«La gastronomia deve restare una meraviglia, una festa al servizio del cliente». E’ questa la ricetta di Yannick Alléno, chef recordman di stelle (tre stelle all’Alléno Paris al Pavillon Ledoyen di Parigi, due all’Abysse di Parigi e una al Pavyllon di Monte-Carlo, tra le altre) contro il logorio dell’alta ristorazione. Lo incontriamo nel corso del Festival des Etoiles all’Hotel de Paris di Monte-Carlo, un gala al quale partecipa anche il Principe Alberto. L’occasione per fare il punto sulla visione dello chef cinquantacinquenne di Puteaux.
Alléno, lei vede questa difficoltà ad accettare le liturgie dell’alta gastronomia? In Italia se ne parla tanto…
E’ sempre una questione di tempi, di tempi giusti e adattati alla contemporaneità. A seconda del Paese, della cultura, della voglia e dell’occasione della visita, il tempo che si vuole passare a tavola cambia di molto. In particolare per quanto riguarda l’Italia, è portatrice di una tradizione enorme e io credo che la generazione degli chef più giovani ha preso perfettamente coscienza di questi problemi e ha colto l’occasione per cambiare le carte in tavola.
Come immagina il futuro prossimo della cucina d’avanguardia?
La cucina deve prendersi carico della totalità delle sue componenti. E’ quello che io chiamo il ristorante quaternario (il salariato, l’impresa, il cliente, l’ambiente). Questa presa di coscienza mi ha condotto anche a ripensare bene i codici sia della cucina sia del servizio, in particolare con la Conciergerie de Table. Un concetto che ho sviluppato nel mio libro Tout doit changer (Tutto deve cambiare, ndr) e che permette di anticipare il più possibile la visita dei clienti riservando loro un’accoglienza ultra-personalizzata. E’ questo il futuro dei grandi ristoranti.
E la sua cucina? Come si è evoluta negli ultimi anni?
Mi sono sentito cuoco a quarant’anni, perché è allora che ho cominciato a esprimere davvero la mia personalità attraverso i miei piatti. Oggi vado sempre più all’essenziale, mi faccio più discreto dietro la bellezza del prodotto che voglio magnificare. Ho accantonato il processo delle estrazioni, che è diventato il fondamento delle mie salse, per trovare dei gusti giusti e franchi.
Come descriverebbe la sua cucina in tre parole?
Prodotto, salsa, modernità.
Quale dei suoi piatti considera quello definitivo?
Sarebbe una bestialità dire che il mio lavoro è terminato. Vorrebbe dire non sentire l’esigenza di guardare più lontano, di cambiare le carte. Al contrario io penso che sia importante continuare a essere in movimento, non cristallizzarsi. La cucina è in costante evoluzione.
C’è stata una volta in cui un’idea in cui lei credeva molto non ha funzionato?
Ma certo, non tutte le idee possono essere portate a termine o concretizzate nel tempo voluto. Ma io credo molto agli incontri che creano le opportunità, al "kairos" dei Greci, al momento giusto.
Siamo a Montecarlo, dove lei ha un ristorante e dove c’è una incredibile concentrazione di grandi ristoranti. Che significa lavorare qui ?
Gli chef hanno una piena coscienza della ricchezza del Mediterraneo, che ci offre una meraviglia in termini di pesci e di crostacei. Arrivare a Monte-Carlo vuol dire mettere a frutto la ricchezza di questo territorio, rispettarlo, e farlo conoscere ai nostri ospiti.
Montecarlo l’ha costretta a rivedere il suo approccio alla cucina?
Al Pavyllon Monte-Carlo noi traiamo ispirazione dal territorio locale e dalle tradizioni culinarie. A tutto ciò io aggiungo un tocco di modernità, propria della mia cucina e della mia sensibilità gastronomica. Come nella tarte Trouchia, fonduta di bietole al parmigiano.