“Dui puvrun bagnà ‘nt l’oli” è una tipica espressione piemontese che significa “due peperoni bagnati nell’olio”. Una sorta di scioglilingua per i meno avvezzi ai dialetti locali, ma soprattutto un detto che ci avvicina a uno dei fiori all’occhiello della biodiversità di questo territorio. Perché, se del patrimonio enogastronomico del Piemonte si parla già molto (basti pensare che secondo Lonely Planet è la prima regione al mondo da visitare), decisamente meno si parla dei suoi ecotipi e di quanto alcuni abbiano rischiato di scomparire a favore degli ibridi.
Dui Puvrun, ossia due peperoni (il quadrato d’Asti e il Tumaticot)
E proprio dall’intento di mantenere in vita alcune tipologie di peperoni piemontesi è cominciata l’avventura di Dui Puvrun, l’azienda agricola di Stefano Scavino a Costigliole d’Asti. “Ho deciso di avviare il mio progetto nel 2015 con l’obiettivo di recuperare e coltivare il peperone quadrato d’Asti”, ci racconta, “ho fatto delle ricerche confrontandomi con altri agricoltori della zona e poi mi sono rivolto alla Banca del Germoplasma di Torino: da lì ho ottenuto i semi di questa e di altre varietà (compreso il peperone Tumaticot, così soprannominato per la sua somiglianza con il pomodoro) e li ho riprodotti”. Andando incontro a non poche difficoltà: “sono semi che hanno 40 anni, raccolti tra il 1979 e il 1981 quando è stata creata la Banca, quindi non più al massimo delle loro potenzialità”, precisa. Ė così che è nata l’idea di un campo sperimentale dove migliorarli geneticamente anziché farlo in laboratorio: il progetto - messo a punto da Stefano assieme al dipartimento di Scienze Agrarie, Forestali e Alimentari dell’Università di Torino, al Cnr e all’ente di ricerca privato Agrion – ha vinto un bando indetto nell’ambito del Programma di Sviluppo Rurale ed è partito ufficialmente ad aprile 2018.
Stefano Scavino. Foto di Franco Bello
Ma anche carciofi, quelli della Valtiglione
E cosa accade nel dettaglio? “Le piante vengono periodicamente catalogate, se ne studiano le malattie e si selezionano quelle che più rappresentano le caratteristiche della varietà in questione”, spiega Stefano. Ma non solo peperoni, la sperimentazione è dedicata anche al carciofo della Valtiglione: “la pianta me l’ha fornita un contadino che mi ha insegnato a coltivarlo: è ribattezzato carciofo del sorì perché i sorì (ossia i versanti collinari esposti al sole, quelli dove di solito si trovano le vigne migliori) sono il suo habitat ideale, anche se comunque non patisce le basse temperature”. Ė privo di spine, meno coriaceo di tanti altri e dunque ideale da mangiare crudo, ma la sua è una storia di abbandono dovuta a un motivo commerciale: “si tratta di un carciofo tardivo rispetto a quelli provenienti da altre regioni e così, quando questi ultimi sono arrivati qui in grandi quantità, quello della Valtiglione compariva sul mercato per ultimo e per venderlo si era costretti ad abbassare il prezzo; ormai in pochi sanno che si tratta di un prodotto fortemente legato al nostro territorio, a cui ci sono riferimenti in antichi ricettari ed è stato persino rappresentato in alcune raffigurazioni ecclesiastiche del ‘700”.
Il ciliegeto aperto e il contatto diretto con i clienti: l’importanza della divulgazione
La divulgazione, infatti, è un passaggio fondamentale e Stefano cerca di portarla avanti con costanza, costruendo un rapporto diretto con i propri clienti. Ha, per esempio, preso in gestione uno storico ciliegeto di Revigliasco d’Asti: lì coltiva una decina di varietà - tra cui la Mora di Revigliasco e la Graffione da spirito - e ogni anno organizza la giornata del “ciliegeto aperto”, che permette alle persone di cimentarsi nella raccolta, mangiare sul posto e poi comprare. E soprattutto permette di riscoprire un frutto che per anni è stato il centro dell’economia di questo paese, “che però ha progressivamente rinunciato alla sua coltivazione a causa dell’impossibilità, in un territorio collinare come questo, di meccanizzarla e modernizzarla”. Ma ancor di più Stefano fa divulgazione attraverso la vendita dei suoi ortaggi: “mi sono ispirato al modello americano della community sustained agriculture”, ricorda, “ognuno paga una quota mensile per delle cassette in cui raccolgo dalle 10 alle 15 varietà, dove allego consigli per l’uso o ricette, da ritirare direttamente nell’orto o che consegno a domicilio nelle zone di Asti e Alba tutte le settimane: è un meccanismo che mi aiuta molto a sensibilizzare, perché gli acquirenti (compresi ristoranti, trattorie e pizzerie) conoscono davvero da vicino ciò che mangiano”.
