Starbucks a Milano. Finalmente
“Non è il male assoluto e non è una catastrofe. Non più di quanto lo siano, spesso, i nostri bar”. Commentavamo così, due anni e mezzo fa, la notizia dell'arrivo di Starbucks in territorio italiano. Un annuncio che, fin dall'inizio, non ha risparmiato le polemiche di tanti consumatori, un grido allo scandalo che continua ancora oggi, a pochi giorni dalla tanto attesa inaugurazione del punto vendita di Piazza Cordusio a Milano. Una diatriba che si fa sempre più accesa e che ha diviso nettamente in due l'opinione pubblica: da un lato, i sostenitori convinti della supremazia del caffè italiano nel mondo, dall'altro i professionisti del settore specialty (ovvero quel segmento di baristi, torrefattori e importatori da anni impegnati nella promozione della qualità del caffè), che hanno accolto con entusiasmo la novità, riponendo la massima fiducia nel colosso di fama internazionale, che con le sue tante attrezzature e proposte – dalle macchine espresso ai sistemi di estrazione in filtro – potrebbe finalmente instillare nel pubblico la curiosità di scoprire un nuovo modo di approcciarsi e bere caffè.
€1,80 per un espresso. Ed è subito polemica
E pensare che noi del Gambero Rosso, l'arrivo di Starbucks lo attendevamo con ansia ancora prima di scoprire che si trattasse di un Reserve Roastery (il terzo nel mondo, dopo Seattle e Shangai), soluzione unica che garantisce ai clienti un'esperienza sensoriale a 360 gradi nel mondo del caffè, in un ambiente dal design ricercato. Una cura del dettaglio maniacale, un'atmosfera suggestiva che già di per sé – senza contare la posizione privilegiata, l'incredibile investimento in macchinari di primo livello – potrebbe giustificare i prezzi mediamente più alti degli altri bar. Ma non basta, perché i veri motivi per cui nello spazio di Piazza Cordusio si arriva a pagare 1,80 euro per un espresso sono altri, e vanno ben oltre la location.
Antitrust? La consumazione è una libera scelta
"Prezzitroppo alti, l'autorità verifichi la correttezza delle tariffe imposte ai consumatori", la denuncia di Codacons all'Antitrust non ha tardato a scatenarsi. Un'azione paradossale e quanto mai inverosimile. Un buon espresso è un piacere, ma certamente non un bene di prima necessità: nessun consumatore è obbligato a pagare questa cifra, soprattutto considerando che in Italia esistono una serie innumerevole di bar con prezzi più bassi fra cui scegliere. Ed è proprio nella libera scelta che risiede l'insensatezza dell'operazione del Codacons. A confermarlo, i fotografi e videomaker di Romedia Studio, che già lo scorso anno presentavano il loro documentario a tema Coffees – Italians do it better(?). Federico Lucas Pezzetta e Federica Balestrieri non potevano mancare alla prima del gigante stellestrisce: “Abbiamo provato quasi tutti i caffè, più scuri degli specialty a cui siamo abituati, ma con qualche piacevole eccezione”, racconta Federico. Certo, i chicchi del Reserve, seppur migliori rispetto a quelli usuali della catena, difficilmente incontreranno a pieno il gusto di un vero amatore di specialty coffee (ben diverso dal caffè che si trova nella maggior parte dei bar tricolore), ma siamo comunque di fronte a una bevanda ben fatta ed estratta a dovere. “Il servizio è di altissimo livello, e non si è obbligati a consumare. Provate ad andare in un bar qualsiasi in zona Duomo e sedervi al tavolo senza ordinare nulla: sicuramente i titolari vi inviteranno a consumare o ad alzarvi. Al Reserve ci si va anche solo per farsi una cultura sul caffè, chiedere informazioni, spiegazioni sulle diverse origini e miscele. E poi, il prezzo dei bar vicini in centro città non si allontana così tanto da quello di Starbucks”. Con un'unica differenza: la qualità media del servizio, dell'offerta e l'ambiente dei locali nei dintorni è nettamente inferiore.
Quella tostatura scura...
Prima di procedere, una precisazione doverosa: "Lo stile di tostatura di Starbucks è diverso rispetto a quello di un torrefattore artigiano specializzato in caffè di ricerca", sottolinea Maurizio Valli, torrefattore, barista ed esperto di analisi sensoriale del Bugan Coffee Lab, realtà bergamasca che comprende anche una scuola di formazione. Soprattutto, appassionato di oro nero in tutte le sue sfumature, che al Reserve ha assaggiato ogni singola proposta: "I chicchi sono più scuri, vero, ma non si percepiscono note sgradevoli di bruciato o rancido. C'è un sentore fumé - voluto - che può piacere o meno, ma è il loro marchio di fabbrica". Una scelta, dunque, non un errore: "Ho speso molto, provato tutto, e non me ne pento. Ogni bevanda era estratta in maniera rigorosa. Non smetterò mai di ripetere quanto siano preparati i ragazzi dietro il bancone!"
Questione di numeri
E poi, intendiamoci: “Chi è dietro a Starbucks, i conti li sa fare bene”, ci ricorda Davide Cobelli della Coffee Training Academy, scuola di formazione veronese per baristi e torrefattori da poco rinnovata (con un cambio sede, a Cerea, in via A.M. Lorgana, 21). “Esiste una figura chiamata bar manager, un professionista con competenze strategiche in grado di gestire strutture e attività. Una persona (nel caso di Starbucks un team) che fissa il food cost, il prezzo dell'offerta, che include non solo il valore del cibo o della bevanda, ma anche il resto delle spese, in modo da ricavarne un guadagno minimo per rientrare e sopravvivere come attività”. Un espresso double shot – il più frequente da Starbucks – richiede circa 14 grammi di caffè, il doppio dei canonici 7 grammi (cifra variabile a seconda di tanti parametri) impiegati nel classico espresso. “Questo significa che ogni tazzina costa circa 25/30 centesimi. Aggiungendo le altre spese del locale, si arriva minimo a 80 centesimi, se non 1 Euro, 1,20 Euro. Se il prezzo finale fosse 1 Euro, dove sarebbe il guadagno?”. Il prezzo giusto per un buona tazzina? “Fra 1,30 a 1,60, a seconda della qualità della materia prima, del servizio, la location e il resto se parliamo di espresso normale e non doppio”. Naturalmente, sempre per chicchi di buon livello.
