Seattle. Curiosiamo tra gli scaffali di un supermercato, troviamo un muro di kombucha. Sydney. Entriamo assetati nel primo convenient store, lo sguardo cade su una decina di bottiglie dai colori sgargianti: di nuovo, kombucha. La passione per questa diabolica bevanda l’abbiamo coltivata in viaggio. Mentre eravamo concentrati a promuovere il vino italiano nel mondo, l’abbiamo incontrata nei bar essenziali di Berlino, nei ristoranti più ricercati di Copenaghen o San Francisco, tra le colazioni delle grandi catene alberghiere. In Italia è molto meno nota, ma è solo una questione di tempo. Di mesi. Il movimento sta crescendo a ritmi vertiginosi: nell’alta ristorazione, nei bar, nell’homebrewing. A farla breve breve, la kombucha è un tè fermentato. La base di partenza è solitamente un tè nero, verde o oloong, lasciato fermentare con zucchero di canna e con lo Scoby (Symbiotic Culture of Bacteria and Yeast), un dischetto gelatinoso anche detto madre. Il risultato? Una bevanda viva, freschissima, dalla piacevolissima tendenza acida e moderato contenuto zuccherino: a dir poco dissetante. Una volta superato lo scetticismo iniziale, è difficile farne a meno. Almeno così è stato per noi. Segni particolari: durante la fermentazione si producono una serie di acidi e batteri preziosi, è analcolica (la versione alcolica è l’hard kombucha), è frizzante. Particolarmente apprezzata dalla generazione Z e tra i millennials, è a dir poco versatile, anche a tavola, ed è prodotta da un tessuto di giovani produttori che utilizzano lo stesso linguaggio di chi la consuma. I produttori di soft drinks industriali non possono dormire sonni tranquilli.
Un cocktail di leggende
L’origine della kombucha è un cocktail di leggende, anche alquanto inverosimili. La prima testimonianza di tè fermentato ci conduce in Cina nel 222 a.C., nella vecchia regione della Manchuria si menziona il “tè dell’immortalità”, dalle incredibili funzioni digestive. Quindi ci spostiamo in Giappone, si narra che nel 414 d.C. un dottore coreano, tale Kombu, curò l’imperatore Ingyo con un tè fermentato dai poteri magici. I Samurai nel X secolo l’assumevano prima di ogni battaglia e si narra che Gengis Khan la portasse sempre con sé nei suoi numerosi viaggi per rinforzare lo spirito dei suoi cavalieri. L’arrivo in Occidente sembrerebbe legato ai traffici della via della seta, con i soldati russi a giocare un ruolo importante, di ritorno dalla guerra con il Giappone. Fonti russe certificano la presenza dello Scoby a inizio 1900. Tra i consumatori eccellenti compaiono anche Stalin e Reagan: entrambi la utilizzarono per fini medici; leggermente improbabile il mito legato a un gruppo di anziani a Chernobyl che sarebbero sopravvissuti alle radiazioni nucleari grazie alla magia dello Scoby. In Italia il 1954 è ricordato come l’anno d’oro della kombucha. La copertina dalla Domenica del Corriere ne racconta un diffuso consumo domestico. Renato Carosone ci scrive sopra l’irriverente canzone ‘Stu fungo cinese’: “È giunta da Pechino int’ a’ ‘nu vaso ‘na cosa misteriosa, nun c’è bisogno cchiù di medicine, l’ha detto un mandarino, che l’ha purtata ccà!”. Ma la moda è effimera e presto se ne perdono le tracce.
La rivoluzione della kombucha per come la conosciamo oggi parte, tanto per cambiare, dalla California.
Il protagonista, tra il 1994 e il 1995 è George Thomas Dave, che riceve in dote lo Scoby da un monaco tibetano. Si convince che la guarigione della madre Laaraine da un tumore al seno sia anche merito del largo consumo casalingo di kombucha. Così, lascia la scuola e commercializza la prima manciata di bottiglie. Oggi la GT’s Living Foods ha una capitalizzazione di oltre 900 milioni di dollari e detiene circa il 40% del mercato nordamericano, di gran lunga il primo al mondo per la tipologia. Complessivamente nel 2023 il giro di affari globale della kombucha è valutato 3,4 miliardi di dollari, nel 2033 gli analisti di Future Market Insight Global prevedono un boom da 17,1 miliardi. L’esplosione ha portato colossi come la Pepsi ad acquistare uno dei marchi più noti negli USA, KeVita, mentre in Italia la Old Kombucha di Federico Citterio, la più produttiva azienda italiana di kombuhca, ha siglato nel 2022 una joint venture con il Gruppo Montecristo. Il potenziale volume produttivo supera le 100 milioni di bottiglie annue.
