Un principe dell’accoglienza, un maestro di sala che oggi potremmo chiamare di altri tempi ma che ha sempre avuto uno sguardo curioso e pragmatico nel capire e intercettare sempre i tempi nel loro mutare. Ci lascia a 88 anni Bruno Borghesi, mitico patron del Sans Souci e in ultimo direttore e grande cerimoniere del Mirabelle dell’Hotel Splendid Royal di Roma. Formatosi in Francia e nei migliori hotel del mondo oltre che d’Italia, ha fatto la storia dell’ospitalità moderna, mettendo in luce una professionalità fatta di cura e dettagli e di passione per il bello. Vi raccontiamo la sua vita attraverso le sue stesse parole, in una chiacchierata che Clara Barra fece con lui in occasione di un grande servizio del mensile Gambero Rosso dedicato proprio al lavoro di sala e alla sua crisi, già sedici anni fa*.
Bruno Borghesi si racconta
«Così insegnai a Roma il fascino di Francia»
«Alessandra mi scusi, mi sembra che quel faretto non funzioni bene... sì Rosa, quei vasi può metterli da quella parte... Giovanni no, non così... bisogna togliere le cose senza far rumore...» Non sfugge proprio nulla a Bruno Borghesi, classe 1934, amabile gentiluomo d’altri tempi in impeccabile doppio petto blu, che ci accoglie sfoderando sorriso e baciamano, gesto che gli è valso negli anni non pochi articoli sulle cronache mondane della capitale. Ma il suo modo di fare è naturale, non affettato, non studiato, come lo sguardo di approvazione e di orgoglio che si posa tutt’intorno, nelle eleganti sale della sua creatura, anzi della “sua fidanzata” come lui stesso definisce il ristorante Mirabelle dell’hotel Splendide Royal a Roma di cui è il direttore. O come i toni pacati con cui si racconta.
Bruno Borghesi è un’istituzione, è stato forse il primo a portare in Italia, o meglio a Roma città che lui adora, un certo stile nell’alta ristorazione, non solo dal punto di vista gastronomico ma anche e soprattutto dal punto di vista dell’accoglienza e dell’ospitalità, dell’educazione, del savoir faire e del buon gusto. Tante persone illustri si sono sedute ai suoi tavoli, un elenco infinito che solo in parte è possibile ricostruire dal libro degli ospiti: attori, ambasciatori, uomini politici, personaggi dello spettacolo, grandi imprenditori, rappresentanti della nobiltà più blasonata, calciatori... Ma Bruno Borghesi non si vanta di questo e preferisce che non si facciano nomi. «Non ho mai fatto entrare paparazzi o fotografi, non ho mai amato il pettegolezzo o il gossip, anzi, una delle doti principali di chi fa questo lavoro è la discrezione».
Fin da piccolo Bruno, cresciuto in un famoso e lussuoso albergo di Perugia (sua città natale) di cui lo zio era direttore, viveva l’atmosfera delle grandi “case”, le cene in cui sfavillavano cristalli e argenti, le sfilate dei cuochi che portavano i soufflé, e ne era rimasto affascinato. In più la nonna, capo governante e dama di compagnia delle nobildonne che soggiornavano in hotel, consentiva a Bruno di partecipare ai loro pomeriggi di incontri, fra un lavoro a maglia e un tè. «Seguivo le loro conversazioni, – ricorda Borghesi – imparavo tutte le regole del bon ton».
Poi per Bruno sono stati anni tristi, la guerra, la morte dei nonni e la lontananza dei genitori ma in albergo aveva conosciuto anche attori come Silvana Pampanini, che ancora oggi è sua amica, e aveva avuto qualche contatto con il mondo del cinema. «Ho cominciato a sentire sempre più prepotente il desiderio di venire a Roma e studiare all’Accademia delle Belle Arti – racconta – e i miei dopo una serie di resistenze alla fine cedettero».
