Quarantottenne milanese, Giandomenico Frassi familiarizza con la macchinetta fotografica regalatagli in terza media e poi continua, quasi per caso, dopo il diploma, ovviamente con l'analogica. Sostiene che quelle di oggi non si possono chiamare foto, ma immagini digitali, file che contengono il massimo delle informazioni possibili e posticipano la responsabilità della scelta. Dice così, ma poi scatta con una digitale. Perché? Perché gli piace tantissimo.
Quando hai cominciato?
Ho cominciato, come spesso mi succede, un po' per caso. Come regalo di terza media ho ricevuto una macchinetta con la quale ho iniziato a giocare. Una volta diplomatomi avrei voluto fare lettere, però una regola non scritta in quegli anni per gli usciti dal classico, obbligava l'iscrizione a legge. Io non ne avevo la minima intenzione così ho cominciato ad informarmi su eventuali corsi di fotografia. Un giorno ho accompagnato un amico di Genova allo IED e lì ho scoperto che facevano dei corsi che mi interessavano, ma un amico di famiglia, che era direttore di un giornale, mi propose di fare l'assistente in uno studio fotografico. Avrei dovuto starci un mese, ci sono rimasto quattro anni. Ecco come ho cominciato.
Poi?
L'idea di fare l'università non mi ha mai abbandonato così, dopo quattro anni, ho fatto lo studente per un anno ma il destino ha voluto che ricominciassi a lavorare. Questa volta per motivi sentimentali: avevo bisogno di soldi. Lei viveva all'estero e i voli low cost ancora non esistevano, ora lei ha tre figli a Parigi e io due qui a Milano.
Che strumenti utilizzavi?
Lavoravo con il banco ottico 10x12 cm. In quel periodo si facevano 3 o 4 foto al giorno, era tutto molto più complicato. Qualcosa lo si faceva con il Nikon ma molto raramente. Il mezzo tecnico che ho amato di più è il 6x4,5, il medio formato. È stata una vera rivoluzione degli anni '90, non avevi più bisogno di basculare, tutto era più veloce e immediato. Le foto risultavano più gradevoli, veniva finalmente tolta la fissità del banco ottico. Con questo strumento l'inquadratura e la costruzione dell'immagine avvenivano in contemporanea.
Oggi?
Oggi uso la digitale Canon.
Le differenze tra ieri e oggi?
Una volta si lavorava in diapositiva, era una cosa meravigliosa ma al tempo stesso terrorizzante, bastava un mezzo errore e il lavoro era da buttare. Poi l'attesa prima dello sviluppo era una sorta di stato d'ansia continuativo, un'ora e mezza di attesa perché non si sapeva cosa sarebbe successo. Oggi è estremante facile, puoi fare degli errori di messa a fuoco però poi, durante l'elaborazione e grazie alla postproduzione, salvi l'immagine. Un tempo le cose le dovevi saper fare, a mio avviso era più difficile fotografare. Oggi forse devi saper fare altre cose.
La differenza tra foto fatta con macchina analogica e una fatta con la digitale?
Per me oggi non si può parlare di fotografie, le fotografie erano altra cosa. Oggi sono delle immagini digitali, e con le immagini digitali manca la chimica in quello che facciamo. Mi spiego: solo dopo che ho acquisito l'immagine con la mia Canon faccio la scelta dei filtri e scelgo il mood della foto come tanti, in maniera più dozzinale, fanno con Instagram. Ovviamente il fotografo lo fa in maniera più professionale però, mentre un tempo dovevi fare una scelta ponderata prima dello sviluppo dando indicazioni precise allo stampatore o comprando una determinata pellicola che ti garantiva dei risultati ben precisi, oggi la scelta la fai dopo. La responsabilità della scelta viene posticipata e non è mai definitiva, perché l'immagine la puoi modificare infinite volte e non avrai mai un punto di arrivo. Questo è l'aspetto sconcertante del digitale, oggi il fotografo viene un po' deresponsabilizzato.
Cos'altro non ti convince delle immagini digitali?
Una sgradevolezza del digitale è la falsificazione. Anche un tempo c'erano i fotomontaggi ma erano manifestamente fotomontaggi. Un tempo le fotografie erano Venezia oggi sono Venezia a Las Vegas dove tutto è luccicante e perfetto, ma poco sincero.
Allora perché usi la digitale?!
