“È un dato di fatto: io non cucino, faccio arte”. Diceva così, Gualtiero Marchesi, e se pure voleva essere chiamato cuoco e non chef, aveva profonda consapevolezza di quale fosse il suo ruolo. Non uno che cucina ma un compositore, come si definì solo pochi anni fa. Quando, non senza una vis polemica, parlava con slancio di cibo e società, di come la ristorazione stava diventando e dei vizi e i rischi di questo mondo. Affrontando di petto quello che riteneva un male di cui liberarsi, l'ignoranza. Lui quell'ignoranza l'ha denunciata e combattuta, inclusa quella dilagante su certi canali. Coltissimo, spingeva a leggere e studiare, incantava tutti con la sua capacità di spostarsi da un piano all'altro delle espressioni artistiche, sapeva anticipare, stupire, provocare, superando steccati e rischiando di suo, dalla cucina di via Bonvesin de la Riva e poi da quella dell'Albereta, senza contare i mille progetti in cui si è lanciato. “Ènato, vissuto e - purtroppo - ora è anche morto come un artista” dice di lui Ernst Knam, pasticcere che alla corte del Maestro è stato tra il 1989 e il 1992. Il primo impatto? “Mi aprì lui la porta e mi salutò in tedesco e in tedesco facemmo il colloquio”: per quasi tutti il momento dell'incontro con il Maestro è indimenticabile. Lo ricorda Davide Oldani che, appena uscito dall'alberghiero, si presentò accompagnato dal padre e, come in un passaggio di testimone, fu accolto da Marchesi e “accudito come un secondo padre”. Era la metà degli anni '80 quando il Maestro disse a Oldani padre che i “ragazzi sono come spugne, assorbono, assorbono e poi a un certo punto rilasciano quel che hanno preso”. Carlo Cracco, invece, andò a cena a via Bonvesin de la Riva, “sponsorizzato da mia sorella” che gli offrì la cena. Aveva 19 anni, e subito capì che quello era il posto in cui voleva stare, così si presentò e rimase dal 1985 al 1987 fino a che Marchesi lo spinse a continuare la sua formazione all'estero, così come aveva fatto lui stesso. Così come avrebbe continuato a fare con i suoi allievi, talvolta riprendendoli con sé al rientro in Italia.
Gualtiero Marchesi con alcuni dei suoi allievi
Da Marchesi, in quell'epoca si trovava di tutto: cuochi di ogni nazionalità, professionisti di lunga data o giovani coraggiosi, come Andrea Berton, che da Udine si trasferì a Milano proprio per lavorare da lui. Si presentò forte della sua ingenuità e della voglia di partire dall'alto per capire se davvero quello era il lavoro della sua vita, e solo per caso il Maestro si affacciò nella stanza in cui il suo sous chef francese stava dicendogli che vista l'inesperienza non c'erano molte possibilità per lui in quel momento, “cercava il modo di liquidarmi”. Ma aveva con sé tutti i documenti e si disse disposto a iniziare in quello stesso momento. Rimase circa8 anni, tra Bonvesin (1989-1993) e l'Albereta (2000-2004). D'altro canto, invece, Pietro Leemann arrivava forte di esperienze di alta ristorazione “lavoravo in Svizzera da Girardet, con il mio chef arrivammo a Milano perché cercavamo alcuni oggetti per il ristorante e volemmo provare la sua cucina”. Capì allora che voleva stare lì, affascinato dalla personalità di Marchesi e dal cibo “ero abituato a una cucina rigorosa ma rigida e il suo approccio creativo, culturale e artistico mi conquistò” racconta “Per