Metti uno chef, un medico e tanta passione, e ottieni un progetto di terapia integrata per la lotta ai disturbi alimentari. Fabio Baldassarre, chef Unico, al World Join Center di Milano, e Stefano Erzegovesi, psichiatra e nutrizionista IRCCS dell'Ospedale San Raffaele di Milano hanno unito forze e competenze per combattere questi disturbi, che colpiscono complessivamente il 4% della popolazione, 5% nel caso di giovani tra i 18 e i 29 anni. Parliamo di circa 4 milioni di persone, alcuni di loro arrivano ad assumere più di 8000 calorie in un'unico pasto, o a prelevarsi da soli il sangue con l'idea di perdere peso. Anoressia e bulimia coinvolgono il0,5 % della popolazione generale, l'1% dei giovani, con un rapporto di 9 a 1 tra femmine e maschi, dati che salgono all'1% e al 2,5% per i disturbi dell'alimentazione incontrollata che colpisce allo stesso modo uomini e donne.
Ritrovarsi in cucina con il gusto della mente è il nome del progetto pilota sviluppato in dodici lezioni (l'ultima il 2 luglio): sei mesi in cui lo chef ha incontrato i pazienti armato di pasta, pesce, verdure. “Ma non è un corso di cucina” ci tiene a specificare Baldassarre “non vogliamo insegnare a cucinare ma rompere equilibri sbagliati per ricreare un legame sano con il cibo”. In che modo ci si riesce? “Parlando: porto dei prodotti, ci gioco, creo dei piatti. Non entro nella parte medica, naturalmente. La chiave di tutto è la passione: la mia, quella che metto nel lavoro e in questa esperienza; e la loro, quella dimenticata, schiacciata dalla patologia”. Non è stato facile all'inizio neanche essere accettati: “è un percorso fatto di piccoli passi, diversi per ognuno: c'è chi ha ricordato sensazioni legate alla casa e alla famiglia, chi ha ritrovato passioni dimenticate. Ognuno è diverso come diversa è ogni giornata, bisogna trovare la parola giusta per avvicinarsi piano piano, scuotere i pazienti, suscitare emozioni e far recuperare ciò che hanno perso”.
Gli incontri hanno un approccio psicologico-cognitivo: Stefano Erzegovesi introduce il tema del giorno dal punto di vista medico, poi c'è la parte di cucina, a cui segue un incontro con due psicologi per elaborare quanto vissuto e, dopo una settimana, un nuovo incontro per riprendere l'argomento. Tappe collegate tra loro e complesse, in cui bisogna analizzare attentamente le emozioni emerse per seguire l'andamento dei pazienti. “A chiusura di questo ciclo, ci sarà un diario di bordo con i dati degli psicologi”. L'obiettivo è ricostruire un contatto sano con il cibo attraverso i sensi. Toccarlo, annusarlo, percepirne il rumore, la consistenza, i colori. Scardinare l'equazione cibo = problema. Per sostituirla con quella cibo = emozione.
Uno dei temi più difficili? “L'olio e dei grassi in genere: nemici numero uno. Non faccio una cucina dietetica al ristorante e non l'ho fatta al San Raffaele, quindi niente pasta in bianco o ricette light. Ma gusto e passione e, con la giusta misura, anche burro e olio”. Un'altra lezione importante è stata quella sull'olfatto: “abbiamo riempito la stanza di odori e sapori, ci sono state reazioni forti, emotive e non solo”. Perché l'olfatto è un senso primitivo e ha un potere evocativo fortissimo. Ci spiega il prof. Erzegovesi che “nei pazienti con un'anoressia grave e un sottopeso rilevante, si verificano disturbi della sfera sensoriale, con una sensibilità ipersviluppata o con un'appannamento soprattutto dei sensi coinvolti nell'atto del mangiare, quindi gusto, olfatto, sensazioni tattili derivanti dalla consistenza percepita dei cibi”.
