La mattinata dell’Auditorium. Contaminazioni e viaggi nel tempo
Identità Golose, secondo giorno. E il congresso entra nel vivo. Ad accogliere la platea che affolla l’auditorium per una mattinata che si preannuncia generosa di big dell’alta cucina italiana e internazionale ci pensa ancora una volta Enrico Crippa. Lo chef del PiazzaDuomo si conferma altrettanto generoso nel presentare una sequenza di piatti calibrati nel minimo dettaglio, per esecuzione e mirabile gestione del tempo. E la squadra, i ragazzi che sembrano danzare alle direttive del maestro, sono la chiave di volta di una cucina che si alimenta della passione per un mestiere che non si accontenta di essere raccontato, ed è prima di tutto pratica costante, sorretta da un pensiero rigoroso. Che nel caso specifico è Un viaggio nel tempo in tre tempi, tre coreografie che sono tanto debitrici alla filosofia orientale – “del Giappone mi affascina la maniacalità per la materia prima e il livello altissimo di cucina, oltre al rigore delle gerarchie” – quanto al lavoro in Langa, tra l’orto di Alba e la memoria del territorio. Dall’Antipasto misto di primavera al gioco di Alla pasta ci giro attorno, alla rivisitazione del Mattone. Una scenografia impeccabile e accattivante che se da un lato ribadisce l’eccellenza del cuoco che l’ha concertata, dall’altro lascia poco spazio alla riflessione, col rischio di focalizzare l’attenzione sulla meraviglia del gesto e della perizia tecnica, più che stimolare il dibattito.
Ricevuto l’applauso caloroso della sala, il cuoco di Alba lascia il palco a Cristina Bowerman – viaggiatrice lei stessa che ha formato il suo percorso tra Italia e Stati Uniti - che si fa portavoce di un messaggio di inclusione che non è mai troppo ripetere. E la sua lezione, allora, gira intorno all’accettazione dell’altro come valore della diversità, con una contaminazione di tecniche che passa dal Viaggio in Cina del brodo di pollo alla coda alla vaccinara con mole messicano.
Il viaggio di Heinz Beck (La Pergola di Roma), invece, individua un territorio immaginario. Quello dell'evoluzione dell'uomo e del suo rapporto con il cibo. Che giunge a un grado zero: carne affumicata, semi, pane azzimo, distillato di verdure. Un incontro primordiale con il cibo che si risolve con il gesto semplice del mangiare, sena formalismi e senza sovrastrutture. Un semplice panino che contiene in sé tutta l'evoluzione della specie.
Paul Pairet e il viaggio nella percezione. La pizza di Massimiliano Alajmo. La libertà di Christian Puglisi
È già mattinata inoltrata quando con cappellino d’ordinanza fa capolino uno scanzonato Paul Pairet, che a dispetto della voglia di non prendersi troppo sul serio porta a Identità l’esperienza di uno dei ristoranti più esclusivi del pianeta, l’Ultraviolet di Shanghai. Quindi tra un cestino da pic nic, una canzone romantica e una grande dimostrazione di abilità tecnica presenta un viaggio nella memoria in tre piatti, che culmina con l’illusione di Tomato e Mozzarella, il gioco probabilmente più riuscito: due piatti identici - uno salato, l’altro dolce – che tra musica ed effetti speciali finiscono per rappresentare un viaggio nella percezione, ingaggiando una sfida con il commensale. Quando la parola spetta a Massimiliano Alajmo (un altro habitué del palco di IG), invece, il viaggio torna a farsi estremamente personale, con il racconto del Viaggio di Margherita. Nel 2015 il team di ricerca delle Calandre di Rubano ha ottenuto il brevetto per la pizza cotta a vapore, che ora si rinnova in forma di Maxcalzone, Maxcalzino e Centopezze (tutti progetti in attesa di essere brevettati). Tre modi diversi per fare ricerca sulla materia, sulla digeribilità degli impasti e sulla loro versatilità. E dimostrare che si può utilizzare il grasso per veicolare cariche aromatiche che valorizzano gli ingredienti e i loro tempi di cottura. Si lavora sul calzone tradizionale, donandogli uniformità in cottura e capacità di accogliere le farciture più varie, ma pure su una pizza a strati – che ricorda la texture di un centopelli – differente in forma, struttura e persino colore che rompe la monotonia della pasta in masticazione. Nessuna voglia di sostituirsi a chi il pizzaiolo lo fa di mestiere, per carità, ma Alajmo il suo messaggio lo ribadisce chiaro: “Esiste la cucina, senza distinzioni”. E allora è bello che il viaggio dell’innovazione possa proseguire senza limiti e barriere tematiche di sorta.
