Premessa doverosa per chi si prepara a seguire gli Azzurri, per la sempre più vicina Coppa del Mondo in Brasile. Con questo articolo non vogliamo limitare il piacere di abbuffarsi con rodizio e feijoada, piatti – se vogliamo – che si prestano in modo esemplare alla convivialità maschile. Un post-partita del genere, in una vivace churrascaria e innaffiato della birra Brahma (regina indiscussa) farebbe la gioia in Italia figuriamoci qui dove il concetto di festa (lunghissima) è fondamentale.
Il nostro obiettivo è farvi scoprire il meglio della cucina brasiliana, che al pari delle altre a sud degli States, sta guadagnandosi uno spazio al sole tra i gourmet. La prova arriva dalla recente Latin America’s 50 Best Restaurants: le classifiche sul tema non vanno prese per oro colato ma vedere piazzati ben nove locali brasiliani fa capire che il “sistema” è in pieno movimento e il suo profeta – Alex Atala, secondo con il D.O.M. nella Latin America e settimo al mondo – è popolare in patria quanto Ronaldinho. Helena Rizzo, ex-modella e architetto di origine italiana, è stata insignita del titolo Veuve Clicquot Best Female Chef, per aver portato il Mani – insieme al marito Daniel Redondo– nell’olimpo della ristorazione mondiale.
La “nuova cucina” del grande Paese è fatta quasi sempre di chef che tornano a casa dopo esperienze francesi o spagnole e innestano tecniche moderne nel riproporre il meglio dei prodotti e delle ricette tradizionali, frutto di tre culture: quella dei colonizzatori portoghesi (ancora predominante nella pasticceria), quella delle genti africane deportate per secoli (la più amata a livello popolare) e quella autotocna degli indios che attualmente va per la maggiore, come detto in forma rivisitata. Il mix è arricchito dal fatto che in un Paese gigantesco non poteva nascere una vera cucina nazionale mentre hanno ancora una fortissima identità quelle regionali. Quella del Nord-Est per esempio si basa su crostacei (granchi e gamberetti), pesce e carne secca mentre quella bahiana – la più africana – utilizza spesso latte di cocco e olio di palma nelle sue preparazioni come la moqueca de peixe, una zuppa di pesce bianco davvero particolare. Bahia è anche la patria dell’acaraje – simbolo dello street food locale, gustoso ma non leggero – che è una pasta di fagioli fritta riempita con una salsa piccante. La cucina del Minas Gerais è molto valida sui piatti a base di pollo e maiale mentre quella amazzonica rimane la più suggestiva per l’impiego di prodotti sconosciuti agli europei: il mercato di Belem, centro principale, offre tutto il meglio per i cuochi tradizionali e quelli emergenti: il pesce dei fiumi, la manioca (cotta, entra in quasi tutte le ricette), frutti straordinari. A Sud, sale la passione per il churrasco(la cottura alla brace) che interessa da dieci a venti tagli diversi di carne, in gran parte bovina. Con tutto il rispetto, niente a che fare con il rodizio (che significa giro) assaggiato in Italia. La salsa più usata per condirla è a base di pomodoro e cipolla. In questa netta (e scontata) differenziazione regionale, S. Paolo e Rio de Janeiro vanno considerate a parte, visto che offrono tutto quanto e di più, con una logica visione internazionale, prezzi compresi.
Capitolo feijoada, da sempre accreditata come una delle ragioni dei fisici “abbondanti” di molti calciatori brasiliani, dimenticando la birra: è sicuramente il solo piatto nazionale che ha nei fagioli (da qui il nome), nella carne di maiale (non si butta via niente: orecchia, coda, pancetta, lardo, salsiccia, piedino…) e nelle spezie – peperoncino su tutte - le basi ma la ricetta si presta a sensibili interpretazioni da Nord a Sud. Basti pensare che gli stessi fagioli sono neri nella zona di Rio de Janeiro e bruni a Bahia, patria – secondo i gourmet locali– di quella più gustosa insieme alla ricetta preparata nel Minas Gerais. Il contorno è rappresentato da riso bianco (arroz), verdura verde con i cavoli in pole position (chuchu), fette di arancia e la farofa, l’amatissima farina di manioca che viene semplicemente saltata al burro o arricchita da altri cibi. Detto che il vino è per ricchi, se non amate cocktail (siamo nel tempio della caipirinha), l’onnipresente cachaca (rum chiaro, forte) e birra (la già citata Brahma, la Skol e l’Antarctica: leggere e di grande bevibilità), ci sono i succhi a base di frutti tropicali e l’analcolico guaranà.
Lasciate perdere il caffè: la tostatura diversa lo rende cattivo per gli standard italici. A proposito: se vi prende la nostalgia di pasta, meglio resistere a meno che non vi troviate a S. Paolo dove la secolare presenza di compatrioti ha prodotto qualche onesta trattoria nonché un ristorante famoso e carissimo, Fasano. In Brasile, paradossalmente ha molto più senso mangiare in un posto giapponese: la comunità nipponica – la più numerosa in assoluto – oltre ad aver fatto scoprire il vero pesce (quasi sconosciuto nella cucina locale), vanta chef bravissimi soprattutto nella fusion. Non è un caso che uno dei maestri in Italia su questo fronte – Roberto Okabe, patron dei Finger’s milanesi – sia un giapponese di S. Paolo.
a cura di Maurizio Bertera