me fu un colpo di fulmine, come quando ci si innamora” trascorse lì un anno nel 1984 e poco meno nel 1988. Riccardo Camanini fu in un periodo successivo, tra il 1993 e il 1997 “avevo 19 anni, alle spalle qualche esperienza in alberghi di poco conto in cui avevo vissuto con frustrazione e non mi avevano fatto amare questo lavoro” poi l'arrivo all'Albereta: “ho un ricordo bellissimo e vivido di quando sono entrato dopo due rampe di scale, quelle che dall'ingresso dei fornitori portavano in cucina: non avevo mai fatto uno stellato in vita mia e non avevo mai visto una cucina così grande. C'erano 25-30 cuochi vestiti di bianco, l'uniforme candida che in un silenzio assoluto assaggiavano con i cucchiai e lavoravano” era qualcosa di completamente diverso rispetto a quanto aveva visto e rispetto anche a quasi tutto quello che c'era stato in Italia fino a pochi anni prima. E se qualcosa stava cambiando, era solo merito di Gualtiero Marchesi, “questo signore elegante e acculturato, sempre pieno di sorrisi” racconta ancora Camanini “Sì, di Marchesi ricordo i sorrisi, tanti, era una cosa atipica in un lavoro come questo in cui ci sono molte tensioni e mi stupiva. Bacchettava anche, certo, ma senza mai perdere le staffe. Rimanevo incantato, mi ricordava certi zii di Milano, colti ed eleganti, io ero figlio di operai e venivo da un paesino, sentivo un enorme divario”. In quella cucina, Camanini, come molti, individua il luogo e il momento in cui ha trovato la strada per incanalare quella passione. Tra gli ultimi Daniel Canzian, che lo incontrò la prima volta nel 2004 al Vinitaly “Cinque giorni dopo ero in Franciacorta” racconta, e ricorda la frase di Marchesi; “Allora hai deciso di non fare più il cuoco e vuoi cominciare a fare cucina?”
Riso e oro
Una cucina inconfondibile
Alla corte di Marchesi arrivavano in tanti, e anche se a quei tempi non si parlava molto di ristoranti, la notizia di quel cuoco di Milano che stava cambiando radicalmente la cucina italiana faceva il giro d'Italia. “Arrivavano dall'Italia e dall'estero, vedevo Vissani, Pierangelini, gente che avevo imparato a conoscere dalle pagine di Le Grand Table” ricorda Camanini. “Il pubblico era abbastanza vario ma si trattava pur sempre di un piccolo circolo, erano anni in cui non tutti andavano al ristorante, c'era molta selezione” aggiunge Cracco. Grandi nomi del mondo culturale gravitavano attorno alla tavola di Marchesi e tutti i ristoratori volevano capire cose era questa nuova cucina italiana e a tutti lui insegnava quel suo mantra dell'alleggerire. E poi quel ribaltamento completo: porzioni piccole e impiattate con eleganza, pulizia estrema nell'aspetto e nei sapori, “erano gli anni di panna prosciutto e piselli” fa Cracco. Marchesi andava per la sua strada, instancabile. Ricorda Berton che lo vedeva partire in macchina alle 7 di sera alla volta di Parigi, per tornare un paio di giorni dopo a Erbusco: “aveva già più di 70 anni” e continuava ad accendersi per un progetto o un'idea. E a stupire con la sua cucina. “Inconfondibile” la definisce Knam “piatti come quadri da appendere alle pareti”. Camanini ricorda ancora, con suo fratello Giancarlo, una cena dell'epoca, la prima alla tavola di Marchesi: un piatto dopo l'altro, i suoi capolavori vincono la sfida del tempo e rimangono impressi fino a oggi.
