Far risalire l'immagine della Cina attraverso i suoi ristoranti all'estero. Non più terreno di ricette improvvisate, tavole inappellabilmente low cost e materie prime scadenti, ma sintesi di tradizione gastronomica, qualità, contaminazione e contemporaneità. Il piano del governo di Pechino trova riscontro in quanto sta accadendo a Milano da qualche anno. Abbiamo parlato con i protagonisti di questo rinascimento gastronomico, immigrati di seconda o terza generazione sempre più lanciati nell'olimpo della grande ristorazione.
Se i nostri politici apprezzano particolarmente i richiami sportivi nei loro proclami, quelli cinesi sembrano ben più attirati dal côté alimentari. Sarà forse perché – anche nel Drago in continua crescita – apparecchiare ogni giorno almeno un piatto di riso per un miliardo e 300mila persone resta un problema fondamentale. Detto ciò, è interessante scoprire che Pechino abbia deciso di rifarsi il look partendo proprio dalla tavola. E se il presidente Xi Jinping, il leader del nuovo sogno cinese, ha lanciato l'operazione Piatti puliti in patria (guerra agli sprechi e ai banchetti dei funzionari, icona della dilagante corruzione), l’ambizioso primo ministro Li Keqiang si è maggiormente preoccupato dell’immagine esterna. Da qui il piano Tovaglia inamidata: lotta alla sporcizia e ai menù realizzati su liofilizzati e precotti esportati soprattutto dalla regione dello Zheijang. L’ideologia di base? L'immagine di un popolo dipende da ciò che mette nel piatto degli altri e quindi è insopportabile che India e Giappone siano più considerate tra i gourmet occidentali e statunitensi. Per farlo, bisogna ribaltare anche la proposta tradizionale: tanto per capirci semaforo rosso a involtini primavera, riso fritto, pollo alla soia, mentre deve tornare in auge l’antica gastronomia imperiale, quella della carpa all'anice stellato, dei nidi di rondine con la glassa al tè verde e dell'anatra alla pechinese arrostita nel forno a legna, da spolverare con kren e vaniglia.
Un po’ come se il nostro neo-premier Renzi – ispirato dal super consulente Farinetti – imponesse a tutti i locali italiani nel mondo di buttare nella spazzatura pizze cattive, spaghetti collosi e parmesan. Magari!, direte voi, ma è evidente che sarebbe impresa ardua, praticamente impossibile. Eppure per i governanti cinesi, l’impegno è serio come prova l’avvio della serie di maxi-finanziamenti di Stato che serviranno a smantellare migliaia di vecchi ristoranti aperti al di là della Grande Muraglia: saranno ristrutturati, arredati come impone la moda e soprattutto dotati di cuochi capaci di finire dritti sulle guide internazionali. Milano è il laboratorio italiano della cucina cinese, ed etnica in generale. Negli anni ’80 si contavano in città circa 400 locali ma quasi tutti impostati esclusivamente sul favorevole rapporto quantità-prezzo, talvolta ai limiti dell’assurdo: ambienti tristi, gestione familiare, cuochi strappati realmente alla terra, ingredienti di seconda e terza scelta. “Inutile nasconderlo, i ristoranti aperti dalla generazione precedente erano improvvisati e hanno fatto seri danni alla nostra immagine” spiega Hu Hai Bin, che gestisce numerosi locali etnici di successo come il Mi-Cucina di Confine “ma quella attuale, arrivata giovanissima in Italia o nata qui, sta facendo un gran bel lavoro anticipando quanto stanno decidendo in Cina. È sostanzialmente una questione di mentalità e di poter contare su professionisti in cucina. Poi si può ragionare su cosa mettere in tavola: al Mi ci piace giocare su una base cinese, unendo altri sapori orientali e poi prodotti italiani. Altri la vedranno diversamente: del resto, non esiste una solo cucina cinese ma tante cucine regionali con piatti che non hanno nulla in comune tra loro”.
