Sempre schivo, mai sopra le righe, ore e ore in cucina, ai fornelli ma anche a pulire tutto dopo i servizi. Anthony Genovese, chef con grande e pesante curriculum alle spalle ed ex enfant prodige della cucina italiana, è sì un professionista fuori dai cori mediatici, ma è anche ormai un maestro di tanti astri nascenti della cucina italiana contemporanea. Che nel mensile di agosto del Gambero Rosso si raccontano. Qui un'anticipazione.
Anthony Genovese
“Non sono un oratore, tanto meno un predicatore” si schernisce Anthony. E non per falsa modestia. Lui, tra gli chef di gran rango, è effettivamente uno dei più defilati. Uno che limita le apparizioni allo stretto necessario e lascia di buon grado che siano gli altri a occupare il centro della scena. Ma poi è uno che si fa sentire, eccome, magari sulla distanza. E così risolve quel paradosso filosofico sul rumore dell'albero che cade ben maggiore di quello della foresta che cresce. Lo fa, perché anche se nessuno lo sente, sono gli alberi attorno ad assorbirne il fragore. L'eco del suo lavoro passa – ora e più che mai – attraverso una nidiata di nuovi protagonisti della cucina italiana contemporanea. Tra i grandi chef in attività, è il caso di collocare Anthony Genovese nel novero indiscutibile dei maestri (un caso analogo è quello di Gaetano Trovato). Lo dicono i dati, lo dicono i numeri.
I Genovese boys
Era il 2018 quando abbiamo cominciato a intercettare una traiettoria che univa alcuni giovani cuochi, tutti cresciuti nella fucina del Pagliaccio di Roma: un laboratorio che ha alimentato una generazione di talenti che abbiamo chiamato i Genovese Boys. Che riconoscono in Anthony il loro padre putativo. Un Maestro con la maiuscola, sì. Alessandro Miocchi, Giuseppe Lo Iudice, Jacopo Ricci, Piero Drago, Francesco Sodano, Antonio Ziantoni, Pierluigi Gallo, Ciro Scamardella, Federico Delmonte, con l'ultimo arrivato alla ribalta, Tommaso Tonioni. Ma prima ancora, a guardar indietro, ci sono Pino Lavarra e Andrea Accordi. Tutti cresciuti nella scuderia di Genovese e da lì hanno preso il volo verso destinazioni diverse, ognuno con un percorso personale e una direzione propria. Ma sempre afferenti a quella che si sta imponendo come una scuola. Una di quelle che spingono gli allievi a esprimere la loro individualità.
La cucina di Anthony Genovese
Lo incontriamo oggi, Genovese, nel pieno di una felice maturità, capace di equilibrismi inaspettati su quel filo invisibile che collega Calabria e Francia passando per l'Oriente. Valicata da poco la soglia dei 50 anni, ha saputo edificare una cucina personalissima, robusta, di grande prospettiva. Ed è quella, forse, che gli si riconosce, insieme alla nobiltà con cui ricama le sue giornate nel ristorante. Arriva per primo, va via per ultimo, come i veri Maestri. La cosa più importante? “L'esempio – risponde placido – Ci sono sempre, per cucinare ma anche per pulire, mettere a posto, sistemare la cucina. È una questione di responsabilità”, dice, minimizzando fino a far apparire normale quel che normale non necessariamente è.
Che effetto fa avere così tanti allievi di talento? Temporeggia, ma poi capitola: “È una soddisfazione enorme: ognuno ha la propria filosofia, ma tutti hanno percepito cosa significa fare il cuoco”. Ovvero? “Rispetto, tenacia”. E poi, lapidario: “Fare il cuoco significa non mollare mai”. Non avere paura di creare qualcosa, soprattutto in una città, come Roma, “che è un mondo ancora abbastanza difficile”. E lo dice a ragion veduta. Lui che ne ha subìto i capricci e le incomprensioni. Anni difficili prima che il suo Pagliaccio – nato nel 2003 – venisse accettato nel cuore di Roma e dei romani, con quella parabola anomala che racconta di luoghi lontani. E ancora oggi è il pubblico straniero a corteggiarlo di più.