Chiude la mattinata l’omaggio a Umberto Bombana, che l’orgoglio della cucina italiana lo esporta nel mondo, dal suo apprezzatissimo ristorante di Hong Kong. E il momento di celebrazione si trasforma in opportunità per omaggiare un maestro della cucina italiana come Ezio Santin, che per primo ha avviato lo chef bergamasco sul percorso dell’alta ristorazione.
E non si distacca molto dall'idea di Alajmo, Christian Puglisi sul palco insieme a Jonathan Tam con cui condivide il lavoro in cucina a Relae di Copenaghen. Parla di libertà. Quella libertà dello scegliere il proprio lavoro e del modo in cui affrontarlo, senza vincoli, né limiti imposti da una visione predefinita. E testimonianza sia la sua continua voglia di fare e di sperimentare, anche diversi format ristorativi (e oggi è a 5 nella capitale danese).
Dentro e fuori il territorio
Il primo cuoco coreano a conquistare la Stella Michelin è innamorato della pasta, per avendo messo piede in Italia solo oggi per la prima volta. Si chiama Jun Lee (Soigné di Seoul) e rappresenta un esempio, allo specchio, di quell'attrazione tra Italia e Oriente che pare ormai irresistibile. “Non volevo fare la pasta, ma poi quando ho iniziato è diventata la mia ossessione” confessa spiegando il suo amore per certa gestualità. E racconta dei primi approcci negli Stati Uniti e del primo pop up tornato a Seoul. “Ero giovane e sfrontato e ho sperimentato tanto, a volte anche cose immangiabili: volevo dimostrare che potevo fare qualcosa mai fatto prima”. Definisce la sua cucina coreana, ma la sua mentalità nutrita negli Usa è aperta: “si può fare tutto e andare oltre la tradizione”. E così la forma italiana accoglie un gusto coreano: come nei ravioli (eredità dell'esperienza con Jonathan Benno) con il classico ripieno di fagiano con purè di castagne. O nei tajarin con salsa coreana all'aglio.
Da una parte all'altra del mondo, e ritorno: scambio di visite tra il campano Franco Pepe e la pizzaiola Sarah Minnick (Lovely Fifty-fifty) che tracciano la rotta della pizza d'autore da Caiazzo a Portland sulla strada della ricerca delle farine e degli impasti, dei lieviti e dei condimenti. Un percorso che ha visto l'uno incontrare l'altra e viceversa alla ricerca di quegli elementi comuni che li hanno fatti arrivare insieme sul palco di identità golose. La cura assidua ai grani, per esempio, che ognuno declina in modo diverso: fedeltà assoluta al proprio mix di farine per Pepe, continua sperimentazione per l'americana “come vedevo fare da mio padre” dice Pepe nel raccontare lo stupore di aver visto la Minnick gestire diversi sacchi di farina sotto al bancone dell'impasto. Rigore assoluto nella scelta di materie prime locali e stagionali (tanto da osare togliere la margherita in inverno, “perché a Portland il basilico è al massimo solo in estate” dice ancora la pizzaiola). La scelta di condire sulla pala, e poi uno sguardo comune che li ha portati a mettere a punto una pizza a 4 mani, ma divisi da un oceano. Solo attraverso foto e confronti, un viaggio che è stato, stavolta, solo un viaggio nelle idee.