Non è un caso che la Guida Michelin per ora non abbia affrontato il problema – colossale – di recensire il meglio della ristorazione in Cina. Forse tra qualche anno si valuteranno i grandi centri ma per ora ci si limita a seguire Hong Kong e Macao, piazze ricche e affollate con ristoranti importanti. Per la cronaca, la prima ha ben 61 stellati in gran parte classificati come “cantonesi” (uno con tre stelle, il Lung King Heen) e la seconda ne vanta sette con un solo tre stelle, gestito però dal francese Joel Robuchon che ne ha un altro a Hong Kong. Il genietto del gruppo è senza dubbio Alvin Leung – look tamarrissimo, a dispetto la laurea in ingegneria a Toronto – che ha aperto nell’ex-colonia inglese Bo Innovation. Si è guadagnato due stelle Michelin in virtù di quella che lui definisce x-treme chinese cuisine dove i piatti della tradizione vengono “smontati” e “rimontati”, servendosi di quanto appreso nei suoi passaggi tra le cucine di Adrià, Blumenthal e il già citato Robuchon. Ma di Leung per ora se ne conosce uno, i suoi colleghi di Pechino e Shanghai – per quanto bravissimi - hanno spesso l’handicap di guidare locali anche con mille coperti e non ristoranti gourmet, i più considerati dalle guide internazionali. “Ma ci arriveranno, magari prima di quanto pensino anche loro” dice Marco Liu, giovane titolare del Ba-Asian Mood, sempre a Milano, e ideale rappresentante di quella generazione di cinesi nati in Italia che sta cambiando il movimento:“i nostri chef, se ben assistiti e gestiti, hanno talento da vendere e grande creatività. Penso che la mossa del Governo sia stata saggia, c’è bisogno di cambiare l’immagine e aiutare chi sta rendendo più appetibile e raffinata la cucina cinese. Detto questo, non credo negli integralismi: qualsiasi piatto – che siano gli involtini primavera o l’anatra alla pechinese – va proposto nel modo ideale, servito come si deve e senza avere paura di perfezionarlo con nuove tecniche o ingredienti diversi. Per me, la cucina è prendere spunto dal meglio e magari unirlo a quello che ho già in casa”.
“Per me è un fatto epocale e molto positivo” commenta Chiara Wang Pei, titolare con il marito Yike Wang di Bon Wei che per i critici è uno tra i migliori ristoranti cinesi classici (e di classe) a Milano “soprattutto perché aiuta a risolvere il problema degli chef: Pechino impedisce sostanzialmente a quelli veramente bravi di venire in Europa e quindi il livello medio all’estero, per quanto migliorato rispetto a dieci anni fa, non rispecchia le potenzialità di una cucina eccezionale per la qualità e il numero di piatti. Noi abbiamo puntato su quella storica ma con leggere modifiche, apprezzate dai clienti”. Visto il successo di Bon Wei, la coppia ha aperto pochi mesi fa un secondo locale: Dim Sum (nelle foto). Stile più moderno e una cucina basata su piatti leggeri, da servire insieme al tè. Involtini, ravioli, polpette e fagottini – in piccole porzioni – che se gustati in numero elevato diventano un pranzo vero e proprio altrimenti rappresentano un antipasto in vista della portata principale. Il nuovo Dim Sum ha già trovato la rotta giusta, fermo restando che il tè viene sostituito quasi sempre da buoni vini e birre artigianali. Ci sono ben 31 proposte – curatissime e centrate - in una carta di 81 piatti: in particolare conquistano i ravioli dove una pasta leggerissima racchiude carne, verdure, gamberetti, alghe, capesante. Gusto pieno e cotture esemplari come per il resto del menu, eseguito da un team che lavora in uno spazio a vista: aver sfatato i luoghi comuni sulle cucine cinesi merita un applauso. Ci sarebbe l’ovazione – se permettete – per chi riuscisse un giorno a codificare la cucina cinese. Ma è come tagliare il brodo: secondo China Daily ci sono circa 40.000 ricette tradizionali e in effetti, un antico proverbio del Drago dice “se un cinese mangia ogni giorno un piatto diverso per tutta la sua vita, non conoscerà comunque tutta la sua cucina”. Fate due conti, accidenti, e bisognerebbe vivere quasi 110 anni.
Mi-Cucina di Confine | Milano | viale Cassiodoro Aurelio Magno, 5 | tel. 02.48513745 | www.mi-cucinadiconfine.it
Ba-Asian Mood | Milano | via Carlo Ravizza, 10 | tel. 02.4693206 | www.ba-restaurant.com
Bon Wei | Milano | Milano | via Lodovico Castelvetro, 16 | tel. 02.341308 | www.bon-wei.it
Dim Sum | Milano | via Nino Bixio 29 | tel. 02.29522821 | www.dim-sum.it
a cura di Maurizio Bertera