Identità Golose 2014 report giorno 3. La Thailandia e il mortaio

12 Feb 2014, 10:26 | a cura di
La nazione ospite della decima edizione di Identità Golose è la Thailandia. Un racconto che mette in scena la cultura gastronomica locale tra tradizione e contaminazione, presenta magnifici piatti, crea connessioni tra Oriente e Occidente. Palesa ingredienti e racconta usi casalinghi. Eccoci alla terza giornata di Identità Golose.

È difficile racchiudere in una sola mattinata l'identità gastronomica di una nazione come la Thailandia, paese ospite di questa edizione del decennale di IG. Difficile raccontare i mille ingredienti e le declinazioni delle diverse regioni, la tradizione e la contemporaneità di una cucina tanto raffinata e complessa. Difficile tracciarne una mappa da questa parte dell'oceano, con una visuale necessariamente ridotta che ci consente di leggere più facilmente i legami con le altre tradizioni asiatiche che non gli elementi in comune con la nostra.
C'è però una traccia che ci indica un percorso, e prescinde da tecniche e ingredienti, da latitudini e strumenti, ma arriva direttamente nelle cuore delle persone e stringe una legame con l'Italia e, non solo. Perché se c'è stato un concetto ricorrente, in questi tre giorni di convegno, è stato quello della cucina di casa. La cucina delle nonne, le ricette della tradizione. In una parola: identità, quella identità che parte dalla storia di un'intera regione del mondo per arrivare, per centri concentrici, a quella della singola famiglia. Ci si muove per approssimazione, per rifiuto o per recupero, ma dalla propria identità non si prescinde. Così, partendo da questo assunto, scopriamo connessioni e sveliamo differenze. Quella thai è una cucina di aromi e di contrasti, di spezie e erbe aromatiche, di piccante e dolce, una cucina di equilibri, di bilanciamento tra i cinque gusti, una cucina di ingredienti e biodiversità. Ma anche una cucina di armonia e musica, e ne abbiamo avuto prova in questa mattinata in cui la musica in scena era quello dei mortai, fidati strumenti di ogni chef tailandese, indispensabile per estrarre aromi profumi e sapori dagli ingredienti. Ognuno degli ospiti del convegno è arrivato a Milano portando il proprio.

Lo start è con Chumpol Jangprai che iniziaa raccontare la sua cucina. Lui, ambasciatore della tavola thai nel mondo con il suo BlueElephant (che include ristoranti e scuola di cucina di portata internazionale) racconta saperi e sapori del suo universo tailandese. Lui apre le danze, lancia i ritmi e i sapori, chiama in causa la cucina italiana, contamina e adatta ricette tradizionali, racconta similitudini e affinità. Dopo di lui è Prin Polsuk, del Nahm del Metropolitan by Como hotel di Bangkok (trasferitosi qui dopo anni nell'ultra chic quartiere di Belgravia a Londra) a portare sul palco la cucina materna e le ricette di antichi libri, le declinazioni delle diverse regioni (nello specifico del nord della Thailandia, la provincia di Chiang Mai), rivela le connessioni con la cucina cinese, cui si deve tanto street food in Thailandia e parla dell'ordine classico di servizio delle portate come l'avvicendamento tra piatti più o meno piccanti o l'uso della zuppa a fine pasto. Quest'ordine, che è proprio quello dei pasti di casa, è rispettato nel suo ristorante che pur trovandosi in un grande albergo si mantiene fedele allo stile casalingo, predilige l'uso di ingredienti autoctoni e ingredienti veri (altro punto chiave degli interventi del convegno). Presenta un curry vegetariano senza latte di cocco, dove dolcezza e sapidità sono regalati unicamente dalla materia prima, e poi un relish da una ricetta materna, che usa la parte più grassa della carne di maiale e i pomodori, in origine un tipo bianco piccolo e molto acido tipico del nord della Thailandia, in questo caso pomodorini comprati al mercato in Italia, e crea così, con semplicità, un richiamo al nostro ragù, anch'esso piatto casalingo. Rivela però l'ingrediente segreto: una pasta e fagioli fermentata, tipo un tofu fagioli, ovviamente del nord del suo paese (e il pensiero va al lavoro di Kobu Desraumaults che ha occupato il palco il giorno prima).

Henrik Yde, del Kiin Kiin di Copenhagen, incarna la contaminazione, patron di una manciata di ristoranti asiatici contemporanei (uno anche a Bangkok). È un sostenitore del naturale e del fatto in casa, a partire dalla salsa di ostriche e di cavoli fermentati (ecco il ritorno della fermentazione), della cui preparazione ha dato dimostrazione a Milano. Allude a tecniche francesi, e parla anche lui delle modalità di consumo dei pasti, con il piatto comune che sostituisce quello individuale di tradizione occidentale, parla di acidità e degli ingredienti per ottenerla, di umami, di materie prime differenti tra Europa e Asia. Parla anche dei suoi ristoranti, il gourmet (che usa i dei tagli più nobili di ogni materia prima) e i bistrot, della formula doggy bag per eliminare qualsiasi ingrediente residuo e avere ogni giorno un prodotto freschissimo. E anche questa è una golosa intelligenza.

Chiudono il focus sulla Thailandia gli irresistibili Dylan Jones e Bo Songvisava, coppia multietnica (australiano lui, tailandese lei, conosciutisi a Londra). Vivace, divertente e comunicativo duo del ristorante Bo.lan a Bangkok. A suon di battibecchi Sandra&Raimondo style raccontano la loro cucina che parte dai temi cari alla filosofia Slow Food, di cui abbracciano impostazione e istanze: sostenibilità, attenzione alle tradizioni agricole, al lavoro artigianale, biodiversità, il tutto messo in scena attraverso un divertente carosello, una carrellata di ingredienti e aneddoti, dalla mini melanzana locale (che il moderatore finisce per mangiare, cruda) allo zucchero di palma raccolto fresco due volte al giorno, ogni giorno da sole tre famiglie, fino al curioso agrume, a metà tra mandarino e lime. Recuperano ricette antiche, preparano live il relish di olive nere e peperoncino, e la pasta base per il curry verde nella versione originale thai (senza lime e senza foglie di coriandolo), spiegano tecniche e materie prime, giocano e raccontano anche un po' della loro vita quotidiana, anch'essa frutto di contaminazioni e di un azzeccato mix di identità. Anche loro, come tutti gli chef che li hanno preceduti, impostano la loro ponencia al ritmo frenetico del mortaio e de pestello. “Al ristorante ne abbiamo uno grande così” dice Dylan Jones “e il pestello arriva a pesare otto chili”. “E se ti sbagli e lo rompi” aggiunge Bo Songvisava “fanno sette anni di sfortuna”.

www.identitagolose.it

a cura di Antonella De Santis

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