Un pomodoro, una storia familiare: il Cerrato d’Asti
A seconda della stagione nelle cassette ci si può trovare un po’ di tutto e, nel periodo giusto, è il turno pure del pomodoro Cerrato d’Asti. Un altro frutto della terra con una storia da raccontare, che deve il suo nome a quello di una famiglia di ortolani dell’Astigiano. “Quando verso la metà degli anni ’60 sono arrivati gli ibridi, che permettevano di ottenere maggiori quantità a scapito della qualità, i miei genitori che vendevano all’ingrosso si sono adeguati”, ci spiega Attilio Cerrato, 68 anni e una parlantina briosa, “nel frattempo però abbiamo continuato a coltivarlo nonostante non fosse più commercializzato”. Ecco perché il Cerrato è conosciuto come il “pomodoro da mangiare”, quello che non veniva venduto ma impiegato solo per il consumo fresco: “d’altronde è un prodotto che, date le sue caratteristiche, è adatto principalmente all’agricoltura di prossimità: è grande e difficilmente trasportabile perché ha la pelle sottilissima”, specifica. Se negli anni l’interesse attorno a questa varietà è cresciuto, buona parte del merito è proprio di Attilio: è lui che ha conservato i semi e che nel 2007 (stesso anno del riconoscimento della Denominazione Comunale) li ha donati all’orto del carcere di Quarto d’Asti, è lui che poi ha dato le piante a Stefano dal quale a sua volta ha ricevuto quelle del carciofo della Valtiglione.
Collezione di fagioli di Max Nunziata
Passione semi rari: il grande lavoro di Max Nunziata
Ma ce ne sono ben altri di pomodori piemontesi da scoprire, come il Costoluto di Chivasso o l’Insalataro di Cambiano. Senza dimenticare il mais, dal Pignoletto giallo del Torinese all’Ottofile rosso di Alba, o i fagioli come il Borlotto di Saluggia e lo Stregoni di Cuneo. L’elenco in realtà potrebbe allungarsi di molto e il bello è che c’è un 43enne originario di Salerno, ma che vive a Volpiano (nel Torinese), che per passione ne raccoglie, cataloga e salvaguarda i semi, senza mai smettere di ricercarne di nuovi e di avviare collaborazioni con aziende agricole. Ė Massimiliano Nunziata, per tutti Max, che si dedica principalmente ai legumi più rari da ogni parte del mondo (di cui ha all’incirca 5.000 varietà). “Ho iniziato quasi per caso: un’estate ero a casa in Campania e, come tutti gli anni, stavamo preparando la salsa di pomodoro”, ricorda, “a un tratto mia mamma si fece male e, intento a cercare l’occorrente per medicarla, trovai in un armadio una scatola piena di barattoli contenenti vari semi”. Da lì è nata la curiosità: Max ha affinato le sue competenze, diventando un esperto in materia e arricchendo sempre di più la sua “collezione”. Che da luglio 2018 include persino il fagiolo di Crava (in provincia di Cuneo) a rischio estinzione: “quando ho ricevuto i primi semi era già troppo tardi per effettuare la semina, che richiede una temperatura primaverile attorno ai 15°”, ci spiega Max. Nell’attesa del prossimo anno li preserva e ha in cantiere un progetto più ampio con cui andare alla ricerca delle varie tipologie di fagioli italiani: “una volta trovati i semi li scambio e ne tengo una piccola quantità per riprodurli: questo è un sistema che va alimentato perché tutelare la biodiversità vuol dire tutelare il nostro patrimonio di ricette e sapori”.
a cura di Agnese Fioretti
foto di apertura di Valentina Cardile