Certo, ci sono luoghi per mangiar bene inseriti in nuove avveniristiche architetture, ma mai con una collocazione così azzeccata nel paesaggio e nel territorio; certo ci sono spa di altissimo lignaggio, ma difficilmente a venti metri vi troverete una cucina gourmet; vi sono tanti esclusivi relais di campagna, ma quale tra questi ha una vera libreria d’arte e design appositamente curata da una società culturale?
Perché Vallefredda, come dice il suo indovinato slogan, è davvero fuori dal mondo, ma allo stesso tempo è davvero a due passi dal Colosseo. O meglio, come preferiscono affermare dallo staff, a tre minuti di elicottero da Ciampino, giusto per capire che nonostante alcuni dettagli volutamente rustici (bandito il prato all’inglese, al suo posto fieno alto e erbe spontanee. E davanti alla suite più esclusiva pascolano asini e vacche e i maiali si rotolano nella pozza di fango), la clientela che si cercherà di raggiungere è quella top level.
Ma oltre che dispetto, Vallefredda è coraggio. E non solo per il periodo di crisi, poco adatto ai grandi investimenti. Coraggio di fare un posto del genere nel bel mezzo della campagna laziale che non è Langa o Chianti e non è neppure Umbria, Marche, Basilicata o Sicilia. E architettonicamente, con i suoi brani di villette non finite (però da Vallefredda non se ne vede manco una, per fortuna), somiglia più a certa Calabria, che alla non lontana Maremma.
Vallefredda è dunque marketing e politica del territorio: una suggestione su come un paesaggio parecchio compromesso si possa ripensare. Il primo punto a favore di Vallefredda è infatti l’architettura. Francesco Aniello ha fatto centro. Peraltro, anche lui, pigliandosi dei rischi enormi: il pericolo di proporre l’ennesimo meteorite completamente avulso dal profilo del territorio era dietro l’angolo. E invece, per dirla con Antonello Colonna, il meteorite c’è, “ma ha frenato dieci metri prima di atterrare”.
Il risultato è un posto che, seppur ancora poco vissuto (i primi ospiti per la notte sono arrivati la sera della nostra visita), non ha quel sapore asettico di certa architettura minimal. Le resine a terra ci sono, il cemento vivo alle pareti c’è, gli inserti di design supergriffato pure, ma il risultato finale ha una temperatura che ti fa star bene. E fa pensare all’inverno, quando forse Vallefredda, con le sue vetrate enormi e con la campagna che entra dentro da tutte le parti (anche nelle 12 stanze per gli ospiti), potrà dare il meglio della propria atmosfera: consentendo di star fuori pur restando chiusi dentro, di fronte ai caminetti o a mollo nell’enorme vasca nera della spa.
Il resto, a Vallefredda, lo fanno i dettagli. Ogni stanza ha l’accesso diretto all’esterno, con un piccolo giardino ritagliato nei campi coltivati a grano, granturco o ortaggi che arrivano fino addosso alle mura della struttura; agli ospiti sono dati in dotazioni stivaloni verdi per cavarsi d’impaccio in caso di fango; su in piscina le docce scimmiottano i rubinetti professionali; accanto all’ingresso principale c’è una porta rossa ad evocare il glorioso ristorante a Labìco, ma al negativo; dietro alla cucina sta un acquario, un cubo di vetro che è la mensa dove chef e brigata mangiano e lavorano ai nuovi piatti, con vista sul nulla; cestini e posacenere, lungo i viottoli fatti con le travi utilizzate per il cantiere e poi annerite a fuoco, ricalcano le forme architettoniche dell’edificio.
Paura che tutto questo marginalizzi la cucina? Paura fugata da Antonello Colonna in persona: “qui tutto gira attorno al cibo, a partire dall’ospitalità per arrivare alla grande Foodstock, la festa di musica e arte che faremo sul terrazzo: ci sarà tanta creatività e tanta cultura, ma sempre dal cibo si prenderà avvio”. E intanto Adriano Baldassarre, ai fornelli, opera e concepisce in nome del levare, del sottrarre, dell’asciugare. Parla addirittura di una cucina “salutista”, di una proposta che si libera di orpelli e guarda al territorio con curiosità. Le cotture millimetriche degli spaghettoni fave e agnello e della guancia di maiale hanno dato corpo a questi propositi. Una cucina, insomma, che è esemplificata da un uovo; un uovo di quelle papere che razzolano libere fuori dalla suite più isolata e esclusiva del resort, sulla collina di fronte. Alcuni l’hanno già ribattezzata ‘one room hotel’, Colonna la chiama “il capanno”…
Massimiliano Tonelli
21/05/2012
[iframe width="500" height="369" src="http://www.youtube.com/embed/qlwADLGKL2Q" frameborder="0" allowfullscreen ]