Seguirono tempi in cui Borghesi ebbe delle piccole parti in alcuni film e addirittura, seguendo il suo impresario Renato Morazzani, si ritrovò a Saint Vincent. Grazie a degli incontri con persone di teatro, da lì andò a Milano dove aprì il primo locale, il Le Roi. Così il nome di Borghesi comincia a figurare sulla stampa, si succedono incarichi molto ben remunerati a Genova e a Firenze, e vacanze a Viareggio, in Germania, in Francia... La sua fama cresce, ma il più grande desiderio restava quello di mettere da parte i soldi necessari per aprire un posto tutto suo, non da dipendente, a Roma.
L’occasione arriva nel 1965, con un locale all’epoca di proprietà di Victor Tombolini, leggendario fondatore del Victor e del Cafè de Paris, due noti luoghi di ritrovo della Dolce Vita di quegli anni. Con l’aiuto di tanti amici, su tutti lo scenografo Giulio Cabras, finalmente Borghesi riesce a coronare il suo sogno e il 3 settembre di quell’anno, con una grande festa cui partecipa tutto il “bel mondo”, apre i battenti il Sans Souci, un ristorante con uno staff di 36 persone, un tripudio di argenti, candelabri e lume di candela, finissime porcellane, tovaglie di Fiandra, trionfi di fiori freschi, musica dal vivo. Il successo non tarda ad arrivare, e con lui i riconoscimenti delle guide, basti pensare che per anni il Sans Souci è una delle poche stelle Michelin della capitale.
«Mi sono sempre ispirato alla Francia, lì l’ospitalità è quasi una religione. Prendevo gente giovane che potevo far crescere e permeare sulla mia filosofia, anche perché è molto difficile correggere chi già sa fare ma in modo sbagliato – spiega convinto Borghesi – Ho sempre guardato tutto, dall’aspetto al modo di camminare fino alla maniera di parlare e di muoversi. Ho sempre puntato sulle persone che mostravano amore e passione per questo lavoro, non su chi lo faceva semplicemente per sbarcare il lunario o come “butta là”, come spesso purtroppo anche oggi capita di vedere. Di contro ho sempre avuto un grandissimo rispetto nei confronti dei miei collaboratori, non li ho mai chiamati camerieri, bensì i miei ragazzi, i miei assistenti. – prosegue – Ho cercato di trasmettere loro il valore dell’accoglienza, del rispetto, ma anche del calore umano, l’ospite ancor prima di mangiare bene vuole essere coccolato, vuole sentirsi importante – dice convinto - E poi ci vuole occhio per i dettagli, bisogna fare attenzione a dove far sedere la gente, a come trattare le persone. Per fare un esempio possono capitare clienti con la moglie e altre volte con l’amante, guai a mostrare eccessiva familiarità in questi casi, la “signora ufficiale” potrebbe insospettirsi!».
Chiusa nel 1999 l’esperienza del Sans Souci, Bruno Borghesi nel 2000 è stato chiamato alla direzione del Mirabelle direttamente dal proprietario Roberto Naldi. «È un uomo in gamba, che stimo molto, ci siamo intesi fin dal primo momento – rammenta Borghesi - e, pur essendo tornato a lavorare come dipendente, sono veramente felice di farlo per lui, è quasi come un figlio per me e lui ha in me una fiducia illimitata. Qui sono veramente contento, non ho più sogni da realizzare, ho sposato il mio lavoro, questo lavoro è la mia vita – conclude – Io rimango un uomo dell’Ottocento, la cucina che preferisco è quella di Bocuse, di Vergé, a mio avviso i più moderni sono sempre loro, gli altri non mi divertono... Eh... dal 1956 al 2006... è il mio grande giubileo! - esclama - Sono felice di quello che ho fatto e continuerò a farlo finché potrò, almeno finché le gambe mi reggeranno!».
* L’intervista è stata pubblicata nel mensile Gambero Rosso n. 171 di aprile 2006