Dentro, completamente immerso nel territorio: così Kobus Van Der Merwe (Wolfgat di Paternoster), per molti il Redzepi sudafricano, parte dai quadri commestibili per raccontare e consegnare ai suoi clienti quell'incredibile angolo di mondo che è la costa Occidentale sudafricana, il frammento individuato dal percorso in bici che fa ogni mattina per andare al lavoro che gli dona la materia viva dei suoi piatti. E lo fa attraverso le molte erbe, i pesci a noi sconosciuti, le piante come il fico dal sapore dolce-salato che ricorda il tamarindo. E le molte erbe aromatiche che confluiscono in paesaggi di sapori. Come nell'insalata che segna lo scorrere del tempo, di mese in mese e di stagione in stagione.
Il viaggio di Norbert Niederkofler (St. Hubertus del Rosa Alpina di San Casciano in Badia) si suddivide in varie tappe. La prima è quella legata al territorio e i suoi abitanti: piante, ortaggi, animali. Un trionfo di tesori che non vediamo quasi più “forse perché abbiamo troppe cose in Italia” e che invece sono da valorizzare al massimo e senza sprechi, per una cucina del rispetto. E il piatto che incarna questo passaggio è la tartara di coregone, dove tutto viene impiegato, perfino le squame (essiccate e fritte per dare il croccante al piatto), le lische e la testa, impiegati in un fondo (a dispetto di quanto comunemente pensato rispetto a questo pesce). Servono tutte le tecniche possibili per valorizzare la materia prima, ma servono anche scelte radicali, come quando decise di concentrarsi sul suo territorio “sono in montagna, cucino la montagna” dice. E questo pensiero è la sintesi di un'ulteriore tappa, quella legata alla paternità e all'esigenza di capire chi è e dove vive, e di costruire un'esperienza gastronomica capace di essere un valore aggiunto per chi si trova di fronte al panorama della Val Badia. E non sono restrizioni, ma spinte alla creatività per trovare, nell'ambiente circostante e nelle materie prime locali, quella che risponde alle proprie esigenze. Come per i contrappunti acidi (ritrovati nella frutta) o la necessità di impiegare alcuni prodotti che hanno una loro stagionalità durante tutto l'anno. L'esempio qui è quello del piatto di Trippa al latte, sanguinaccio con mele, pelle di latte (prima congelata e poi passata al cannello) e ribes. L'ultima tappa è quella che si declina intorno al piatto di oca: cotto con una tecnica giapponese della brace, accompagnato con orzo fermentato, collo di oca ripieno di frattaglie di oca, salsa di oca, in un piatto che ha un respiro etico, nel riconoscere la professionalità del fermentatore alla stregua dell'allevatore e del contadino, non di assumerne i ruoli egli stesso: “per me è importante che ci sia una faccia” dice, “io ci parlo e inizia il viaggio”.
La nuova cucina. Giovani talenti in viaggio
Fil rouge degli incontri della mattina: la necessità di fare squadra e il viaggio che porta i giovani chef dalle cucine dei maestri a una loro personalissima nuova cucina. Partiamo con quello messo in pratica dai giovani cuochi calabresi, tra cui Luca Abbruzzino (Ristorante Abbruzzino) e Caterina Ceraudo (Dattilo). E parliamo di Cooking soon, il progetto dei giovani chef in Calabria, che si fanno ambasciatori della loro terra nel mondo. Si sono uniti per valorizzare il patrimonio culturale, artigianale e umano che vanta l’agroalimentare calabrese, interpretando positivamente un territorio notoriamente difficile. Nasce dalla voglia di mettersi in gioco assieme, dimostrando anche la capacità di andare oltre all'egocentrismo. Caterina lo conferma: “Crediamo nella partecipazione, insieme alle aziende, ai piccoli produttori, agli enti, alle istituzioni, ai protagonisti che preservano ogni giorno con il loro lavoro i tesori di questa regione, ad un percorso comune”. Dichiarazione di intenti messa in pratica sul