Perché mi piace tantissimo! In realtà per un paio d'anni ho avuto una fase di sconcerto in cui non mi ritrovavo più, per un po' ho pensato che il nostro lavoro fosse snaturato completamente. Ora ho trovato la mia dimensione: cerco di toccare le immagini il meno possibile dandomi dei limiti nella post produzione. D'altra parte le immagini così come escono dalla macchina digitale non vanno bene, devono essere ritoccate. In pratica sono dei file che contengono il massimo delle informazioni possibili, che poi devi sviluppare estrapolando quelle che più interessano. E puoi farlo mille volte, ritornando sempre al punto di partenza. Oggi con il digitale, prima si acquisisce l'immagine poi la si elabora. Non è colpa nostra. Il mezzo, nonostante ti dia la massima libertà, ti impedisce di scegliere prima.
Quando è nata la passione per il food?
Ho cominciato subito con il food, lo studio dove ho lavorato a diciott'anni faceva per il 90% food.
Nella seconda metà degli anni Ottanta facevamo una guida di cucina, un settimanale pocket di Mondadori. Ricordo con terrore il giorno in cui andava fatta la pubblicità di un preparato per dolci, dovevamo fotografare sette torte che dovevano reggere tutto il tempo del set. Tra i vari intrugli e trucchi usati per farle reggere, mi ricordo un tronchetto di Natale costruito attorno ad un rotolo di Scottex. Da questa esperienza terribile ho cominciato a lavorare sempre con food stylist che fanno tutto con cibo vero perché, mentre la finzione ti porta a fare tutto uguale, il cibo vero porta ad un risultato tutte le volte differente. Non si tratta di ricerca del bello in assoluto ma del bello in quel momento.
Con chi hai collaborato?
Con molti giornali di cucina però ad un certo punto trovavo questo lavoro noioso: la food photography ha dei limiti, devi sempre scrivere un cerchio dentro un quadrato (il piatto dentro il formato rettangolare della foto) poi i punti di ripresa si riducono a tre: in pianta, dal basso e l'altezza che hai quando sei seduto a tavola. È limitante. Per un certo periodo mi sono dunque dato all'arredamento, ora faccio tutto preferendo il reportage, a mio avviso il modo più bello di fotografare il food. Ultimamente per D di Repubblica ho fotografato un'argenteria di Firenze, Pampaloni, che di sera apre la mensa aziendale e si trasforma in ristorante, un posto bellissimo.
Con quali chef hai collaborato?
Bottura, con lui ho ricreato in ottobre un finto Natale a casa sua. Anche con Carlo Cracco, prima che diventasse un personaggio tv, tanto che la mia assistente non avendolo riconosciuto, l'ha scambiato per un fattorino perché aveva dei pacchi in mano. Preferisco però lavorare con le donne chef. La mia preferita? Paola Budel, per me è un genio.
Che opinione ti sei fatto delle app fotografiche per smartphone come Instagram?
Non sono assolutamente contrario però bisogna stare attenti all'uso che si fa dell'immagine, per me ogni scelta estetica è una scelta morale, non si può fotografare tutto. Fotografare è una forma di violenza, un atto invadente, va dunque fatto con moderazione.
Ti riferisci al fenomeno del food porn?
Sì, oggi c'è una sovraesposizione del cibo, dai programmi in tv alle tante foto che inondano i blog (il male assoluto per me è il Boss delle torte!). Sarà perché faccio parte di una generazione dove la pornografia dovevi andartela a cercare ma credo che oggi venga proposta anche se non la si vuole, nell'era del web 2.0 siamo bombardati di informazioni e di immagini che rispecchiano gran poco la realtà: nessuno si accoppia come in un film pornografico, così come il cibo vero non è quello che si trova nei mille blog. Il cibo vero è un'altra cosa, deve essere buono ma non necessariamente bello, il musetto non è proprio bellissimo.
Il miglior strumento per fare delle belle immagini digitali?
L'iPhone! Se faccio delle foto per ritrarre un bel paesaggio mentre vado in bici uso Hipstamatic, un surrogato della pellicola perché, a differenza di Instagram, devi scegliere il filtro prima dello scatto.
Con la Canon ci lavoro.
Un consiglio ai nostri lettori per fare delle belle foto amatoriali?
Pensate tanto al perché state fotografando e scattate se ne vale la pena, se pensate che sia necessario. Se state per fare la duemillesima foto non scattate.
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a cura di Annalisa Zordan