Cinque anni fa, il 4 dicembre 2019, i giudici Ue (seguendo le posizioni dell’Avvocato Generale espresse il 28 luglio) sancirono che la protezione europea concessa nel 2009 all’indicazione geografica “Aceto Balsamico di Modena IGP” valeva solo nel complesso: questa non implicava cioè che le singole parti di quella proposizione fossero ugualmente tutelate. In particolar modo, che lo fossero le parole generiche “aceto” e “balsamico”, sia da sole che insieme, sia in italiano, sia in una traduzione. Da queste parti si gridò, come sempre, all’attacco dell’Ue alle specialità italiane, ma a guardar bene le cose non stavano affatto così, anche se nel frattempo molti interessi e anche qualche testata poco attenta non hanno proprio aiutato i consumatori a farsi un’idea più chiara sul tema. Proviamoci dunque e partiamo dall’inizio della vicenda legale.
Il caso dell'aceto balsamico tedesco
Il produttore tedesco (Balema GmbH), che ha dato origine alla pronuncia un lustro fa, è un’azienda che produce un condimento che viene commercializzato con etichette assai chiare rispetto all’origine e all’assoluta assenza di legami con Modena, nel caso specifico. Nella presentazione del prodotto in questione, infatti, si leggono le seguenti diciture:
- «Theo der Essigbrauer, Holzfassreifung, Deutscher balsamico traditionell, naturtrüb aus badischen Weinen»
(Theo l’acetificatore, invecchiamento in botti di legno, aceto balsamico tedesco tradizionale, non filtrato, ottenuto da vini del Baden)
- «1. Deutsches Essig‑Brauhaus, Premium, 1868, Balsamico, Rezeptur No. 3»
(1° acetificio tedesco, Premium, 1868, Balsamico, Ricetta n. 3).
Senza patria
Ma come? Un balsamico in Germania addirittura definito t r a d i z i o n a l e? Ebbene sì, basta intendersi sul significato di tradizionale. Anche in Italia, solo nel 1965 (Decreto ministeriale in G.U. il 3 dicembre di quell’anno), troviamo la prima norma sull’Aceto Balsamico di Modena. Essa si occupava di un prodotto derivante da mescolanza di mosto e aceto (non quindi a quello che è oggi il balsamico tradizionale, fatto nelle batterie di botticelle conservate familiarmente nei sottotetti, poiché quest’ultimo non aveva una destinazione commerciale e non si è mai fatto mescolando ingredienti ma con un unico ingrediente, il mosto cotto).
Il prodotto, secondo il decreto del 1965 si otteneva aggiungendo aceto vecchio oltre 10 anni (di cui non era prescritta la quantità minima) a mosto che avesse fermentato, eventualmente concentrandolo anche a fuoco diretto, e con l’aggiunta, a piacimento, di caramello (oggetto di una famosa lettera del ministro Acerbi risalente agli anni 30 del ‘900). Nessuna zona di produzione veniva delimitata; nessuna prescrizione di uve particolari o di particolare origine era prescritta: nel decreto era scolpita una ricetta, pertanto Modena indica una tipologia produttiva, non un’origine. Come l’aggettivo "napoletana" (o romana) usato per distinguere due modi di fare la pizza. A riprova di ciò, tra i maggiori produttori che si affermarono nei decenni a seguire c’era l’acetificio De Nigris, con sede e stabilimento in Campania.
La lunga strada del riconoscimento
Con una ricetta senza legami biunivoci con il territorio, per decenni l’aceto balsamico di Modena è stato prodotto un po’ ovunque, fino a quando, sulla scorta della creazione delle DOP e delle IGP anche in Italia si è deciso di delimitare la zona di produzione dello stesso, facendola coincidere con le province di Reggio Emilia e Modena, appunto. Quell’iter a ritroso, verrebbe da dire, si è compiuto con l’approvazione del regolamento Ue 2009/583: la zona dove la mescola di aceti e mosto deve rimanere per almeno sessanta giorni è stata definita, le tipologie di uve anche, ma ovviamente tutti coloro che producevano aceto balsamico prima hanno inteso continuare a farlo, anche se per loro è ovviamente stato vietato usare il segno “Modena”, che da quel momento in poi non indicava più un “metodo” ma un’area.