palco di Identità Golose con una ricetta che le appartiene, la frittata mare e monti, in cui la protagonista è la sardella. “Tutto nasce dal libro dedicato a mio papà (Roberto Ceraudo) 'Banchetto di nozze', che è una sorta di enciclopedia della cucina calabrese romanzata. Qui si parla della frittata e tra gli ingredienti compare la sardella. Quando l'ho letto, mi sono subito ricordata del suo sapore unico. Ma mi sono anche chiesta se questo sapore me lo sarei ricordato negli anni”. La sardella è una conserva tipica a base di bianchetti di piccolissima o media taglia, un prodotto su cui si basava l'economia di interi paesi della costa ionica calabrese. Prima del 2010. “Quando la Comunità Europea ha emesso un Regolamento (N. 1013/2010) volto a preservare alcune specie di pesce a rischio, tra questi c'erano i neonati del pesce azzurro (ovvero i bianchetti)”. Senza però fare dei distinguo, come spesso accade. “Con una biologa marina abbiamo appurato che con una formazione adeguata dei pescatori, un monitoraggio costante e regolamentando periodo di pesca e quantità pescata, si risolverebbe tutti i papabili rischi di estinzione”. Basterebbe organizzarsi insieme anche alle istituzioni. Ma torniamo al piatto: un uovo cotto a 65° C per mezz'ora con sfoglia e terra (farina e sardella frullata ed essiccata) e cicoria cotta a pressione per pochissimi minuti, con pochissima acqua, poi marinata in acqua e sale, “così dal punto di vista aromatico è come la cicoria cruda mentre la consistenza ricorda la cotta. È un insegnamento di Niko Romito. Da lui ho imparato a mantenere integro il prodotto, esaltando al massimo anche gli ingredienti poveri”.
Il ruolo dei maestri
E veniamo ai maestri di questi giovani chef. Onnipresenti in ogni intervento, tra ringraziamenti e sentita gratitudine. Con un positivo atteggiamento di umiltà diffusa. Non sappiamo se è grazie alla selezione fatta dagli organizzatori del congresso, ma la sensazione è che tra le giovani promesse della cucina italiana ci sia un ritorno all'umiltà e alla volontà di farsi in quattro. È quello che trapela dall'emozione visibile di Martina Caruso (Hotel Signum), sul palco di Identità insieme al fratello Luca Caruso. E dalle parole decise di Michelangelo Mammoliti (La Madernassa) che ha iniziato a lavorare in cucina al fianco dei nonni a soli 11 anni. “Devo tutto ai miei maestri, da Marchesi a Ducasse, a Stefano Baiocco (presente in sala). Da loro ho imparato a non lamentarmi, il rigore, la disciplina e il rispetto, per la materia prima e per gli altri”. Il suo piatto è frutto di tutti questi insegnamenti e rappresenta perfettamente il viaggio: si chiama Cubic ed è un raviolo quadrato, ripieno di anguilla, servito con barbabietola sotto aceto, albicocca fermentata in soluzione di prugne, spinaci.
Viaggio, maestri, gratitudine. Denominatori comuni anche dell'intervento di Riccardo Canella (Noma) che recita una poesia per presentare il suo piatto The dark side of the squid.
Un viaggio dal Veneto, regione d'origine dove peraltro ha incontrato Massimiliano Alajmo - “uno dei più grandi chef a livello italiano, con un approccio alla materia tradizionale e al tempo stesso fresca quasi come quella di un bambino. Le Calandre è il posto dove ho mangiato meglio nella mia vita”– a Copenaghen, dove ha conosciuto il suo attuale maestro René. Ma anche un viaggio interiore che (ri)porta alla tradizione: “Il futuro è il ritorno alla tradizione. Come diceva mia nonna: se vuoi sapere dove vuoi andare devi conoscere da dove vieni”. Sul palco presenta un calamaro (ricordo del piatto veneto: la seppia al nero) crudo spennellato con un garum di calamaro, nero di seppia, e una pasta di maitake. Con una riduzione vegetale, limone, radici di prezzemolo con olio di radici di rabarbaro, aglio nero, sale di alga arrostita, salsa al prezzemolo.