Quale criterio consente una scelta così felice tra i molti che suonano il campanello di via dei Banchi Vecchi a Roma? “Sono casi della vita, a volte arrivano ragazzi che alle spalle hanno esperienze con altri chef, come Alessandro che era stato da Crippa, e già aveva maturato quella sensibilità verso l'ambiente, la campagna, il prodotto naturale. Altri arrivano direttamente dalle scuole, come Piero e Antonio usciti dalle aule dell'Alma, Tommaso invece era stato da me, poi andato in Francia da Gagnere, e infine è tornato qui”.
Lavorare al ristorante Il Pagliaccio
Come è lavorare al Pagliaccio? “Si sta bene nella nostra cucina – risponde convinto – ma non è facile: il fatto che io sia sempre lì per qualcuno è uno stimolo, sono un riferimento, ma per qualcun altro la mia presenza costante è una difficoltà”. Ma condividere tutto, dalle pulizie all'ansia di certe serate, è un collante che aiuta a creare una squadra solida. “Sono all'ascolto di quel che dicono i miei ragazzi, li seguo, li rispetto”. Una complicità che nasce davanti ai fuochi e continua, anche dopo. “Continuo a sentirli, li vado a trovare”. Ma non per influenzarli e soprattutto “non vado a giudicare” aggiunge con quel suo accento un po' così. Ognuno di loro è diverso, e ovviamente più passa il tempo più maturano la propria identità. “Antonio è il più classico, con una visione più 'Michelin' del ristorante, gli altri hanno un feeling più minimalista in alcuni casi rivoluzionario, da Jacopa trovo un'italianità decisa, per Tommaso vedo che è più pura e basata sul prodotto. Ma tutti stanno facendo bene”.
Il tocco di Anthony
E il tocco di Genovese? Dov'è? Dove ritrovi la tua impronta? “Nell'approccio alla creazione del piatto, quello ci unisce. C'è un nesso nel come viene pensato, credo, ma bisognerebbe sentire loro”. Repliche, mai, ma qualche piatto in cui trova un ricordo più forte dei suoi? “C'è, certo – sorride sornione – ma non dirò mai di chi. È inevitabile, soprattutto nei primi tempi”. Ma poi man mano ognuno mette più in luce la propria personalità gastronomica.
Contento di vedere questi suoi figliocci “fare bene”. “Sono sulla bocca di tutti, fanno un gran lavoro e hanno capito che significa aprire la porta ogni mattina”. Come fa lui, giorno dopo giorno. “Sono molto esigente con loro, come lo sono con me. Ma non sono un padre padrone”. Lo dice ridendo, definendosi più “un papà, pronto all'ascolto”. E pare forse questa la ricetta disarmante di un posto che sa far crescere i singoli e la squadra: “Alcuni di loro hanno portato moltissimo al Pagliaccio”, lo hanno fatto con idee, energia, ispirazioni, con una visione attuale che apre le porte al resto del mondo: “sono molto attento a quel che succede intorno a me – dice lo chef – per me è fondamentale sapere dove sta andando la cucina”. E i giovani, per questo, rappresentano una vena preziosa per nuove tecniche e nuovi pensieri verso i quali chef Genovese è curioso, attento, pronto ad accoglierne stimoli e suggestioni.
a cura di Antonella De Santis
foto di Alberto Blasetti
QUESTO è NULLA...
Nel mensile di agosto del Gambero Rosso trovate il racconto completo dove abbiamo chiesto ai “Genovese boys” di dirci il maggior insegnamento ricevuto, il ricordo più bello e il piatto o gli ingredienti che più rispecchiano la cucina di Genovese. In più un focus su come è la cucina di oggi secondo Genovese, su Turnè, l’altra faccia del Pagliaccio, e la mappa su dove trovare tutti i giovani chef che sono passati per la sua cucina
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