Dripping di pesce. Foto: M. Borghi
Il ruolo di mentore
Poi c'erano i momenti di confronto dopo il servizio “mi chiamava in ufficio” racconta Berton “parlavamo di tutto fino a notte fonda. Cose che sono servite tantissimo nel mio futuro professionale. Assorbivo informazioni ed emozioni: aveva intelligenza e conoscenza incredibili”. Quelle chiacchierate erano un privilegio, spiega Camanini “ricordo perfettamente la prima volta che mi dissero di andare nel suo studio. Io mi limitavo ad ascoltarlo perché molte nozioni erano fuori dalla mia portata, mescolava gastronomia, arte, musica, testi antichi”. Anche se non era un uomo di molte parole, sul lavoro “Non parlava tanto ma diceva tanto” spiega Knam. Un uomo colto, creativo, come ricorda Cracco “una persona di grande cultura, spessore e grande apertura mentale. Dava alla sua creatività degli obiettivi più alti rispetto al normale, e aveva il coraggio di cambiare e di andare controcorrente ma sempre nel rispetto dell'origine del piatto”. Insomma: un grande ispiratore. “L'insegnamento più importante è stato quello umano” aggiunge Oldani “educazione, regole, è stato il mio secondo padre” colui che lo ha sostenuto e gli ha fatto capire che per essere un cuoco onesto, professionale e intelligente avrebbe dovuto seguire un preciso iter di formazione.
La brigata di via Bonvesin de la Riva con i giovanissimi Carlo Cracco, Davide Oldani, e molti altri
Insegnamenti
Se chiedi a ognuno dei suoi allievi quale è stato il lascito più importante, ognuno potrà dire qualcosa di diverso, ma per tutti, l'insegnamento maggiore è stato quello del togliere, una sorta di Mies van Der Rohe della cucina nostrana che ha insegnato a guardare l'essenza delle cose, i sapori, creando rimandi culturali, eliminando orpelli e inutili decorazioni e concentrandosi sulla perfezione della materia prime e della tecnica. Un concetto modernissimo e quanto mai attuale, che ha sviluppato decine di anni fa: “togliere, togliere togliere”. Valorizzare gli ingredienti e trattarli nel modo migliore. Lui è quello che ha cambiato il modo di cuocerli quegli ingredienti, fino ad allora sfiniti da cotture eccessive. Lui è quello che ha spinto per piatti leggibili, chiari, ma anche spiazzanti. “Ciò che si fa, anche in cucina, deve avere un senso”Leemann riunisce in poche parole l'eredità dei suoi anni alla corte di Marchesi: “Un piatto non può essere un mero abbinamento di ingredienti ma questi devono avere un motivo per stare insieme in quel modo”.
Raviolo aperto
La perfezione come unica via possibile è un marchio di fabbrica: “ricordo che per scegliere le 20 foglie di prezzemolo da mettere nel raviolo aperto si impiegava anche un'ora: dovevano essere consistenti ma non troppo coriacee, tutte uguali, perfette” ricorda Camanini, e ricorda pure l'attenzione necessaria per disporre la foglia d'oro sul famoso risotto “solo in pochi potevamo farlo”. È questa perfezione che Pietro Leeman individua come l'impronta marchesiana, “il non avere compromessi in ciò che si propone, e cercare sempre un risultato che sia il più perfetto possibile”. Poi ci sono i prodotti: le verdure che hanno aperto la strada al vegetarianesimo più convinto di Leeman e il riso, lascito che Berton sente di avere avuto dal Maestro: “Ho capito come deve essere cotto e trattato un ingrediente come il riso a via Bonvesin de la Riva. È un aspetto che sa bene chi ha lavorato direttamente con Gualtiero Marchesi. Tutti hanno seguito quella tipologia di cottura e quel trattamento del riso”. Del resto lui era sempre lì a correggere e insegnare con l'esempio, come ha più volte ammonito in un periodo che, a guardarlo ora, sembrerebbe secoli fa. “Ha anticipato i tempi in ogni cosa” spiega Davide Oldani: “è stato uomo immagine per case automobilistiche e testimonial per prodotti da Gdo, ha disegnato tovaglie e stoviglie, e aperto ristoranti all'estero, creato un brand riconoscibile su scala mondiale e ha fatto tutto in un modo elegante, come lui era.Dopo 35 anni” conclude Oldani “posso solo dire grazie”. Impossibile non essere d'accordo.
a cura di Antonella De Santis