Nel 2012 cominciava l’avventura a New York per la famiglia Panella. Con un ristorante che ha portato un tocco di romanità a Williamsburg, uno dei quartieri di tendenza della Grande Mela affacciato sull’East River, proprio dirimpetto a Manhattan. Una sfida intrapresa con coraggio, ma nessuna incoscienza. Che esemplifica anche cosa significhi fare ristorazione oggi, a New York, per un italiano. Ne parliamo con Francesco Panella, erede insieme ai fratelli Simone e Lorenzo, di un know how che si tramanda da quattro generazioni: da quando, nel lontano 1922, nel cuore del rione Trastevere apriva i battenti l’Antica Pesa. Un’attività quasi centenaria, dunque, che non mostra segni di stanchezza e anzi continua a rappresentare in chiave contemporanea, ma attenta alla tradizione, la romanità a tavola. Un merito da attribuire ai piatti che escono dalla cucina, ma anche alla salda gestione di Francesco, dotato di un savoir faire che negli anni gli ha fatto conquistare il favore di ospiti illustri - come testimoniano le foto che ci accolgono all’entrata del locale storico in via Garibaldi 18 - e di un’energia coinvolgente che gli ha permesso di mettersi alla prova, spingendolo a sperimentare nuove strade che potessero far crescere rapidamente e nel miglior modo possibile l’attività di famiglia.
A più di due anni dall’apertura, la prova di New York, in barba alle statistiche feroci che lo stesso Francesco ci ricorda, può dirsi superata: L’Antica Pesa NY è riuscita a inserirsi nel quartiere, la clientela non manca, come è chiaro che lo spirito trasteverino, l’anima della cucina romana, non sono stati traditi. E nel frattempo è cresciuta la voglia di condividere con gli altri questa esperienza americana, raccontare i luoghi meno conosciuti di una New York che si è trasformata in città d’adozione; non solo Times Square, glamour, lustrini e stelle e strisce, ma il cuore pulsante di una grande metropoli ricca di contraddizioni, la sua società più vera, scrutata con gli occhi dell’imprenditore, che ad esempio non può fare a meno di notare il fatturato delle attività comprese tra la Nona e la Tredicesima, nel Meatpacking district o considerare le spietate regole della ristorazione a Manhattan.
Tutto questo si è tradotto nel fortunato programma Brooklyn Man, trasmesso da Gambero Rosso Channel, dove da qualche settimana sono in onda le nuove puntate della seconda serie. Il successo del format ha spinto Francesco a raccontare la sua passione per la Grande Mela in Brooklyn Man: una guida insolita alla cucina di New York e molto di più, in libreria dal 30 ottobre (edito da Newton Compton e Gambero Rosso)
Di te si può dire che sei imprenditore, ristoratore, viaggiatore, star televisiva e ora anche scrittore. Tu come ti definiresti?
A dir la verità mi definisco una persona che ha poco tempo per ragionare su ciò che è. Cerco di produrre il più possibile, e non per mero interesse economico, ma per una questione di emozioni e gratificazioni personali. Quel che mi interessa è dare il più possibile agli altri per avere un mio ritorno a livello di soddisfazioni, anche come imprenditore.
Dalle pagine del libro emerge molta cultura pop nella descrizione della scena gastronomica newyorkese, ma anche una dimensione più intima, una sorta di diario.
Esatto. Anche la mia scelta è significativa: per replicare L’Antica Pesa non ho puntato sulla frenesia e il divertimento di Manhattan, ma su un quartiere in cui potessi trovare una mia dimensione, una sorta di isola felice dove mettere in pratica le mie idee. Una scelta fondamentale per avere più energia possibile; a Manhattan non avrei potuto farlo, perché lì devi rispettare certi meccanismi e cifre. Non c’è spazio per il talento imprenditoriale, non puoi uscire da certi schemi. A Brooklyn invece ti è permesso pensare e ragionare, per questo ho accettato la sfida.
Tu spesso ribadisci che per ogni apertura c’è un posto giusto, guardi New York in un’ottica molto imprenditoriale, questo emerge tra le pagine del libro.
New York è affascinante, ne sono rimasto colpito dal primo momento. Lì bisogna fare grandi numeri, fatturare. Ed è bella anche per questo: tutto quel che non accade in Europa, in America è possibile.
Hai un’idea di cosa significhi fare ristorazione in Italia, a Roma, e ora anche in America. Lì si gira su altre cifre, il rapporto con la clientela è diverso. Ci si aspetta altro da un ristorante?
All’inizio mi sono avvicinato con grande perplessità e curiosità. Sentivo parlare di imprenditori con dieci, venti ristoranti. E mi affascinava molto; dopo due anni ho capito che tutto questo si può replicare, con fatica e determinazione, e nonostante le statistiche: su 100 locali che aprono in città, ne chiudono 96 e gli altri quattro non sopravvivono più di un anno e mezzo. C’è un ristorante ogni 10 metri, e una fortissima competitività: questa cosa ti può spaventare o spingere a fare qualcosa di diverso. È molto stimolante, ma devi essere challenger.
L'Antica Pesa NY sta andando bene. Anche perché avete trovato una dimensione perfetta a Williamsburg. Se tornassi indietro ci sarebbe qualcosa che faresti in modo diverso?