Prezzo alto come segno di sostenibilità
Come quelli che utilizza Francesco Sanapo, fra i primi torrefattori in Italia a parlare di specialty e a creare una caffetteria, Ditta Artigianale (seguita dalla seconda sede a Oltrarno) tutta incentrata sull'oro nero. Soprattutto, fra i primi ad aver introdotto in Italia un prezzo superiore per il caffè espresso: 1,50 Euro. “Le difficoltà per produrre caffè sono aumentate per via del riscaldamento globale, che ha comportato una serie di problematiche, fra cui le tante malattie che si stanno abbattendo sulle piante. Occorrono maggiori trattamenti, che hanno un costo elevato”. La qualità, come sempre, richiede una spesa, e pagare di più un caffè equivale a “restituire dignità al lavoro del produttore. Il tocco umano, in qualsiasi business, non va mai dimenticato”. Tante le critiche che l'artigiano nel tempo ha dovuto fronteggiare per via del prezzo, “i consumatori inizialmente non capiscono, bisogna spiegare loro il motivo: dietro ogni tazzina, ci sono 50 ciliegie, raccolte a mano e nel momento di miglior maturazione, processate e poi infine tostate ed estratte con una cura maniacale”. E il caffè di Starbucks? “Mi è capitato spesso, durante i viaggi nei Paesi d'origine, di imbattermi nelle realtà che producono chicchi per Starbucks, e ne ho sempre sentito parlare bene: è una vera impresa, che paga bene e subito, e il caffè che acquista è di buona qualità”. Ma se questo non bastasse a convincere il presidente del Codacons... “Lo invito pubblicamente a venirmi a trovare: gli offro un corso gratuito sul caffè. Poi ne riparliamo”.
All'origine del caffè: il lavoro in piantagione
Facciamo un passo indietro, e torniamo in piantagione, dove la realtà per i lavoratori del settore è tutt'altro che rosea. A descriverla, Alberto Polojac, importatore di caffè verde dell'azienda Imperator di Trieste, che nei Paesi d'origine trascorre buona parte della sua vita. “Siamo a un livello drammatico per i prezzi di borsa del caffè, ai minimi storici degli ultimi tredici anni. Il prezzo del caffè arabica è inferiore a un dollaro per libbra, mentre il costo di produzione mediamente si aggira attorno a un dollaro e cinquanta per libbra, che è la cifra minima di partenza per un caffè fairtrade”, la soluzione equa e solidale che si impegna a garantire un futuro migliore per gli agricoltori. “Più che del prezzo della tazzina, oggi mi preoccuperei per il prezzo che guadagnano i contadini. Con numeri simili, le generazioni future non si avvicineranno mai al caffè”. Inoltre, i recenti cambiamenti climatici rischiano di rendere improduttive alcune zone, “e soprattutto, un giorno potrebbero non esserci più persone disposte a coltivare”. Un euro a espresso non è un sistema sostenibile: “Certamente, un torrefattore – e di conseguenza un barista – è contento di pagare meno, ma per gli importatori come me, la qualità del caffè in questo modo è svalutata. Si compra sempre in perdita”. E i coltivatori? “Se le condizioni non migliorano, prima o poi cambieranno strada. Ricordiamoci che molti di loro vengono da situazioni critiche: si sono dati alla produzione di caffè per abbandonare il narcotraffico. Spero vivamente che non accada l'operazione contraria”. 1,80 Euro a espresso è quindi una cifra adeguata? “Certamente. Non sono ancora stato nella sede di Milano, ma conosco il Reserve di Seattle: buona materia prima, talvolta ottima, tostata un po' scura, stile Starbucks, ma servita in maniera eccellente da un personale preparatissimo e competente”. Di quanti bar italiani possiamo dire lo stesso?
Un nuovo approccio al caffè
Sul consumo diffuso del caffè è urgente un cambio di mentalità. Consumarlo meno come fosse una “medicina” necessaria in virtù di una sorta di dipendenza; consumarlo in maniera più consapevole, tenendo conto che si tratta di un alimento, di una pianta che ha la sua filiera; consumarlo migliore e quindi pagandolo un po' di più e, con l'arma del prezzo, diffondere benefici in tutta l'industria che c'è dietro ad una tazzina. Insomma, invece che un livellamento verso il basso (oggi in Italia il caffè si paga meno che dovunque, Grecia, Albania, Portogallo inclusi, per esempio), con la corsa a chi chiede meno e fa un prodotto peggiore, muoversi all'inverso. Del resto, 100 banali caffè al mese da 90 centesimi costano esattamente come 50 buoni caffè da 1 euro e 80, con benefici per tutti (specie per la parte più debole di questo comparto) e nessun esborso in più. In questo senso, come già avvenuto a Firenze con la citata Ditta Artigianale, Starbucks con la sua forza mediatica può essere didatticamente utile alla causa. Tra qualche anno, pagare una tazzina di espresso una cifra più etica e sostenibile potrebbe essere non più considerato uno scandalo o un attentato alle libertà personali come viene percepito ora in Italia.
a cura di Michela Becchi