“La persona incaricata di organizzare i corsi era Antonio Preiti, veniva dall’ambiente Luiss. Non so come Bonilli l’abbia conosciuto ma insieme tirarono fuori l’idea della scuola e mi interpellarono per i contenuti didattici. Buttai giù una bibliografia di base che sarebbe poi diventata utile agli studenti dei corsi”. Così Fabio Parasecoli, giornalista, scrittore enogastronomico e docente di cultura del cibo racconta gli inizi delle scuole del Gambero Rosso. Parasecoli vive nella Grande Mela da molti anni. “In quel periodo” prosegue “cominciavo a insegnare alla New York University. Era il 2002-2003, e la direttrice del dipartimento Marion Nestle, famosissima scrittrice di cibo e politica, mi chiese di tenere dei corsi su cibo&media.Qui la chiamano popular culture, cultura di massa”.Così inizia a creare i corsi per la scuola del Gambero. All’epoca teneva corsi di Storia della gastronomia e Giornalismo e comunicazione enogastronomica. “Non che facessi molta cucina, insegnavo più che altro la storia e la cultura della cucina, tra tradizioni diverse. E la storia della gastronomia dalle origini ai giorni nostri, una cosa pazzesca, con una parte dedicata alle cucine cinese, giapponese, messicana”.
Parliamo di 10 anni fa, da allora molto è cambiato, e per fare il punto di questa evoluzione mercoledì 18 settembre la Città del gusto di Roma ospita il convegno La Formazione Enogastronomica nel panorama nazionale ed internazionale, una giornata di studio che vede insieme rappresentanti del palcoscenico enogastronomico, associazioni ed esponenti politici aprire un tavolo di confronto sugli sviluppi, le tendenze, le esigenze della formazione di settore.
Di fatto Fabio Parasecoli è stato il primo docente delle scuole del Gambero.
Quale era l'approccio a questi corsi?
Facevo fare esercitazioni che riflettessero la realtà della scrittura enogastronomica del momento: per lo più recensioni di ristoranti. C’erano anche Marco Sabellico, Paolo Zaccaria, Marco Bolasco. Io mi occupavo della parte dei reportage su cibo&turismo, m’impegnavo sulle recensioni di libri, film. Gli allievi sceglievano il tema e affidavo loro un genere su cui cimentarsi. Era un esercizio su diversi stili di scrittura.
C’è qualcosa di particolare nella scrittura enogastronomica?
In qualche modo sì. Secondo me è possibile scrivere di enogastronomia e affrontare anche temi complicati, che toccano la società, la politica, la cultura. Chi legge un libro di enogastronomia o una rivista di settore lo fa quasi sempre in un momento di relax, perciò per inserire dei contenuti interessanti che vadano al di là della descrizione pura e semplice del piatto o la recensione di un ristorante, mantenendo allo stesso tempo un tono accattivante, leggero, bisogna saper utilizzare un linguaggio brillante. La necessità di attrarre il lettore e di farlo attraverso il linguaggio esiste sempre. Bisogna poi trasmettere elementi come sapori, odori, sensazioni, esperienze che il lettore dovrebbe poter condividere con chi scrive, far arrivare il profumo della cucina senza esagerare in aggettivi o iperboli.
Perché un simile corso nel 2003?
L’interesse per il cibo e la gastronomia andava al di là del semplice consumo. Che rimane una parte importante, ma c’è anche altro. Dalla fine degli anni Novanta negli Stati Uniti - ma anche altrove - era in atto un’evoluzione di quelli che oggi si chiamano food studies, gli studi gastronomici. Il Dipartimento della New York University è stato il primo a essere formalizzato nel 1988. E al Gambero si erano resi conto che c’era la possibilità di lavorare su questo fronte. C’era la possibilità, anzi la necessità, di formare nuovi giovani perché l’interesse cresceva ma c’era pochissima gente in grado di farlo in maniera intelligente, divertente e professionale. C’era come un buco. Stava per esplodere Internet, e il vuoto poteva esser colmato. Non a caso molte delle persone del primo corso adesso lavorano nella miglior pubblicistica di settore.