Piccoli produttori crescono
Per il momento, il tessuto italiano è alimentato da piccoli produttori che hanno iniziato da poco e viaggiano a ritmi spediti. La costante? Sono ragazzi e ragazze che hanno girato il mondo con uno sguardo curioso, per poi replicare la ricetta a casa e lanciarsi nella commercializzazione. «L’idea è nata al rientro dal Nordamerica dove l’avevo trovata ovunque. Ho iniziato con l’homebrewing, nel 2019 abbiamo allestito un laboratorio, siamo partiti in piena pandemia. Nel 2023 abbiamo prodotto 100mila pezzi, più del doppio rispetto al 2022 – ci racconta Stefano Zamboni della veronese Legend Kombucha – La kombucha va bevuta prima di tutto perché è buona, durante la fermentazione si formano una vasta gamma acidi (acetico, lattico, malico), batteri e lieviti che aiutano la digestione e rafforzano la flora batterica. Ed è ricca di vitamine del gruppo B, soprattutto B12, preziosa soprattutto per i vegani, e livelli alti di minerali e catechina».
Un rapporto dell’Università di Stanford in California del 2021 cita evidenti prove sull’arricchimento del macrobioma, rafforzamento del sistema immunitario ed effetto anti-infiammatorio sull’intestino. Ma sono tanti gli studi in divenire tra produttori e università italiane. La kombucha fa parte di un nuovo stile di vita con meno alcol, meno caffeina, meno zucchero (siamo tra i 2 e i 5 grammi di zucchero residuo ogni 100ml). Stefano consiglia di controllare sempre gli ingredienti in etichetta: «Se trovate estratto di tè non state bevendo una kombucha artigianale. E se viene pastorizzata o micro-filtrata si perde tutta la vitalità del prodotto. Per questo è fondamentale mantenere la catena del freddo, oltre i 15 gradi può continuare a fermentare, mangiando zucchero e producendo più co2 e alcol». La data di scadenza è indicativa, solitamente a 6/9 mesi, ma ben conservata può durare anche di più.
Il ritorno dopo 70 anni
Intanto, 70 anni dopo, sembra tornata la moda del ’54, tra le mura domestiche cresce il popolo dei kombuchisti. «Non è affatto difficile, bastano strumenti semplici, pulizia e un po’ di buon senso. Aggiungete un liquido starter oltre allo Scoby per dare il via e fidatevi del vostro naso e bocca. Anche il mondo della birra artigianale è partito da casa, abbiamo bisogno di un forte passaparola per far cresce il movimento», ribatte Beatrice Azzolina, brewer di Legend Kombucha, ai vertici nei nostri assaggi insieme a Pào Pào Kombucha di Antonio Iemolo, grazie uno stile di grande nitidezza e freschezza gustativa. Eclatante il successo di altri ragazzi partiti sempre in piena pandemia: Mia Kombucha, in provincia di Varese. «Cancelliamo la comunicazione che l’ha fatta passare come la cura per tutti i mali, ripartiamo dal meraviglioso prodotto che è. Siamo davanti a una rivoluzione fermentata, un’onda fortissima, basta vedere cosa succede nei ristoranti emergenti», racconta il co-fondatore Battista Maconi. Oggi i soci sono 65 e la produzione si è notevolmente ampliata grazie a un crowdfunding che ha raccolto 270mila euro partendo da una richiesta di 150. La loro cifra stilistica vede un’acidità contenuta, per versioni pop nel linguaggio e nella definizione, con materie prime italiane in aggiunta a tè cinesi non eccessivamente aromatici. Per un approccio ancor più integralista ci spostiamo tra le colline di Pescara con Fabio Ciarcelluti di Orti Geometrici, un passato da musicista a Londra. «Ho progettato un piccolo orto secondo i dettami dell’agricoltura sinergica, nella mia piccolissima azienda agricola coltivo ortaggi, frutta, alberi e piante officinali. La mia è una kombucha agricola con tè nero pu-erh dello Yunnah, cui aggiungo la materia che coltivo dal seme per dare un sentore del territorio». La kombucha di Fabio ha stile intenso e concentrato, effervescenza spiccata e personalità. L’avviso è chiaro: «Non dobbiamo replicare gli errori fatti in America, quando la grande industria per produrre centinaia di migliaia di bottiglie al mese ha microfiltrato e standardizzato. C’è kombucha e kombucha, un prodotto industriale morto e uno artigianale vivo, il consumatore deve esserne consapevole», avvisa. Il momento per bere kombucha? Qualsiasi ora del giorno, a lavoro, in un break, a tavola... è un jolly, perfetto anche per smaltire l’hangover: «Consiglio però di partire con un bicchiere o una piccola bottiglietta e vedere come ci si sente, poi aumentare gradualmente».