Partire verso la libertà
La nuova cucina è anche quella che viaggia dalla strada maestra alla rivendicazione della propria libertà espressiva. Sono tutti giovanissimi gli chef che si alternano sul palco della Sala Blu nella scaletta pomeridiana per spiegare cosa significhi avere il coraggio di metterci la faccia, e l’anima, al giorno d’oggi. Molti hanno maturato precocemente l’amore per la cucina, figli di grandi famiglie della ristorazione italiana. Altri, questo percorso, l’hanno incrociato in un secondo momento, sviluppando pure una consapevolezza per il territorio in cui sono cresciuti da cui non può prescindere l’affermazione della propria personalità. Tutti però hanno in comune la predisposizione a viaggiare, quell’apertura mentale e l’attitudine al sacrificio che li ha resi particolarmente maturi sin da giovanissimi, abituati a muoversi in grandi brigate, capaci di equilibrare l’esigenza di condividere un obiettivo comune con il desiderio di emergere (senza prevaricare gli altri). Che poi è la spinta che fa la differenza: occhi ben aperti per cogliere ogni insegnamento del maestro, fiducia incondizionata nel lavoro di squadra e insieme affinamento di quella capacità critica necessaria per spiccare il volo. In questo senso, è la storia “over quota” di Marta Scalabrini– oggi chef patronne di Marta in Cucina a Reggio Emilia – a imporsi come modello: il distacco è il tema fondante del suo viaggio, dalla cucina di Marco Stabile verso “una città da fondare” secondo le proprie regole. Con quella propensione al rischio che rappresenta la forza della libertà: “Ti voglio bene, ma me ne devo andare”, come Enea davanti alle promesse di felicità di Didone. Distacco straziante che si stempera nel piatto presentato sul palco, sgombro, rapa rossa e finocchietto per raccontare un gioco intellettuale nelle premesse (la metafora tra il viaggio di Enea verso la fondazione di Roma e quello di un giovane cuoco) e convincente nel gusto. Marta è arrivata alla cucina con un po’ di ritardo – a 27 anni – ma oggi, a 34 anni, rivendica con forza la voglia di esserci, perché “quello che cerca l’ha nel cuore”, come diceva Guccini in una sua canzone.
Il legame di sangue, dal Salento all’Abruzzo
Più a Sud, in quel Salento che fa fatica a trovare un’identità gastronomica contemporanea, i giovanissimi Bros– Floriano e Giovanni Pellegrino con l’inseparabile Isabella Potì– non fanno neanche 90 anni in tre. E da poco più di un anno si sono fatti motore del proprio territorio – “pensiamo globale, facciamo locale” - dopo aver viaggiato nel mondo per formarsi nelle cucine dei grandi maestri. Il palco lo padroneggiano come pochi, abili comunicatori e cuochi d’esperienza, nonostante la giovane età. E al pubblico di Identità presentano un Sanguinaccio Royalrealizzato live, che oltre a omaggiare la terra in cui sono nati (“abbiamo studiato da un macellaio come realizzarlo, istruiti da un gitano seconda la tecnica tradizionale”) sceglie l’impatto visivo per rappresentare il legame di sangue che li unisce. Lo stesso che lega i gemelli Spadone, figli d’arte di una grande famiglia della ristorazione abruzzese, alla guida de La Bandiera di Civitella Casanova. L’attitudine sul palco dei due ragazzi è molto più schiva, ma la scintilla che scaturisce dal legame che li unisce si rivela con forza durante l’esecuzione di un piatto buonissimo, che esalta la materia prima locale – il pollo dell’azienda Del Proposto – con la tecnica magistrale appresa da Mattia alla scuola dei fratelli Roca (mentre Alessio, suo fratello, si faceva le ossa in sala all’Enoteca Pinchiorri). Il viaggio verso l’Abruzzo si rende quanto mai doveroso nel momento in cui è più forte il rischio che si spengano i riflettori su una regione così ricca di storia gastronomica e prodotti eccellenti. Loro, con il supporto di mamma e papà, ne sono ambasciatori eccellenti, e sorprende, oltre alla perfetta sintonia (“assaggio tutti i piatti di mio fratello quando li crea, e so come raccontarli ai clienti”) la concretezza con cui si approcciano alla pratica della ristorazione, dall’approvvigionamento delle materie prime alla gestione del cliente.