Chi sono i pazienti coinvolti? “Una decina di donne di età diversa con una forma grave di malattia, ma che non presentano rischi di comportamenti autolesivi” dice Erzegovesi. “Pazienti ricoverate in reparto o in day hospital, quindi controllate da vicino per monitorare ogni reazione legata agli incontri”. Ma si guarisce da questi disturbi? “Metà dei malati guarisce, un quarto migliora molto, ma continuerà a pensare in modo ossessivo al cibo pur avendo comportamenti controllati, il 25% cronicizza, i decessi oscillano tra l'8 e l'11%” dice Erzegovesi.
Il percorso affrontato è lungo e complesso, almeno quanto lo sono queste malattie, ma il fattore umano, emotivo e psicologico è fondamentale: “l'elemento personale è stato indispensabile, ironizzare sul mio aspetto fisico o raccontare di quando cucino per mia figlia” dice Baldassarre. Che continua:“di informazioni tecniche ne hanno tantissime, conoscono alla perfezione valori nutrizionali di ogni alimento, cotture, alcuni sono a proprio agio ai fornelli: il cibo è un nemico che conoscono molto bene. Non dobbiamo insegnargli a cucinare: è il calore della tavola che devono ritrovare”.
Si potrebbe definire un'educazione sentimentale al cibo. “Il corso, assolutamente non obbligatorio, è stato seguito da tutti quasi in ogni lezione. Non era affatto scontato, anzi: il rischio che lo rifiutassero era alto, e invece man mano si sono lasciate andare” continua Baldassarre. Ma quali sono i risultati dal punto di vista medico? Lo chiediamo a Stefano Erzegovesi: “a breve termine alcuni partecipano, sono interessati, scoprono un modo per prendersi cura di sé preparandosi il cibo con calma, cosa che comporta anche una maggiore sazietà e la diminuzione dei fenomeni delle abbuffate, questo nei pazienti affetti da Bed - Binge Eating Disorder, il disturbo da alimentazione incontrollata. Altri prendono le distanze, provano fastidio e un aumento dei pensieri sul cibo e sul peso, soprattutto chi è colpito da anoressia. Sul lungo termine gli stimoli emergono anche a distanza di mesi portando tutti i pazienti a sperimentare di più a tavola, a mettersi in gioco, così possono tornare a vedere il cibo come un veicolo di emozioni e non solo di calorie e grasso”.
Per ora questo è solo uno studio pilota, ma come è nato? “A Roma ho collaborato con il prof. Lorieto dell'Umberto I” dice Baldassarre “nella cura dei disturbi alimentari. Quando ho incontrato Stefano Erzegovesi in un convegno cibo-psiche è nata l'idea di riprendere e sviluppare quel lavoro al San Raffaele”. Questo progetto sarà replicato? “Stiamo cercando di organizzare un nuovo corso” dice Baldassarre “non sappiamo se qui o in altre strutture, anche per problemi di fondi. Questa prima esperienza è stata a titolo di volontariato. Sono stato chiamato da persone malate da diverse parti di Italia e ci hanno contattato singoli centri di disturbi alimentari, ma è ancora troppo presto, bisogna strutturare e standardizzare il processo”. Esistono altre esperienze simili? “Come l'abbiamo fatta noi, no. In alcuni centri ci sono programmi che insegnano a fare a la spesa o a cucinare in modo sano, ma è una cosa diversa, secondo noi è quasi controindicato perché rischia di stimolare troppi pensieri sul cibo”.
“Più che negli ospedali un programma del genere dovrebbe essere portato nelle scuole” dice Baldassarre “come forma di educazione preventiva”.
Cosa porta di questa esperienza nel suo lavoro? “Un'attenzione ancora maggiore verso ragazzi che vengono da Unico, voglio che siano a proprio agio. Invito i bambini in cucina, gli faccio vedere il lavoro, sentire odori e sapori. In cucina ho ridotto leggermente l'uso del sale per mettere in evidenza i sapori”.
Un sogno? “Trasformare questo progetto in una realtà strutturata. Una scuola in cui fare l'esperienza del cibo in questo modo, magari in collaborazione con un ospedale. Tutti noi cuochi facciamo tanto per il sociale, con eventi di beneficenza, ma l'impegno diretto cambia la vita: vedere le persone in faccia, creare un rapporto di fiducia, trasmettere gioia”.
a cura di Antonella De Santis