Tornare indietro sui propri passi quando si è intrapresa un’avventura non è auspicabile. Bisogna guardare avanti e camminare. Qualcosa rifarei diversamente, gli sbagli che abbiamo commesso nel primo ristorante non li replicherò in futuro. Tutti noi abbiamo un sogno, il mio? Lavorare duramente, far crescere la mia azienda più rapidamente possibile nel modo più costruttivo possibile. Non so ancora quando e come, ma non me ne sto certo fermo.
Hai trovato una formula per proporre l’italianità all’estero in chiave contemporanea?
La formula è una sola: metterci la faccia, esporsi in prima persona. È finita l’era della trattoria italiana con la tovaglia a quadretti bianchi e rossi; chi pensa che gli americani non siano abituati a mangiare bene e non abbiano la nostra comprensione del cibo si sbaglia. Sono grandissimi gourmet, capiscono di cibo, si sono allineati a parametri europei meglio di noi e quindi c’è una competizione spaventosa. Noi abbiamo il vantaggio di poter coltivare il rapporto con il cliente, mentre a Manhattan è tutto un numero, il cameriere che fidelizza il proprio cliente non esiste, si ragiona in termini di soldi e coperti.
Come ti sei inserito nel quartiere?
Per me è una sorta di seconda famiglia, anche se all’inizio c'era parecchia resistenza: il brand era forte e non americano. Io non ho accettato molti compromessi, perché volevo far valere la nostra storia e la tradizione di una città come Roma. Mi sono sentito titolare di un patrimonio che non ho voluto perdere: portavamo il know how di quattro generazioni. L’Antica Pesa doveva essere così e io non ho mollato il punto; questo modo di ragionare alla lunga ha premiato, e adesso ci vogliono molto bene. Williamsburg è un posto che fa ancora tendenza. In America sono tre le zone dove si trovano i trendsetter e dove nascono equilibri, regole e orientamenti: Silver Lake a Los Angeles, Mission District a San Francisco e Williamsburg.
Dal libro infatti emerge uno scambio continuo con diverse realtà gastronomiche del quartiere.
Sì, i rapporti di buon vicinato sono importantissimi. In Italia gli chef sono in grande competizione, fanno tragedie per un punto o una stella in più. In America non è così, c’è un sistema diverso. Più fai squadra, più riesci a valorizzare te stesso e a trarne profitto. Perché farti nemici quando potresti avere tanti amici?
Per te cosa rappresenta questo libro, che evoluzione c’è rispetto alla serie televisiva?
Personalmente è stato un motivo di grande crescita professionale, mi ha messo alla prova in un momento duro, anche perché nel frattempo stiamo seguendo un’altra apertura negli Emirati Arabi, a Doha. Detto ciò mi ha regalato un’emozione unica. Ai lettori credo offrirà un punto di vista diverso su New York che risponde anche alle richieste di consigli su dove mangiare e cosa fare in città, che mi arrivano quotidianamente sui social. Abbiamo provato a racchiudere tutto questo in un libro.
E la seconda serie tv in onda dal 15 ottobre?
È l’evoluzione della prima, che era nata a soli quattro mesi dall’apertura del ristorante. Questa è stata ideata con più calma e una conoscenza migliore delle dinamiche cittadine. È più pulita, qualitativamente migliore e ha una coproduzione americana. Tra l’altro ci sarà più attenzione al tema sociale; New York offre grandi spunti: non mi interessava solo dare suggerimenti, ma anche raccontare la città più vera. Per esempio abbiamo intervistato un ragazzo che per molti anni è stato in carcere, poi si è riabilitato e, perfezionandosi come chef, ha ripreso in mano la sua vita. È stato emozionante cucinare insieme. Capire dal basso quello che accade in una grande metropoli è fondamentale per avere un punto di vista più razionale.
L’esperienza che più ti ha segnato?
In generale il rapporto distaccato che i newyorkesi hanno con i senzatetto. Parallelamente si costituiscono associazioni di persone per aiutare i bisognosi, con un livello di eccellenza incredibile. È il caso di Chips, dove io e il mio staff abbiamo cucinato e fatto i volontari. L’esperienza è stata molto forte e ho deciso di tornare per stare con loro, una volta ogni tre mesi, e aiutarli in cucina.
E il tuo posto del cuore a New York?
Il Teddy’s Bar, davanti al mio ristorante. L’hamburger è pazzesco, mi piace stare lì per vedere quello che accade. E hanno un grandissimo giro d’affari.
Cosa non sei ancora riuscito a esportare della romanità?
Quello che loro non vogliono. Preferiscono le cose schematiche. Se scrivi una cosa sulla carta è quella e basta. Nessuna modifica, dal formato di pasta a quella più banale che si possa immaginare.
E la cucina come lavora, qual è la vostra offerta gastronomica?
I piatti fondamentali sono quelli di Roma, ma è necessario andare incontro alle loro esigenze senza stravolgere ciò che hai in mente. Il rapporto con i fornitori è fantastico, ci siamo rivolti a piccole aziende organiche e biologiche intorno a NY. Prendiamo le verdure dai rooftop, ci divertiamo ad andare al mercato del pesce; e non bisogna mai dimenticare che loro stanno iniziando a essere grandi cultori di cibo, anche italiano.
Brooklyn Man. La guida insolita alla cucina di New York| Newton Compton Editori e Gambero Rosso| Prezzo: 14,90 euro| In libreria dal 30 ottobre, disponibile anche in formato e-book
Brooklyn Man | Gambero Rosso Channel | ogni tutti i mercoledì alle 21:30 solo su Gambero Rosso channel ch.412.
a cura di Livia Montagnoli