Territorio, prodotti e fatica
La stessa maturità la porta sul palco Matteo Metullio, chef de La Siriola, che nel 2013 è stato lo chef stellato d’Italia più giovane di sempre. Oggi, a 28 anni, affronta la gestione del lavoro in cucina come gli è stato insegnato dal maestro Niederkofler: rigore altoatesino per concertare un meccanismo perfetto. E capacità di sfruttare a vantaggio proprio e del commensale quell’amalgama di personalità, provenienze, culture che si ripropone in ogni brigata. In fondo anche questo vuol dire viaggiare, attraverso gli incontri in cucina. Suo il gioco sul chilometro vero: uno Spaghetto freddo a km 4925, la somma della strada percorsa dagli ingredienti che finiscono nel piatto, dagli scampi pugliesi di Porto Santo Spirito alla colatura di alici campana, dal basilico al pomodoro. Ma la nuova cucina italiana è anche pizza, con il 25enne Stefano Vola (allievo di Gabriele Bonci), da Santo Stefano Belbo, che l’amore per le sue Langhe lo mette in teglia – con un impasto arricchito da nocciole piemontesi – e nella scelta di fare rete per promuovere il lavoro contadino, la fatica di svegliarsi prima dell’alba, il gusto autentico del territorio.
Identità di pasta: Occidente-Oriente e ritorno
Sono 8 anni che dal palco di Identità Golose si ragiona sul piatto simbolo dell'Italia. E in questi 8 anni non sono mancate provocazioni nella quali la pasta è stata interpretata in modo nuovo, lavorata, stressata, talvolta maltrattata, per evidenziarne potenzialità ancora inedite. Lo dice Matteo Baronetto (Del Cambio) quando spiega che la difficoltà di misurarsi con un prodotto iconico come la pasta racchiude in sé la messa in luce di caratteristiche magari minime non ancora scoperte. E le caratteristiche si muovono dentro-fuori la tradizione. E dentro e fuori i confini.
C'è tanta Asia, in questa mattinata dedicata alla pasta. C'è nell'intervento di Carlo Cracco, (che annuncia l'abbandono della tv per affrontare il nuovo impegno) che spinge il pedale della ricerca dei sapori negli Spaghetti con salsa di tè verde matcha, wasabi e bottarga, e c'è – come prevedibile - nell'intervento di Luca Fantin del Bulgari di Tokyo che firma una magnifica cucina italiana a partire dal 90% di prodotti locali, cercati fin negli angoli più remoti del Giappone, come testimonia il libroLa cucina di Luca Fantinche segue le tracce del suo girovagare alla ricerca di prodotti sconosciuti agli stessi giapponesi, che possono interpretare la cucina tricolore in modo fedele. Si tracciano così le tappe di un viaggio nella materia prima che è anche un viaggio alla ricerca della materia prima e delle sue variazioni stagionali, in cui ha messo insieme ben 200 fornitori. L'incontro di sapori e di culture si risolve con l'Insalata di pasta, per la quale usa la pentola in cui in Giappone si prepara il riso, e ci cuoce i ditalini in un brodo intenso di frutti di mare (in proporzione di 2:1) fino a completo assorbimento. L'obiettivo è valorizzare la pasta di piccolo formato (riscoperta per i suoi figli) che trova poco spazio nell'alta cucina. Si ottiene una pasta slegata, ideale in insalata, arricchita da king crab, ricci di mare, uova di salmone, verdure amare e dressing di erbe fermentate, e portata in tavola direttamente nella pentola da cui attingere liberamente, per lo stupore dei clienti di un locale così lussuoso. Un'idea di convivio e condivisione che si affaccia sempre più di frequente nelle grandi tavole di mezzo mondo.