Che il processo di riconoscimento non fosse stato proprio indolore e che altri Paesi avessero una visione diversa del prodotto, per decenni realizzato “senza patria” e restrizioni particolari, lo testimonia la storia del riconoscimento. Quando iniziò l’iter per la tutela di questa IGP, nel 2006, alla sua registrazione si opposero, proprio in nome della genericità di parole come “aceto” e “balsamico” tanto la Grecia quanto la Germania, mentre la Francia lamentò – udite, udite! – l’ingannevolezza di avere sul mercato un “Aceto balsamico di Modena IGP” e un “Aceto balsamico tradizionale di Modena DOP” (quello che nasce dopo non meno di 12 anni di invecchiamento di un aceto ricavato da solo mosto cotto, travasato nelle batterie di piccole botti) sottolineando come il consumatore avrebbe avuto le sue belle difficoltà a distinguere i due.
Le parole sono di tutti
Nondimeno, l’Italia andò avanti per la sua strada e siccome il contenuto di una denominazione che sia candidata a un’IGP o DOP è questione interna al Paese membro (come riconosce sempre la CGUE nella sua sentenza), ciò che piacque a noi, con il Regolamento 583 del 2009 divenne norma. L’“Aceto balsamico di Modena IGP” fu tutelato, ma nei “considerando” (la parte che è premessa a tutti gli atti legislativi dell’Ue) rimase una significativa traccia delle opposizioni e su quella base, cinque anni fa, la Corte ha costruito la propria posizione, senza alcuno sforzo e soprattutto senza nessuna innovazione rispetto alla propria costante giurisprudenza in tema di protezione delle denominazioni di origine/indicazioni geografiche (il leading case, in tal senso, è la sentenza del 9 giugno 1998, Chiciak e Fol, C-129/97 e C-130/97). Il decimo punto del preambolo del regolamento che ha concesso l’IGP all’aceto balsamico di Modena non è facile da equivocare:
Ora, la protezione è conferita alla denominazione composta «Aceto Balsamico di Modena». I singoli termini non geografici della denominazione composta, anche utilizzati congiuntamente, nonché la loro traduzione, possono essere adoperati sul territorio comunitario nel rispetto dei principi e delle norme applicabili nell’ordinamento giuridico comunitario.”
Le parole “aceto” e “balsamico” sono di tutti, non possono essere considerate una evocazione di per sé: se non ci sono ulteriori elementi grafici o ambientali che suggeriscono un rimando all’aceto balsamico di Modena IGP, il solo uso di queste parole non basta a documentare un’evocazione e motivare un intervento che la reprima.
Errori italiani
Questa previsione era il baluardo alzato dalla Commissione Ue a difesa delle tradizioni di produzione di aceti balsamici nate in diversi paesi europei: segnatamente quelli in cui gli italiani aveva compreso ben presto che era più conveniente approvvigionarsi di materie prime, per realizzare la ricetta scolpita nel decreto ministeriale del 1965. Certo, se in allora si fosse richiesto un legame territoriale più stringente o l’uso di uve italiane per realizzare il prodotto, forse, non si sarebbe diffuso nel mondo il metodo di produzione (invero molto semplice e pochissimo rischioso) dell’aceto balsamico generico. Gli italiani prima hanno insegnato al mondo a fare l’aceto balsamico secondo la ricetta no-limits del 1965, poi, quando hanno ritenuto che convenisse maggiormente loro, hanno cercato di far tornare indietro la storia, restringendo non solo la produzione IGP agli antichi territori estensi, ma anche l’uso delle parole nel frattempo divenute comuni in quella associazione (aceto balsamico) per indicare un ingrediente agrodolce.
Il tentativo di chiudere la stalla con i buoi già per la strada si è infranto contro la caparbietà di un produttore tedesco che ha deciso di non abbassare la testa, dinanzi a un contenzioso legale. La sua battaglia per il diritto ha prodotto un risultato che già ne 2023 ha giovato un produttore di condimento balsamico in Friuli, a cui il Consorzio aveva intimato di smettere con l’uso del “pregiato” aggettivo.
Nel frattempo, dal 2012 l’aceto balsamico (anche di sidro) è una categoria legale in Spagna; dal 2014, lo è in Grecia e, come avete appreso negli scorsi anni, anche Slovenia e Cipro hanno chiesto di avere la possibilità, regolata e alla luce del sole, di fare aceto balsamico, sempre senza usurpare l’indicazione italiana legata a Modena e munita ell’IGP. Si producono balsamici in diversi altri Stati del Vecchio continente e questo segna al tempo stesso uno dei maggiori successi dell’innovazione gastronomica tricolore e uno dei maggiori rimpianti per un legame con il territorio che avremmo potuto coltivare diversamente.