Percorso simile per Alessandro Oliviero, rientrato a Bologna dopo aver lavorato nei bar di Amsterdam e Londra, con un trascorso anche nel vino. Il suo progetto – Frui Lab – lega arte e sostenibilità: «Nasce nel 2020 sul principio del “vuoto a rendere”. Lavoravo come barista e assistevo a uno spreco assurdo di bottiglie a fine giornata, sono partito con un modello di business inverso. La kombucha è una fermentazione incompleta, istantanea, di un prodotto che dovrebbe diventare aceto, produciamo anche quello, mentre con gli scarti di produzione abbiamo creato un packaging per il sapone e realizziamo anche una pelle. Utilizziamo il 100% di tutti gli scarti organici e grazie ad artisti stiamo partendo con progetti innovativi», commenta.
Buona, ma non è un medicinale
«La kombucha fa bene, ma non è una medicina. Non enfatizziamo troppo gli effetti benefici, è ricca di antiossidanti e anti-infiammatori grazie al tè di partenza, noi stiamo lavorando su un concetto di terroir, sostituendo il tè con prodotti dell’Appenino come l’ortica e abbiamo creato una coltura potenziata con lieviti autoctoni». E parla franco, Alessandro: «La kombucha non ha storia ma vive di leggende, non è il vino. Di sicuro si è sviluppata fortemente in Russia e si è diffusa negli Stati Uniti per i suoi supposti esoterici, come medicina alternativa, per poi diffondersi grazie alla sua matrice contro-culturale. Da noi sta combattendo un certo scetticismo da parte dei ristoratori, ma la domanda cresce e troverà la sua via». Facciamo notare una certa vicinanza tra alcuni prodotti e vini naturali: «Abbiamo analizzato in laboratorio la temibile molecola del brett che si sviluppa a partire dal tè: è la stessa che si sviluppa con l’uva, cambia il medium ma non il risultato», sorride Alessandro.
«Mai visto tanto apprezzamento»
A Roma chi crede fortemente nella promozione e nei valori della kombucha è Giorgio Pace, titolare di Piccola Bottega Merenda, un Indiana Jones della biodiversità. «Ho iniziato a proporla nel 2016, oggi ne vendo tantissima: ragazzi, operai, persone stanche di bere le solite etichette. Il terreno è fertile, è appena nata la prima distribuzione italiana di sola kombucha, Amore liquido, in passato c’è stato un problema di comunicazione e mancanza di conoscenza di chi la proponeva. Non ho mai visto tanto apprezzamento come in questi mesi, il 2024 sarà l’anno della kombucha!», è la sua profezia. Giorgio organizza anche tour con i produttori per diffonderne la cultura al motto di “Don’t call me wine!”, per un bere diverso, artigianale, una declinazione che incontra il nuovo sentire low e no alcol. E anche la ristorazione si aggiorna, spuntano carte dedicate e abbinamenti audaci. Gabriele Bianchi, direttore del Relais San Martino di Martina Franca, è l’autore del libro Cacio, pepe e kombucha. «Le persone hanno bisogno di benessere e si spostano sempre più sull’analcolico con gusto. Chi beve kombucha è una persona informata, sa cosa sta bevendo. Io ci abbino un intero menu, si può giocare tantissimo, a partire dal tè di base più o meno delicato, le aromatizzazioni: è una nuova frontiera eccezionale, si sposa con tutto!».
Abbinamenti a 360°
Freschezza e acidità vanno a esaltare e prolungare il piatto che si assapora, noi l’abbiamo provata con grande successo anche sulla pizza. «Sta bene sia sulla cucina sperimentale che su quella tradizionale. Con un cacio a pepe ci sta benissimo la piccantezza dello zenzero, accanto a una bistecca alla fiorentina mettiamo una kombuhca con tè affumicato per dare pulizia e ricreare le sensazioni della brace. E provate la caprese con una variante ai frutti rossi, dolcezza e acidità andranno a braccetto». Alternare un abbinamento vino con la kombucha consente di arrivare in fondo al menu in totale scioltezza: «Ricordiamo anche il costo, mediamente 3 euro all’ingrosso, se la possono permettere tutti!», chiosa Gabriele. Siamo davanti a una nuova dimensione del bere. E qui, a differenza della birra, la seconda sorsata è sempre più buona della prima.
Kombucha e tavola, dove provare i pairing
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