Ma l'oriente entra, a sorpresa, anche nell'intervento di Ernesto Iaccarino che parla con convinzione di identità familiare, mediante il bel video che ripercorre la storia degli Iaccarino attraverso 100 e passa anni, raccontando le numerose attività, dentro e fuori dall'Italia, a San'Agata ai Due Golfi e alle Pieracciole, l'azienda agricola di 8 ettari di famiglia. Ma il radicamento in un territorio da solo non basta: “la cucina è anche contaminazione”. E detto da uno che celebra la tradizione fa riflettere: “oggi sembra che la cucina sia usata per mettere dei muri. Invece la cucina è apertura”. Anche perché, aggiunge: “ci sono tante grandi cucine nel mondo. Non solo quella italiana” e lui ne mette insieme tre, nel suo Dumpling mediterraneo: quella nostrana, quella orientale del raviolo, e quella mediorientale del gelato di fagioli. Un omaggio alla Cina in cui gli Iaccarino, da 10 anni, hanno a Macao un loro avamposto di mediterraneità. Il dumpling ripieno di verdure è laccato con una demi glace vegana con la carrube a sostituire le ossa, con un concetto più contemporaneo di bontà e sostenibilità. Ma anche la sua aglio, olio e peperoncino con salsa tonnata e sgombro marinato svela nuovi paesaggi e rimandi territoriali.
Note giapponesi anche nel piatto di Anthony Genovese (Il Pagliaccio). Nato in Francia, da genitori calabresi, ha lavorato in Giappone, Thailandia, Malesia, Cina. Chi meglio di lui poteva parlare di viaggio? Un viaggio tra i luoghi ma anche personale, verso una italianità che ha dovuto sudare e dimostrare. Con grande apertura nei confronti delle altre culture e tradizioni. Sul palco di Identità porta delle pacote (questo il nome dei mezzi paccheri Felicetti) cotte al vapore. Una cottura classica Giapponese, all'interno di un cartoccio fatto di alga kombu, attraverso la quale la pasta non assorbe tutta l'umidità, e se anche tende a gelatinizzarsi, non essendoci un ricambio, l'effetto finale è una sorta di vetrificazione. Una reazione che dà alla pasta struttura e consistenza completamente diverse. Il piatto si completa con fegato di merluzzo - “conosciuto dopo un viaggio in Norvegia”- ostriche, acciughe e brodo di radici (radici bruciate nel camino e acqua) e zenzero bruciato “che chiude il sapore del brodo, regalando affumicatura, dolcezza e piccantezza”.
Tradizione e classicità 2.0
C'era una volta la cucina delle grandi riunioni familiari intorno al tavolo, dei piatti importanti e delle tradizioni borghesi. La cucina degli aspic o dei prodotti pregiati. È una cucina che ancora resiste e trova nuove aperture che, dall'altro lato della bilancia rispetto alla seduzione esotica, si traducono in versioni aggiornatissime eppure a loro modo fedeli di quelle pietanze. Lo fa Fantin nella pasta con una bottarga prodotta con tecniche che rubano intuizioni dalla grande tradizione italiana e nipponica, molto più delicata della nostra. O Cracco nei suoi Fusilloni con burro affumicato e pepe di Timut col burro che rimanda alle cucine di impostazione classica, in abbinata al parmigiano e con l'aggiunta del pepe. Un piatto che seduce con la familiarità dei sapori, e conquista con inaspettate sfumature. E lo fa Baronetto nel suo aspic di spaghetti (pasta in doppio condimento, con sugo di carne e con peperoncino a mitigare la spinta grassa, attorcigliati insieme e immersi in una gelatina neutra con semi di olive). Ma un esempio sono anche i Sedanini Mistery cotti nella zucca all'interno dell'utensile-scultura di Andrea Salvetti. Solo apparentemente trasgressivi perché gli oggetti del designer già sperimentati da Paolo Lopriore (cui Baronetto riconosce la primogenitura nell'uso: “noi cuochi non dobbiamo aver timore a usare strumenti che usano già altri colleghi perché ci sono visioni differenti” spiega “è l'identità di ognuno che dà la libertà”) riportano in tavola la cucina di convivialità e condivisione. Le grandi ceramiche di servizio e le casseruole da cui attingere. Lo dimostra anche Massimo Mantarro di Taormina (dove guida i tre ristoranti del San Domenico Palace: 20 persone in cucina e 28 in sala) che punta tutto al territorio e alla stagionalità, con piatti generosi e pieni di sapori e di aromi. Al Principe Cerami, gourmet dell'albergo ospitato in un ex convento del '400, si alternano suggestioni rubate a quel territorio così ricco: triglia, carciofi e mandarini tardivi. Ma anche seppia e nero di seppia. In un carosello di sapori che ritraggono un paesaggio che è quello che dalla terrazza del loro ristorante gastronomico abbraccia dall'Etna al Teatro Greco di Taormina, in un passaggi tra erbe aromatiche, ortaggi frutta e pesci presi nel loro variare mese dopo mese.
