Il popolo ha espresso la sua preferenza, nominando Donad Trump 45° Presidente degli Stati Uniti d'America, un risultato a sorpresa, ma non troppo, considerando l'andamento delle ultime settimane.
Una campagna elettorale portata avanti al grido di “America first” non lascia ben sperare per i nostri produttori, facendo presagire possibili politiche protezionistiche per i prodotti americani che si trasformerebbero in dazi e ostacoli per l'export del nostro agroalimentare. Proprio quello su cui si cercava di lavorare con il Ttip che, nei mesi scorsi, i due candidati alla Casa Bianca avevano manifestato di non esserne sostenitori (anzi, Trump lo ha definito “un attacco agli affari americani”). Ma Paolo De Castro (coordinatore S&D della Commissione Agricoltura e sviluppo rurale del Parlamento Europeo) è stato ottimista: “gli americani sono troppo affezionati al nostro Paese: attualmente l'Italia manda negli Usa un miliardo di prodotti agroalimentari e non sarà di certo il colore politico a far cambiare questa condizione”.
Ora, nel the day after di una tornata elettorale che non fa stare tranquilli da questa parte dell'oceano, abbiamo chiesto a chi con l'America è solita avere relazioni commerciali, di dirci cosa pensa di questo risultato.
La pasta
“Non è incredibile, purtroppo, ma perfettamente in linea con la Brexit e il resto del nichilismo fatto politica” dice Giuseppe Di Martino, presente sul mercato statunitense con la sua pasta (con i marchi Di Martino, Amato e Pastificio dei Campi). “Non credo che sarà un buon presidente, ma penso che non farà in tempo a fare di peggio per quanto riguarda il nostro export: sulla pasta esiste già un protezionismo del prodotto made in Usa in virtù di un presunto dumping fatto dai produttori italiani”. Il dumping è la procedura di vendita di un prodotto a prezzo più basso rispetto quello del mercato in cui si inserisce, con l'obiettivo di accaparrarsene quote consistenti facendo concorrenza sleale. Si tratta di una pratica disciplinata da norme internazionali antidumping. “Sarebbe come se noi multassimo la Cina perché entra nel nostro mercato con dim sum a prezzi molto più bassi dei nostri” spiega, e aggiunge “il protezionismo è un punto di partenza negativo, ma non è questo che mi preoccupa, quanto il rischio di decadenza del modello occidentale. La chiusura è un danno: non siamo attrezzati con uomini mezzi e concetti per affrontare da leader il mercato mondiale che si prospetta. L'apertura è l'unica possibilità di sopravvivenza. Lo slogan di Trump: America first, in realtà diventa America alone. E non va bene”.
Il tartufo
Diversa la situazione per Paolo Montanaro Ceo di Tartuflanghe, attivo in Commisisone Agricoltura per la stesura di una nuova legge sul tartufo che regoli il settore in materia fiscale, riguardo il commercio del prodotto fresco, l'etichettatura dei prodotti conservati e così via. Per lui il mercato americano rappresenta non più del 7-8% della sua attività ed è equamente diviso tra importatori-distributori e grandi catene, come per esempio Eataly, Dean&deLuca e Williams Sonoma. Per il tartufo si ha un panorama con caratteristiche proprie profondamente influenzate dai dazi che fino a 6-7 anni fa pesavano per il 100% sul prodotto europeo. “Se vendevo 3mila euro di tartufo, l'importatore doveva pagarne altrettanti per sdoganarli. Cosa che non succedeva per i paesi extra Ue, come Serbia o all'epoca Romania e Croazia”. Questi paesi, da cui un tempo l'Italia acquistava anche del prodotto, hanno dominato il mercato statunitense inquinando anche il nostro (alzando i prezzi allineandoli a quelli che ottenevano oltreoceano). Per superare il problema molte aziende hanno cercato degli escamotage: qualcuno portava il proprio prodotto in questi paesi e lo esportava negli Usa come extra Ue, dunque libero da dazi, altri invece portavano in Italia il prodotto serbo esportandolo dall'Italia ma etichettato con il paese di produzione. Poi con Obama le cose sono cambiate e i dazi eliminati. Ora l'Europa è competitiva. Non altrettanto l'Italia in sé, “dato che la legge italiana non ci favorisce” aggiunge Montanaro “ma almeno il mercato si è aperto”. È ipotizzabile un passo indietro sui dazi? “Dubito che Trump faccia politiche restrittive, soprattutto sul tartufo, che è un prodotto che in America non c'è. Poi lui più che un politico è un imprenditore e non credo abbia la volontà di chiudere il mercato”. Nessun protezionismo? “Credo che il sistema americano non permetta al presidente di fare completamente come vuole. Più facile ipotizzare conseguenze sui mercati legate a una reazione psicologica”. Sugli Usa, però, ci sono altre considerazioni da fare: “molti marchi spediscono in America dei semilavorati e li producono lì, anche con marchi italiani. Nello specifico, per il settore del tartufo è molto più conveniente dal punto di vista fiscale. Per essere competitivi su un mercato potenziale che conta 400milioni di persone la strada è quella di produrre negli Stati Uniti”. Una prospettiva che di certo farà che piacere al nuovo Presidente ma che non fa bene all'Italia, con lo spostamento di aziende sul territorio americano.
Il vino
Cauto ottimismo manifesta il mondo del vino: da più fronti le voci che si levano raccontano di un paese sempre più innamorato del vino di qualità, che difficilmente potrà fare a meno del prodotto italiano, la cui unicità rappresenta una valida assicurazione. Senza contare che il vino italiano significa posti di lavoro e guadagno anche in Usa.
Doriano Marchetti, presidente di Terre Cortesi Moncaro parla di un mercato maturo e dalle potenzialità ancora inespresse per i vini italiani. “La vittoria dell'uno o dell'altro non è una discriminante nel successo del nostro export” dice, ma richiama a una cautela rispetto al panorama globale: “Il caso Brexit ci insegna che la destabilizzazione dei mercati nasce da politiche influenzate da sentimenti che fanno leva sulla paura”. Insomma, le preoccupazioni riguardano possibili derive populiste dominate dalle ossessioni. Mentre il riconoscimento delle tipicità territoriali e locali è un faro per tutelarsi dall'italian sounding.
Instabilità e incertezza economica e politica (che sono forse da individuare tra le cause della scelta degli elettori americani) sono gli spauracchi per molti. Come spiega Benedetta Poretti, responsabile della comunicazione di Duca di Salaparuta, la reazione all'insicurezza si traduce, molto spesso, in una contrazione dei consumi, che “si rifletterà moltissimo sull’acquisto di beni come il vino, soprattutto d’importazione. I consumatori, infatti, escono meno e comprano con maggior oculatezza”. Ma l'ipotesi di politiche a favore del prodotto americano, “soprattutto i vini californiani” sono da mettere in conto,“con conseguenze facilmente intuibili per i vini italiani e non solo”.
a cura di Antonella De Santis