Allora era l’offerta che induceva la domanda di scuola o c’era domanda in sé? Il Gambero ha aperto una strada?
Penso tutt’e due le cose. Il fatto che molti dei primi corsi continuino a lavorare nel settore indica che c’era una domanda. Chiaramente non tutti hanno fatto una bella carriera, però in molti l’hanno fatta e questo ci dice che la domanda c’era. Istituzionalizzando la questione abbiamo inoltre creato un’offerta che stimolava una domanda. Così è nata la figura del comunicatore enogastronomico. Ufficializzata da un Master, anche se non di tipo universitario. Una delle questioni era su come organizzarsi. Il Gambero Rosso non era un’università, non poteva dare un diploma riconosciuto legalmente, ma gli studenti lo sapevano. Sapevano che s’imbarcavano in un’avventura. Oggi è diverso, ma allora non c’era neppure l’Università di Scienze enogastronomiche di Slow Food a Pollenzo, che nasce dopo. C’erano corsi di botanica, chimica, economia, un approccio abbastanza diverso.
Avete curato anche la parte Pr e uffici stampa?
Abbiamo coperto un po’ tutto perché c’era più domanda nel settore produttivo che nella scrittura. Ormai tutte le grosse ditte hanno persone che fanno pubbliche relazioni. Molti sono venuti al corso con questo specifico interesse, preferivano la parte più produttiva. Ho tenuto anche lezioni sugli eventi: all’epoca organizzavo iniziative come i Tre Bicchieri negli Usa e ho condiviso con gli studenti l’esperienza.
Da qui sono usciti professionisti della comunicazione, giornalisti, blogger. Ne segui ancora le tracce?
Alcuni fanno ancora qualcosa per il Gambero, ma lavorano anche per conto proprio. C’è chi lavora per Slow Food, chi per la Tv svizzera, c’è chi è diventato scrittore o scrittrice, chi è nei giornali o nelle agenzie di stampa. Quanto a me, dal 2009 vivo stabilmente a New York con cattedra alla New School. Ogni tanto tengo lezioni sparse sulla Storia della gastronomia come quelle che il Gambero mi ha chiesto lo scorso luglio per i suoi corsi a Bangkok.
Cibo e vino hanno invaso i media. Giornali, tv, siti, blog. Negli Usa il fenomeno impazza più che in Italia. Come giudichi, nel decennio, l’evoluzione del settore?
Conosco più gli Stati Uniti che l’Italia. Una cosa che ho notato è che prima dell’esplosione di questo fenomeno c’erano fonti con più autorità o autorevolezza. Riviste e guide che in qualche maniera attribuivano autorità a se stesse e ai propri scrittori anche attraverso la creazione di una comunità. C'era l’esperto che con la propria storia professionale acquisiva autorevolezza.
Adesso invece…?
Ora con la moltiplicazione di web site e social network tutti si sentono autorizzati a dare un voto, pubblicare una recensione, raccontare un viaggio. Scompare – almeno teoricamente – la figura dell’esperto e dell’opinion maker certificato. E i ristoratori impazziscono perché un qualsiasi Mr. X ha scritto che quel locale fa pena. Sono cambiate le regole del gioco. Ci sono blogger più rilevanti, altri meno. Alcuni di loro spaziano dal blog alla carta stampata alla radio alla tv, fanno tendenza, hanno una linea di pensiero, un seguito.
Attendibilità, sacralità. Sono in discussione?
Non parlerei tanto di sacralità, ma di autorità. E prima ce ne era più, oggi non è scomparsa del tutto, ma è controbilanciata da questa esplosione di sedicenti esperti, meglio: persone che vogliono esprimersi. Come quelli che vanno al ristorante e la prima cosa che fanno è una fotografia per Twitter…
a cura di Alberto Ferrigolo