Nel pomeriggio gli interventi di Eugenio Boer (Essenza), Mauro Colagreco (Mirazur), Luciano Zazzeri (La Pineta). Con lo chef di Essenza che provoca e presenta la Carbonara Smile. “Ogni volta che esco dall'Italia mi capita di vedere nei ristoranti delle carbonare al limite del decente. Così ho voluto fare anch'io la mia versione”.Il piatto dello chef è una provocazione: una bavarese fatta con il grasso del guanciale e il condimento classico della carbonara, più la panna (“Mi sono detto: se la devo fare male, la faccio male veramente”). Ad accompagnare la bavarese pasta stracotta, disidratata e fritta, con due cubi di guanciale.
Colagreco porta un piatto che racchiude il presente (francese) e le sue radici sudamericane e abruzzesi. “Quest'anno sono andato a Guardiagrele, il paese dei miei nonni, e ho assaggiato tutti i prodotti locali, tra cui un formaggio di capra con la lavanda. Così oggi porto un pacchero ripieno di caprino e lavanda proveniente dalla Costa Azzurra, accompagnato da una specie di parmantier preparata con patate viola(sudamericane), porri, brodo e latte dove è stata in emulsione la lavanda”. Zazzeri incanta la platea con la sua spontaneità, l'enorme conoscenza in fatto di pesci: sa riconoscere un pesce pescato a rete da uno pescato con la canna per via della consistenza; quello a rete ha la carne molto più frollata. Sul palco prepara gli spaghetti con le acciughe, marinate con aglio, olio, peperoncino, prezzemolo, e i fegatini di pollo.
Ritorno al futuro
Chiude la giornata di Identità di pasta il grande Davide Scabin (Combal.Zero), ovvero uno che ha sdoganato la pasta nell'alta cucina, rendendola degna di essere presentata ai congressi o di comparire sulle tavole delle cucine d'autore. Apre il suo intervento raccontando una storia, scritta da lui, su quel che sarà nel 2.400. Ovvero un ritorno, da parte di una popolazione assuefatta di realtà virtuale, sapori tutti uguali e cibi ogm, a una vita vera e a cibi biologici. “È un viaggio verso “Atavica” perché la tradizione non è lontana, ma si muove con noi e cambia continuamente. Oggi, per esempio, prendo tre piatti della tradizione, li metto assieme e ne faccio un mio piatto. Unico nel suo genere. Un po' come fanno i bartender che mixando Vermouth rosso e Campari creano il Milano Torino”. Ecco dunque la Caciocarbogene, una pasta cacio e pepe (dove al posto del pepe c'è il garofano), carbonara (con uovo cotto per un'ora e dieci a 62° C, rotto e condito con olio all'anice e sale grosso) e genovese di agnello. Un oltraggio a pubblica tradizione? Assolutamente no:“è un piatto divenuto mio sfruttando la tradizione italiana”.In questa nuova linea “atavica” Scabin ha eliminato tre elementi caratteristici della cucina cosiddetta contemporanea: i piatti diversi per ogni portata (“Al Combal.Zero usiamo un unico piatto per tutto il menù”), i germogli e i fiori (“che usiamo solo ed esclusivamente per un dolce a cui serve il tannico”). Alla fine del suo intervento, e della giornata, annuncia anche di essere stato ingaggiato da Hervé This come ambasciatore della cucina Note by note, insieme ad Andrea Camastra, di cui vi abbiamo parlato qui.
Identità Golose 2017 | Milano | Mi.Co. | via Gattamelata | www.identitagolose.it/
a cura di Annalisa Zordan, Antonella De Santis e Livia Montagnoli
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