di lago?”) o a quella della salsa di soia, da usare per altri legumi locali. Così dal classico ci si muove anche verso sapori più contemporanei, soprattutto per quanto riguarda i dolci. Che De Santi ama vegetali, freschi (“il carciofo è il mio ingrediente feticcio”), anche se non mancano altri più classici.
Quello di Paolo Brunelli è un viaggio tra passato e futuro del gelato al cioccolato. Che, dice, “necessita di un ripensamento nella comunicazione al pari di quello che c'è stato con il gelato al pistacchio”, per eliminare formule esauste (la percentuale di cacao) o cromatismi arditi (i nerissimi) e cerca di individuare un terza via tra la grande tradizione emozionale e le nuove derive gastronomiche. E la trova nella ricerca. Il classico gelato realizzato con il cacao e il latte, quello del passato, oggi cede il posto al sorbetto preparato con massa di cacao e acqua. Che nonostante la maggiore qualità, non riscontra la stessa fortuna tra il pubblico. Il gelato del futuro, dice, è quello che ha al centro il frutto (anche il cacao è un frutto, non dimentichiamolo) ma che sa dare lo stesso piacere a chi lo mangia, attraverso tecniche come l'estrazione del cacao. E ripensare al gelato come una specie di cioccolatino ripieno da gustare a bassa temperatura, che ricorda le tavolette.
Identità Golose 2017 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata | www.identitagolose.it/
a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli